di Ilaria Guidantoni

Abbiamo incontrato questo disegnatore, un narratore attraverso le immagini, alla libreria L’Argonauta libri per viaggiare di Roma qualche tempo fa in occasione della presentazione del suo libro Finestre sul mondo. 50 scrittori, 50 vedute […] e abbiamo deciso di addentrarci in questo mondo di linee e segni, di un grande osservatore.

Come nasce la sua passione per il disegno e quando ha avuto origine? C’è stata un’immagine che ha segnato una svolta?
«Il disegno in realtà è nato con me, o io con lui; nel senso che in famiglia, per via del mestiere di mio padre, ma anche perché mia nonna (da parte materna) era un’artista nascosta — e che a insaputa quasi di tutti dipingeva, faceva intricati e bellissimi arazzi, suonava — il disegno era un linguaggio molto presente, quasi complementare. Non ci sono state quindi vere e proprie svolte, o scoperte. Forse potrei dire di averlo riscoperto un paio di volte: quando avevo 16-18 anni — a quel punto erano parecchi anni che avevo smesso di disegnare e tutt’a un tratto scoprii che mi veniva bene, che mi piaceva. E poi una volta arrivato a New York, a 26 anni — lì mi accorsi che potevo usare il disegno per comprendere (e, forse, raccontare) il meraviglioso mondo in cui ero andato a capitare.»

Quando ha cominciato a dedicarsi in modo serio e poi esclusivo al disegno?

«Appunto, come dicevo sopra, a New York. Mentre ero ancora in Italia, e studiavo architettura, pensavo che il disegno mi sarebbe poi servito semplicemente per poter svolgere il mestiere di architetto. E così è stato: quando ho lavorato nello studio di Richard Meier, a New York, ogni progetto, prima di essere trasferito sui programmi di cad, veniva disegnato a mano, dalle scale al 1.000 fino ai dettagli 1:1. E la mano, come si suol dire, m’è tornata molto utile in quegli anni. Anzi, forse è proprio lì che l’ho addestrata a curarsi delle linee come fossero delle sottilissime e filamentose parole, ognuna importante come le altre e nessuna che predominasse urlando sopra alle altre.»

Come nasce la scelta dei soggetti da ritrarre? È cambiata nel tempo e pensa di cimentarsi in altri ambiti di argomento?
«Mi auguro proprio che mi arrivino altri stimoli o idee in modo da poter variare i miei soggetti o, forse più accuratamente, le mie ossessioni. La scelta è di solito, o almeno finora, una diretta conseguenza di una curiosità, o ossessione appunto. Dapprima fu la città, e nello specifico New York.»

Cosa c’era di quel luogo che tanto l’affascinava?
«Perché me ne ero infatuato tanto? Era in me, solo in me, che dovevo cercare la causa dell’infatuazione? O c’era forse un qualche segreto che avrei potuto scovare disegnandola? Nel cercarne la chiave di lettura, di interpretazione, e una risposta alle domande sopra, ho iniziato a disegnarla da tutti i possibili punti di vista (le lunghe viste disegnate su rotoli), e poi sono entrato nelle finestre dei suoi abitanti per guardarla da lì, e così via.»

Qual è il suo modo di procedere e quali le tappe del suo lavoro? Procede sempre nello stesso modo?

«Dopo parecchi anni credo di poter dire che il mio metodo è sostanzialmente analitico e molto poco, forse troppo poco, istintivo. Se trovo un soggetto che mi interessa, lo studio tramite fotografie e tutto il materiale che può servirmi. “Studiare” per me alla fine non vuol dire altro che far passare del tempo e osservare, non disegnare. Il disegno “arriva” poi, quando so che è il momento giusto, che ho abbastanza informazioni per cercare di sintetizzare quello che ho visto, fotografato o studiato. So che se iniziassi troppo presto finirei per disegnare e quindi descrivere cose che non ho capito, che non ho fatto il più possibile mie. Il disegno al tratto è, purtroppo, un modo di trasferire interpretazione e sintesi; idee e analisi; come in un progetto architettonico, le linee sono dei messaggi chiari, che è meglio non siano fraintesi.»

Cosa l’affascina della visione en plein air e che cosa invece dell’esterno visto da un interno?

«La visione en plein air sostanzialmente mi spaventa. Non sono un disegnatore “performativo”, cioè che si sente a suo agio a schizzare o disegnare con intorno altre persone. Ho bisogno di accumulare informazioni, appunto, prima di poter iniziare. Dall’interno, se dall’interno intendiamo un luogo fisico, una finestra, l’unica differenza è che è più facile raccogliere le informazioni necessarie per poi poter lavorare. Nessuno mi guarda. Se per interno intendiamo metaforicamente la mia mente, allora lì sono molto più a mio agio, coi miei tempi, le mie lentezze, le mie improvvise accelerazioni (inaspettate e rare, ma accadono), e le attese.»

In che rapporto stanno per lei non solo nel risultato artistico l’emozione di quello che vede e il gusto per il dettaglio quasi miniaturistico? 

«È una domanda molto complessa. Innanzitutto perché ci sono quelle due parole, “risultato artistico”, che per me sono un mistero e richiederebbero solo loro dieci pagine. Io vedo nel mio lavoro soprattutto quantità di informazioni da trasmettere. L’ineffabile e inquieto equilibrio tra ciò che si vuole raccontare e il numero di linee usate per farlo (questione che credo sia simile per chi scrive) è per me il nodo cruciale. Mi emoziono quando scopro che disegnando quello prima che stavo solo guardando, senza in realtà vedere, mi si apre un mondo che mi sarebbe sfuggito se non mi fossi soffermato sui dettagli. Il gusto per il dettaglio non è mai fine a se stesso, è per trovare il rapporto tra il tutto e le parti.»

E il colore, cosa aggiunge e cosa toglie a suo parere?

«Riconosco che il colore, per chi lo sa usare, dev’essere una grande soddisfazione. A me crea ansia. Non sono bravo, non lo vedo bene, lo uso male, impropriamente. In più sento che mi distrae, o credo che distragga, dalla fatica delle decisioni fatte per includere oppure omettere un dettaglio, o togliere una linea di troppo. Alle volte riconosco che migliora l’impatto di un disegno, perché il disegno al tratto richiede un diverso tipo di impegno da parte dell’osservatore. Ma alla fine mi piacciono entrambi, e mi sento più libero, meno costretto — ovviamente — quando uso del colore. E allora mi dico che dovrei usarlo di più.»

Quando guarda, osserva, poi disegna, infine contempla il disegno mentalmente racconta una storia o vede delle storie, vite, fantasie che animano? Non ha mai pensato di scriverle? 

«Ci penso sempre. Forse in fondo le sto memorizzando, o sto memorizzando qualcosa su queste avventure fatte di osservazione priva di parole, per ora, per poi scrivere. Nel caso delle finestre, mi era stato chiesto inizialmente dalla casa editrice di scrivere delle tante finestre disegnate per il libro su New York (uscito nel 2009 con Simon & Schuster), ma mi resi conto poi che i racconti o i commenti dei “proprietari” delle varie viste dalle finestre aggiungevano tutto ciò che le mie linee non potevano dire. Che senza di loro i disegni non erano completi. Dei miei scritti, invece, non avrebbero aggiunto molto, sarebbero forse stati noiosi e autoreferenziali — il rischio più grande che si possa correre.»

Per ritrarre qualcosa le deve piacere o può semplicemente incuriosirla? 

«Direi entrambe le cose. Se qualcosa mi piace, però, spesso temo di poterla rovinare disegnandola. Sento più responsabilità, per così dire. Era così per le viste dalle finestre di New York: scegliemmo quelle che raccontavano qualcosa di interessante, nuovo, diverso sulla città, e non viste “già viste”, quelle fotogeniche o più banalmente belle. Il disegno al tratto è in grado di raccontare storie fatte di linee scelte una per una, la fotografia per esempio è meglio attrezzata per rendere il bello con più sicurezza.»

Sta lavorando a qualche altro progetto o almeno idea?
«Dopo l’indicibile sfida della Divina Commedia (l’intera cosmologia in un unico disegno per una nuova edizione della D.C. che sarà pubblicata nel 2016 dalla Loescher), conclusasi non molto tempo fa, mi sto cimentando con un altro bel problema, soprattutto per un architetto: Le città invisibili di Calvino. È una commissione di una casa editrice brasiliana che ha scelto otto città che sto laboriosamente e timorosamente cercando di disegnare. Ma siamo ancora ben lontani. Prosegue invece e continua a produrre risultati sempre più sorprendenti il mio Laboratorio di Architettura Letteraria (www.lablitarch.com).»

Clicca qui per leggere l’intervista direttamente dal sito Saltinaria: 
http://www.saltinaria.it/interviste/interviste-arte/matteo-pericoli-quando-il-disegno-narra-intervista-cultura.html

di Vincenzo Latronico

Rane – Il Sole 24 Ore – 29 settembre 2015

Tecnicamente sarebbe
un “workshop interdisciplinare”.
In pratica, è uno
strabiliante esperimento
intellettuale in grado di
mettere insieme le forbici
con la punta arrotondata
e i racconti di Kafka

In un torrido pomeriggio di inizio luglio stavo parlando con due amici di un testo di Amy Hempel intitolato Il Raccolto. Racconta la storia di un incidente d’auto capitato all’autrice, e poi la racconta di nuovo: elencando le omissioni e gli aggiustamenti fatti alla prima versione per renderla efficace e brillante, svelando le piccole insicurezze di chi scrive, le bugie e le vergogne. L’effetto è accattivante e straniante allo stesso tempo. Alla fine la prima storia – quella “romanzata” – non sta in piedi.
«Non si regge», ho detto. «La seconda parte gli toglie ogni punto d’appoggio».
«È vero», ha detto Stefania. «Servirebbe un pilastro».
Non era una metafora per riferirsi a una frase efficace. Stefania parlava proprio di un pilastro. La prima parte del racconto della Hempel era un osservatorio a picco su una montagna, scavato all’interno di un salone più grande che era la seconda, e non si reggeva.
Poi abbiamo aggiunto un pilastro, che Andrea ha ritagliato nel cartoncino vegetale, e allora sì.
Eravamo al Laboratorio di Architettura Letteraria, uno strabiliante esperimento intellettuale portato avanti da Matteo Pericoli, architetto e disegnatore. Tecnicamente è un “workshop interdisciplinare”, ma il termine è un po’ urticante e calza male a una situazione in cui sono presenti in egual misura Kafka e forbici con la punta arrotondata.
Per introdurre il tema del laboratorio, Pericoli cita spesso un brano di Alice Munro: «Una storia non è una strada da percorrere (…) è più come una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo come le camere stiano in rapporto col corridoio, come il mondo esterno viene alterato se lo guardi da queste finestre. E anche tu, il visitatore, il lettore, sei alterato dall’essere in questo spazio chiuso, ampio e facile o pieno di svolte e angoli che sia, pieno oppure vuoto di arredamento. [Questa casa] trasmette anche un forte senso di sé, di essere stata costruita per una sua necessità, non solo per fare da riparo o per stupirti».
L’idea di fondo del laboratorio è che questa metafora – che il percorso del lettore in un libro è simile al percorso di una persona in uno spazio – può essere presa sul serio; e che l’architettura può essere usata come strumento concettuale per analizzare e comprendere una storia, disegnandone un progetto strutturale e costruendone letteralmente un modello.

Strutture, vuoti, scale

In passato i corsi si sono tenuti in varie forme alla Columbia University di New York e alla Scuola Holden di Torino, in scuole superiori statunitensi e all’Università di Ferrara; io ho preso parte a un’iterazione che si è svolta all’interno del festival “Architettura in città” dell’Ordine degli Architetti di Torino.
Eravamo in quindici, tutti architetti presenti o futuri a parte me; faceva un caldo brutale fuori dai magazzini OZ, l’associazione che ci ospitava. Dopo una breve introduzione di Pericoli, ci siamo divisi in gruppi in base ai testi che avevamo scelto. Ci siamo seduti a un tavolo, ci siamo presentati rapidamente e abbiamo cominciato a parlare del testo di Hempel. Era come se parlassimo di architettura. Dicevamo tensione, struttura, ritmo, aperture e chiusure, connessioni, passaggi, sequenze, vuoto. Dicevamo scena, che in realtà è il luogo dove le scene narrative si svolgono. Dicevamo climax, che significa scala.
Secondo il grande linguista George Lakoff le metafore non sono casuali: più sono cementate nel nostro linguaggio, più rivelano che l’affinità fra i due campi ha un reale fondamento cognitivo. È celebre l’esempio della matematica, di cui si parla spesso con metafora spaziale (numeri che si seguono, insiemi che contengono); Lakoff ha dimostrato che i processi mentali che attiva nel cervello sono gli stessi usati per orientarsi nel movimento.
Non so se ci sia un qualche fondamento cognitivo nell’idea che una storia è come una casa (ne dubito); quello che so è che parlare di una storia come se fosse una casa è un modo estremamente efficace per comprenderla.
Penso al nostro caso: tre sconosciuti seduti intorno a un tavolo che devono discutere di un testo che hanno letto. Le probabilità che qualcosa vada storto sono altissime: si può finire schiacciati dal silenzio imbarazzato, o smarriti nelle astrazioni sclerotizzate a cui ci abitua la scuola («intenzione dell’autore», «contesto storico»), o bloccati nel pantano del «secondo-me-lei-non-lo-amava-davvero».
A noi non è capitato nulla di tutto questo; la metafora architettonica ci ha indirizzati verso l’essenziale. La Hempel raccontava una storia, e poi l’episodio reale da cui questa era nata: e cioè l’episodio su cui questa si fondava, su cui si basava, che la racchiudeva. Questi sono termini spaziali, e ci è stato chiaro che la struttura del racconto si traduceva in due ambienti fra cui vigeva uno di quei rapporti.

La spirale di Dumas

Mi è venuto immediato estendere questa procedura ad altri testi che conosco e amo.
Democracy di Joan Didion – una storia d’amore raccontata in modo esploso, tornando ciclicamente alla stessa scena madre per poi diramarsi ogni volta in un momento diverso del passato dei due – è un labirinto in cui si ripassa sempre da una stanza centrale, vedendola ogni volta da prospettive diverse.
Il conte di Monte-Cristo di Alexandre Dumas, che racconta di una vendetta preparata per decenni, è una spirale ascendente: visto di fianco, è la storia di un’ascesa vertiginosa, visto da sopra è un percorso che porta esattamente al punto di partenza, e probabilmente finisce in uno strapiombo.
Questo è a tutti gli effetti un modo di visualizzare un’idea astratta, anzi, di toccarla con mano: finito il progetto ci siamo messi a realizzarne un modello. Oltre che essere molto divertente per me che passo la vita al computer (colla! taglierino!), questo ci ha permesso di scoprire aspetti di quell’idea che prima, al solo pensiero, non erano evidenti.
Ad esempio: tutto ciò che non è finito nel nostro progetto – i personaggi, le piccole scene, le battute di dialogo – si rivelava in qualche modo inessenziale; un personaggio poteva essere eliminato, una conversazione allungarsi o svolgersi altrove, ma l’esperienza complessiva del lettore non sarebbe cambiata in maniera cruciale. Questa è una verità che fa rabbrividire critici e teorici, ma che ogni lettore sa bene: in un romanzo, molta della superficie è secondaria o comunque rimpiazzabile, purché lo scheletro, progettato in ogni dettaglio e calibrato al microgrammo, resti inalterato. È quello scheletro che si costruisce nel modello. Vederne una prova sotto i miei occhi è stato sbalorditivo.
Ancora più sbalorditivo è stato rendersi conto che, alla fine del laboratorio, all’esposizione dei modelli, mi trovavo in una stanza con quindici persone che avevano passato tre giorni a discutere di teoria letteraria: ed era stato, inspiegabilmente, divertente e proficuo.

Lettori sudati

Credo che sia qui la rilevanza profonda del laboratorio, che va ben al di là delle sfere ristrette di scrittori e architetti e ha a che fare col modo in cui si comprende e si insegna la letteratura.
Tempo fa, sulle pagine di questo giornale, lamentavo la pesantezza e l’inefficacia del suo insegnamento scolastico, che spesso la fa apparire come una montagna inespugnabile anziché come una fonte di gioia. Sostenevo che era anche per questo che si leggeva poco e male. Di recente mi ha risposto Giusi Marchetta con uno splendido saggio (Lettori si cresce, Einaudi 2015) in cui argomenta che è un bene che gli studenti vedano la letteratura come una montagna, perché la scuola deve opporsi al meccanismo della gratificazione istantanea e insegnare che i premi importanti vanno sudati.
La sua tesi mi ha convinto, eppure restavo – resto – dell’idea che le montagne siano spaventose e inospitali, e che se la letteratura viene mostrata come tale gli studenti continueranno a preferire le spiagge di Instagram e le piscine gonfiabili di Candy Crush.
Al laboratorio – facendo teoria letteraria con cartoncino e matite – ho visto un’altra possibilità. Su quella montagna ci si costruisce una casa.

Leggi sul sito del Sole 24 Ore:
https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-09-28/laboratorio-architettura-letteraria-184136.shtml

Finestre sul mondo sul Sole 24 Ore

di Vincenzo Latronico

“Ma che cos’è una vista? Né un oggetto, né un posto, forse l’intersezione fra entrambe le cose e una persona che vi si trova; basta spostare appena lo sguardo, avvicinarsi di mezzo passo, per trasformarla drasticamente. Per questo una fotografia non potrebbe mai renderla in modo fedele: mostra ciò che c’è, non ciò che si vede. I disegni di Pericoli sì. Essenziali e privi di sfocatura prospettica, nascono da un lavoro certosino basato su decine e decine di scatti diversi; il tratto è allo stesso tempo dettagliatissimo e un filo tremulo, come per ricostruire i meccanismi dell’attenzione.”

 

Continua a leggere: https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-05-27/con-vista-205117.shtml

di Matteo Pericoli
La Stampa Esteri, 10 maggio 2015

La settimana scorsa si è riunito il consiglio municipale della città di New York per discutere una proposta di legge, sostenuta dall’amministrazione del sindaco Bill de Blasio, che ha l’obiettivo di diminuire l’impatto ambientale di New York. La legge obbligherebbe, infatti, migliaia di edifici commerciali a ridurre in certe ore della notte l’illuminazione sia interna che esterna — in sostanza, a spegnere le luci quando si va via. La proposta, in linea con la promessa di Bill de Blasio di fare di New York una città più verde, ha, com’era prevedibile, sollevato animate reazioni da parte dei cittadini: da un lato, tra i favorevoli, gli ambientalisti e amanti della natura, che temono per le migrazioni notturne di uccelli e sognano notti più stellate; dall’altro, tra i contrari, quelli che associano la luce a un’idea di prosperità, di ostentata bellezza, di attrattiva turistica e, in qualche modo, a un senso di sicurezza.

Negli ultimi anni il mercato immobiliare di New York è esploso, sia dal punto di vista finanziario – risale al dicembre scorso la prima volta nella storia della città che un’unità residenziale non indipendente viene venduta a più di 100 milioni di dollari – che fisico: si stanno infatti moltiplicando gli edifici residenziali e commerciali che regolarmente battono record di altezza o volumetria. Dal nuovo grattacielo del World Trade Center all’ultima torre residenziale per straricchi, 432 Park Avenue, in una sorta di gara cacofonico-luminosa ognuno di questi edifici viene illuminato di notte perché sia più visibile del vicino.

Consapevoli forse che l’effetto dell’illuminazione scenica, cioè fine a se stessa e non utilitaristica, sia un elemento ormai parte del paesaggio urbano di New York, la proposta di legge include una piccola ma quasi diabolica eccezione: potranno illuminarsi per bellezza quegli edifici che sono “parte significativa dello skyline della città”. Ciò vuol dire che alcuni amministratori comunali si troveranno in pratica ad avere il “mandato di curare” (nel senso di curare una mostra) “lo skyline della città”, come dice il direttore della Landmarks Preservation Commission, a decidere cioè chi merita l’illuminazione teatrale notturna e chi no.

Dopo aver passato diversi anni a disegnare il profilo di Manhattan nella sua interezza – sia dall’esterno, come si vede circumnavigando l’isola, sia dall’interno, come lo si vede da Central Park – mi domando se i consiglieri comunali abbiano trovato delle risposte alla domande che mi hanno assillato a lungo: che cos’è lo skyline di una città? È una cosa fisica, tangibile, reale? O è solo un’idea, una percezione collettiva di un organismo in evoluzione che si trasforma nel tempo? E, soprattutto, può essere progettata o, addirittura, curata?

Lo skyline
Mi sono convinto nel tempo che lo skyline di una città, cioè il risultato di decenni di politiche territoriali e di sviluppo urbano, è un organismo con una sua energia e vitalità proprie. L’idea di controllarlo, di ulteriormente abbellirlo illuminandolo come fosse un singolo oggetto, va contro la sua natura. Poiché, come ho scoperto disegnandolo, è il contesto che rende lo skyline leggibile e, non potendo dire esattamente dove inizia e dove finisce, cosa vi appartiene con certezza e cosa non, dovremmo essere in grado di assorbirlo nella sua totalità e vedere la città accendersi e spegnersi seguendo i suoi ritmi naturali. Se New York è veramente la città che non dorme mai, allora non abbiamo bisogno di luci che lo accentuino, basta guardarla.

Una delle cose che impressiona di più, quando si arriva a New York la prima volta, è vederla respirare con le luci proprie: abituati agli scuri che di sera scendono nelle nostre città, Manhattan sembra svegliarsi al crepuscolo e cambiare d’abito. Gli uffici emanano la loro omogenea luce lavorativa ancora per un po’, poi il bagliore si trasferisce altrove. Forse si abbassa, e in certi punti può anche finire per spegnersi, ma non per questo si perde il fascino di un luogo vivo con i suoi cicli naturali. In questi momenti di passaggio la bellezza di Manhattan è ancor più struggente perché, incontrollata e incontrollabile, sembra inconsapevole e umana.

Leggi dal sito de La Stampa:
https://www.lastampa.it/esteri/2015/05/10/news/de-blasio-vuole-spegnere-le-mille-luci-di-new-york-1.35260453

by Matteo Pericoli

On March 4th, the site FiveThirtyEight published a telling review of Draftback, an application that “treats writing like data.” In its current form, Draftback is a Google Chrome extension, which basically records in real time not only all of the keys that are pressed while writing a text (thus all the letters, spaces, returns, deletions, ctrl+Zs, cut and pastes, etc.), but also the time intervals between keystrokes. At the end, Draftback plays everything back to us with a kind of animation of the actual act of writing, which can be replayed at either “normal” speed, i.e. at the exact pace with which the text was written, or fast forward.

Before Draftback, the programmer (and writer) James Somers spent several years trying to develop a program that would do what Google Docs had always done: record and archive all of the keystrokes in all of the documents that were saved on its servers. After hacking Google Docs, he was able to view all of the animations of his texts.

The idea of an application that shows the trail that the act of writing leaves behind during its laborious journey is noteworthy.

On the one hand is the effect of progress: for those still accustomed to using paper and pen, and are aware of the existence of the typewriter, the possibility of seeing the passage from one draft to the next, from one idea to another, among mistakes and missteps, represents the norm, nothing new. Yet for many, technology instead marks an inexorable disconnection between cognitive and perceptional experiences that were fairly common until recently. Thus the time often comes when some kind of technology is invented to satisfy the curiously resurfacing desire of filling the void between the digital and the analogical experience.

On the other hand, there is also a great pleasure, common to many, of being able to peek into someone else’s creative process, perhaps in the hope of being able to extract some secret.

However, the reviewer’s argument unmasks a fundamental misunderstanding. The programmer tells the reviewer: “We know how to make a violinist better,” but “we don’t know how to make a writer better.” The idea is that by viewing a text while it is being written one can better understand the technique or the process with which it was created, and therefore correct or improve it. But writing is not a performing discipline as playing the violin is; it is a compositional one. And contrary to the execution of a piece of music, the composition of a text can only be analyzed at an advanced stage of the work. In fact, it is only in front of a completed sentence, or paragraph, that a hypothetical teacher can intervene to improve it.

Ultimately, and more unexceptionally, by watching an “animated” piece of writing with Draftback we might feel somewhat reassured by someone else’s mistakes, afterthoughts, deletions, and hesitations. It is quite true that, when facing, alone, a blank screen or a plain sheet of paper, we are all being tossed by the waves on the same, fragile boat and it is futile to seek rescue from elsewhere.

Original piece in Italian here: https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-04-29/la-storia-miei-filedoc-181300.shtml