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Poems Selected by Shakespeare and Company

Paris in Our View is a collection of fifty-five poems reflecting Shakespeare and Company’s perspective on the French capital—a perspective formed both by the books on our shelves and by the readers and writers who pass each day through our doors.

The acclaimed Italian illustrator Matteo Pericoli provides the gorgeous line drawings, which depict the window views of poets who, at one time or another, made their homes in Paris. These include the views of Arthur Rimbaud, Gertrude Stein and Alice B. Toklas, Charles Baudelaire, Julio Cortázar, Aimé Césaire, Aja Monet, César Vallejo, Victor Hugo, Natalie Clifford Barney, and Oscar Wilde—as well as those of the Beat Hotel and Shakespeare and Company, whose window onto Notre-Dame cathedral and Hôtel-Dieu is featured on the book’s cover.

di Ilaria Guidantoni

Abbiamo incontrato questo disegnatore, un narratore attraverso le immagini, alla libreria L’Argonauta libri per viaggiare di Roma qualche tempo fa in occasione della presentazione del suo libro Finestre sul mondo. 50 scrittori, 50 vedute […] e abbiamo deciso di addentrarci in questo mondo di linee e segni, di un grande osservatore.

Come nasce la sua passione per il disegno e quando ha avuto origine? C’è stata un’immagine che ha segnato una svolta?
«Il disegno in realtà è nato con me, o io con lui; nel senso che in famiglia, per via del mestiere di mio padre, ma anche perché mia nonna (da parte materna) era un’artista nascosta — e che a insaputa quasi di tutti dipingeva, faceva intricati e bellissimi arazzi, suonava — il disegno era un linguaggio molto presente, quasi complementare. Non ci sono state quindi vere e proprie svolte, o scoperte. Forse potrei dire di averlo riscoperto un paio di volte: quando avevo 16-18 anni — a quel punto erano parecchi anni che avevo smesso di disegnare e tutt’a un tratto scoprii che mi veniva bene, che mi piaceva. E poi una volta arrivato a New York, a 26 anni — lì mi accorsi che potevo usare il disegno per comprendere (e, forse, raccontare) il meraviglioso mondo in cui ero andato a capitare.»

Quando ha cominciato a dedicarsi in modo serio e poi esclusivo al disegno?

«Appunto, come dicevo sopra, a New York. Mentre ero ancora in Italia, e studiavo architettura, pensavo che il disegno mi sarebbe poi servito semplicemente per poter svolgere il mestiere di architetto. E così è stato: quando ho lavorato nello studio di Richard Meier, a New York, ogni progetto, prima di essere trasferito sui programmi di cad, veniva disegnato a mano, dalle scale al 1.000 fino ai dettagli 1:1. E la mano, come si suol dire, m’è tornata molto utile in quegli anni. Anzi, forse è proprio lì che l’ho addestrata a curarsi delle linee come fossero delle sottilissime e filamentose parole, ognuna importante come le altre e nessuna che predominasse urlando sopra alle altre.»

Come nasce la scelta dei soggetti da ritrarre? È cambiata nel tempo e pensa di cimentarsi in altri ambiti di argomento?
«Mi auguro proprio che mi arrivino altri stimoli o idee in modo da poter variare i miei soggetti o, forse più accuratamente, le mie ossessioni. La scelta è di solito, o almeno finora, una diretta conseguenza di una curiosità, o ossessione appunto. Dapprima fu la città, e nello specifico New York.»

Cosa c’era di quel luogo che tanto l’affascinava?
«Perché me ne ero infatuato tanto? Era in me, solo in me, che dovevo cercare la causa dell’infatuazione? O c’era forse un qualche segreto che avrei potuto scovare disegnandola? Nel cercarne la chiave di lettura, di interpretazione, e una risposta alle domande sopra, ho iniziato a disegnarla da tutti i possibili punti di vista (le lunghe viste disegnate su rotoli), e poi sono entrato nelle finestre dei suoi abitanti per guardarla da lì, e così via.»

Qual è il suo modo di procedere e quali le tappe del suo lavoro? Procede sempre nello stesso modo?

«Dopo parecchi anni credo di poter dire che il mio metodo è sostanzialmente analitico e molto poco, forse troppo poco, istintivo. Se trovo un soggetto che mi interessa, lo studio tramite fotografie e tutto il materiale che può servirmi. “Studiare” per me alla fine non vuol dire altro che far passare del tempo e osservare, non disegnare. Il disegno “arriva” poi, quando so che è il momento giusto, che ho abbastanza informazioni per cercare di sintetizzare quello che ho visto, fotografato o studiato. So che se iniziassi troppo presto finirei per disegnare e quindi descrivere cose che non ho capito, che non ho fatto il più possibile mie. Il disegno al tratto è, purtroppo, un modo di trasferire interpretazione e sintesi; idee e analisi; come in un progetto architettonico, le linee sono dei messaggi chiari, che è meglio non siano fraintesi.»

Cosa l’affascina della visione en plein air e che cosa invece dell’esterno visto da un interno?

«La visione en plein air sostanzialmente mi spaventa. Non sono un disegnatore “performativo”, cioè che si sente a suo agio a schizzare o disegnare con intorno altre persone. Ho bisogno di accumulare informazioni, appunto, prima di poter iniziare. Dall’interno, se dall’interno intendiamo un luogo fisico, una finestra, l’unica differenza è che è più facile raccogliere le informazioni necessarie per poi poter lavorare. Nessuno mi guarda. Se per interno intendiamo metaforicamente la mia mente, allora lì sono molto più a mio agio, coi miei tempi, le mie lentezze, le mie improvvise accelerazioni (inaspettate e rare, ma accadono), e le attese.»

In che rapporto stanno per lei non solo nel risultato artistico l’emozione di quello che vede e il gusto per il dettaglio quasi miniaturistico? 

«È una domanda molto complessa. Innanzitutto perché ci sono quelle due parole, “risultato artistico”, che per me sono un mistero e richiederebbero solo loro dieci pagine. Io vedo nel mio lavoro soprattutto quantità di informazioni da trasmettere. L’ineffabile e inquieto equilibrio tra ciò che si vuole raccontare e il numero di linee usate per farlo (questione che credo sia simile per chi scrive) è per me il nodo cruciale. Mi emoziono quando scopro che disegnando quello prima che stavo solo guardando, senza in realtà vedere, mi si apre un mondo che mi sarebbe sfuggito se non mi fossi soffermato sui dettagli. Il gusto per il dettaglio non è mai fine a se stesso, è per trovare il rapporto tra il tutto e le parti.»

E il colore, cosa aggiunge e cosa toglie a suo parere?

«Riconosco che il colore, per chi lo sa usare, dev’essere una grande soddisfazione. A me crea ansia. Non sono bravo, non lo vedo bene, lo uso male, impropriamente. In più sento che mi distrae, o credo che distragga, dalla fatica delle decisioni fatte per includere oppure omettere un dettaglio, o togliere una linea di troppo. Alle volte riconosco che migliora l’impatto di un disegno, perché il disegno al tratto richiede un diverso tipo di impegno da parte dell’osservatore. Ma alla fine mi piacciono entrambi, e mi sento più libero, meno costretto — ovviamente — quando uso del colore. E allora mi dico che dovrei usarlo di più.»

Quando guarda, osserva, poi disegna, infine contempla il disegno mentalmente racconta una storia o vede delle storie, vite, fantasie che animano? Non ha mai pensato di scriverle? 

«Ci penso sempre. Forse in fondo le sto memorizzando, o sto memorizzando qualcosa su queste avventure fatte di osservazione priva di parole, per ora, per poi scrivere. Nel caso delle finestre, mi era stato chiesto inizialmente dalla casa editrice di scrivere delle tante finestre disegnate per il libro su New York (uscito nel 2009 con Simon & Schuster), ma mi resi conto poi che i racconti o i commenti dei “proprietari” delle varie viste dalle finestre aggiungevano tutto ciò che le mie linee non potevano dire. Che senza di loro i disegni non erano completi. Dei miei scritti, invece, non avrebbero aggiunto molto, sarebbero forse stati noiosi e autoreferenziali — il rischio più grande che si possa correre.»

Per ritrarre qualcosa le deve piacere o può semplicemente incuriosirla? 

«Direi entrambe le cose. Se qualcosa mi piace, però, spesso temo di poterla rovinare disegnandola. Sento più responsabilità, per così dire. Era così per le viste dalle finestre di New York: scegliemmo quelle che raccontavano qualcosa di interessante, nuovo, diverso sulla città, e non viste “già viste”, quelle fotogeniche o più banalmente belle. Il disegno al tratto è in grado di raccontare storie fatte di linee scelte una per una, la fotografia per esempio è meglio attrezzata per rendere il bello con più sicurezza.»

Sta lavorando a qualche altro progetto o almeno idea?
«Dopo l’indicibile sfida della Divina Commedia (l’intera cosmologia in un unico disegno per una nuova edizione della D.C. che sarà pubblicata nel 2016 dalla Loescher), conclusasi non molto tempo fa, mi sto cimentando con un altro bel problema, soprattutto per un architetto: Le città invisibili di Calvino. È una commissione di una casa editrice brasiliana che ha scelto otto città che sto laboriosamente e timorosamente cercando di disegnare. Ma siamo ancora ben lontani. Prosegue invece e continua a produrre risultati sempre più sorprendenti il mio Laboratorio di Architettura Letteraria (www.lablitarch.com).»

Clicca qui per leggere l’intervista direttamente dal sito Saltinaria: 
http://www.saltinaria.it/interviste/interviste-arte/matteo-pericoli-quando-il-disegno-narra-intervista-cultura.html

by Matteo Pericoli

On March 4th, the site FiveThirtyEight published a telling review of Draftback, an application that “treats writing like data.” In its current form, Draftback is a Google Chrome extension, which basically records in real time not only all of the keys that are pressed while writing a text (thus all the letters, spaces, returns, deletions, ctrl+Zs, cut and pastes, etc.), but also the time intervals between keystrokes. At the end, Draftback plays everything back to us with a kind of animation of the actual act of writing, which can be replayed at either “normal” speed, i.e. at the exact pace with which the text was written, or fast forward.

Before Draftback, the programmer (and writer) James Somers spent several years trying to develop a program that would do what Google Docs had always done: record and archive all of the keystrokes in all of the documents that were saved on its servers. After hacking Google Docs, he was able to view all of the animations of his texts.

The idea of an application that shows the trail that the act of writing leaves behind during its laborious journey is noteworthy.

On the one hand is the effect of progress: for those still accustomed to using paper and pen, and are aware of the existence of the typewriter, the possibility of seeing the passage from one draft to the next, from one idea to another, among mistakes and missteps, represents the norm, nothing new. Yet for many, technology instead marks an inexorable disconnection between cognitive and perceptional experiences that were fairly common until recently. Thus the time often comes when some kind of technology is invented to satisfy the curiously resurfacing desire of filling the void between the digital and the analogical experience.

On the other hand, there is also a great pleasure, common to many, of being able to peek into someone else’s creative process, perhaps in the hope of being able to extract some secret.

However, the reviewer’s argument unmasks a fundamental misunderstanding. The programmer tells the reviewer: “We know how to make a violinist better,” but “we don’t know how to make a writer better.” The idea is that by viewing a text while it is being written one can better understand the technique or the process with which it was created, and therefore correct or improve it. But writing is not a performing discipline as playing the violin is; it is a compositional one. And contrary to the execution of a piece of music, the composition of a text can only be analyzed at an advanced stage of the work. In fact, it is only in front of a completed sentence, or paragraph, that a hypothetical teacher can intervene to improve it.

Ultimately, and more unexceptionally, by watching an “animated” piece of writing with Draftback we might feel somewhat reassured by someone else’s mistakes, afterthoughts, deletions, and hesitations. It is quite true that, when facing, alone, a blank screen or a plain sheet of paper, we are all being tossed by the waves on the same, fragile boat and it is futile to seek rescue from elsewhere.

Original piece in Italian here: https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-04-29/la-storia-miei-filedoc-181300.shtml


Il World Trade Center risulta più alto della Willis Tower di Chicago
I rivali attaccano: “Antenna camuffata da guglia”. A novembre il verdetto

di Matteo Pericoli

La Stampa, Cultura & Spettacoli, 8 ottobre 2013

 

 

Perché un primato sia veramente tale, deve essere innanzitutto verificato e in qualche modo certificato. Dopo sette anni dall’inizio dei lavori, il 2 maggio scorso viene finalmente issata l’ultima porzione di un enorme pinnacolo alto 124 metri in cima al nuovo grattacielo del World Trade Center (inizialmente noto come Freedom Tower, ma ribattezzato One World Trade Center nel 2009). Quando, nel giro di poche ore, la Port Authority of New York & New Jersey (vale a dire la proprietà dell’intero complesso) dichiara in un comunicato stampa, con un pizzico di arroganza, che «una volta completato, con i suoi 1776 piedi di altezza (541 metri) One WTC sarà l’edificio più alto dell’emisfero ovest», la reazione da parte di chi tali primati non li prende alla leggera non è di unanime accordo.

Perché? Per motivi linguistici e architettonici. Nel comunicato stampa si parla di «edificio» («building»), mentre in realtà si sarebbe dovuto usare, preventivamente, il termine meno specifico di «struttura». Infatti, i primati aggiudicati alle strutture alte sono suddivisi in tre categorie: 1) altezza architettonica (quella comunemente accettata per la definizione di «edificio»), cioè dalla base fuori terra fino alla punta architettonica, vale a dire incluso un eventuale pinnacolo (che abbia funzioni principalmente estetiche), ma non un’eventuale antenna, o ripetitore, o asta per bandiera, e così via; 2) altezza di utilizzo, cioè dalla base fino all’ultima quota abitata all’interno della struttura; e 3) altezza massima, cioè dalla base fino al punto più alto della struttura, qualsiasi esso sia (antenne e aste incluse).

Per districarci da questi pasticci linguistico-architettonici si riunirà a inizio novembre il «Council on Tall Buildings and Urban Habitat» di Chicago, fondato nel 1969 per stilare, una volta per tutte e senza dubbi, la classifica degli edifici più alti del mondo. Ma riusciranno a rimanere imparziali? Infatti, il «Council of Tall Buildings» ha sede a Chicago, la città della Willis Tower (fino a poco tempo fa nota come Sears Tower), nonché l’attuale detentrice del titolo di «edificio più alto dell’emisfero ovest» con i suoi 442 m di altezza architettonica, 413 m di altezza di utilizzo e 527 m di altezza massima.

La voglia di costruire sempre più in alto ha radici e tradizioni antiche. Senza andare troppo indietro nel tempo, nella stessa New York ci fu l’avvincente e, visti i tempi (erano gli anni 1929-1930), entusiasmante corsa al primato di altezza tra i grattacieli 40 Wall Street e Chrysler Building. La gara si consumò durante la costruzione, pressoché simultanea, dei due grattacieli. E finì con un colpo di coda, una mossa di furbizia ingegneristica, quando il famoso pinnacolo di completamento del Chrysler Building venne prima trasportato (di nascosto e rimpicciolito come un palo telescopico chiuso) in cima al cantiere, poi issato e infine, in poche ore, esteso a mo’ di canna da pesca per sorpassare l’ormai finito 40 Wall Street e regalare così il primato, durato poi solo un anno, al Chrysler Building.

E, senza andare troppo lontano, anche Torino ha dovuto di recente confrontarsi con la complessa questione se sconfiggere o meno un primato d’altezza. Infatti, il nuovo grattacielo della Compagnia di San Paolo alla fine non ce l’ha fatta a sorpassare la Mole Antonelliana e rimarrà più basso, anche se solo di una manciata di centimetri.

Dopo il comunicato stampa di maggio, in cui la «Port Authority of NY & NJ» si vantava che il One WTC fosse l’«edificio» più alto dell’emisfero ovest, è sorto un terribile dubbio. In un articolo in prima pagina del 10 settembre scorso, il Chicago Tribune si domanda se quel pinnacolo non sia forse un’antenna camuffata, abbassando quindi la quota dell’edificio vero e proprio, e lasciando così il titolo alla Willis Tower di Chicago. È vero che alla fine, per la città con l’edificio certificato più alto, c’è un premio che va oltre la questione di vanità; e cioè: più turisti, più prodotti da commercializzare e vendere, più diritti (legali, certificati) di vantarsene, affitti più alti, insomma un po’ più di tutto.

Intanto, in attesa della deliberazione del «Council on Tall Buildings» a inizio novembre, bisognerebbe forse soffermarsi a ripensare a questa ossessione così marcatamente fallica per gli edifici che a tutti i costi devono ergersi più alti degli altri, quando la vera magia dell’architettura è l’esatto opposto, cioè lo spazio pensato per essere percepito dal di dentro e che solo raramente possiamo cogliere nella sua interezza.

Ma, attenzione, una vittoria di New York e del One WTC potrebbe nascondere un’ironica sconfitta. Quattro anni fa, il «Council on Tall Buildings» ha cambiato le regole su come si misura l’altezza di un edificio: la base deve essere calcolata dal punto più basso di accesso pedonale. One WTD ha un ingresso secondario sulla facciata nord, che è più basso di cinque piedi rispetto a quello principale, sulla facciata sud. Dai fatidici 1776 piedi, numero che evoca l’anno della dichiarazione d’indipendenza statunitense, si passerebbe a un’altezza di 1781 piedi, e quindi a una data che, volendo, potrebbe ricordare, a vostra scelta: la scoperta del pianeta Urano, la fondazione di Los Angeles, o la pubblicazione della Critica della ragion pura di Kant.


La Stampa, 8 ottobre 2013

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