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di Matteo Pericoli
La Stampa Esteri, 10 maggio 2015

La settimana scorsa si è riunito il consiglio municipale della città di New York per discutere una proposta di legge, sostenuta dall’amministrazione del sindaco Bill de Blasio, che ha l’obiettivo di diminuire l’impatto ambientale di New York. La legge obbligherebbe, infatti, migliaia di edifici commerciali a ridurre in certe ore della notte l’illuminazione sia interna che esterna — in sostanza, a spegnere le luci quando si va via. La proposta, in linea con la promessa di Bill de Blasio di fare di New York una città più verde, ha, com’era prevedibile, sollevato animate reazioni da parte dei cittadini: da un lato, tra i favorevoli, gli ambientalisti e amanti della natura, che temono per le migrazioni notturne di uccelli e sognano notti più stellate; dall’altro, tra i contrari, quelli che associano la luce a un’idea di prosperità, di ostentata bellezza, di attrattiva turistica e, in qualche modo, a un senso di sicurezza.

Negli ultimi anni il mercato immobiliare di New York è esploso, sia dal punto di vista finanziario – risale al dicembre scorso la prima volta nella storia della città che un’unità residenziale non indipendente viene venduta a più di 100 milioni di dollari – che fisico: si stanno infatti moltiplicando gli edifici residenziali e commerciali che regolarmente battono record di altezza o volumetria. Dal nuovo grattacielo del World Trade Center all’ultima torre residenziale per straricchi, 432 Park Avenue, in una sorta di gara cacofonico-luminosa ognuno di questi edifici viene illuminato di notte perché sia più visibile del vicino.

Consapevoli forse che l’effetto dell’illuminazione scenica, cioè fine a se stessa e non utilitaristica, sia un elemento ormai parte del paesaggio urbano di New York, la proposta di legge include una piccola ma quasi diabolica eccezione: potranno illuminarsi per bellezza quegli edifici che sono “parte significativa dello skyline della città”. Ciò vuol dire che alcuni amministratori comunali si troveranno in pratica ad avere il “mandato di curare” (nel senso di curare una mostra) “lo skyline della città”, come dice il direttore della Landmarks Preservation Commission, a decidere cioè chi merita l’illuminazione teatrale notturna e chi no.

Dopo aver passato diversi anni a disegnare il profilo di Manhattan nella sua interezza – sia dall’esterno, come si vede circumnavigando l’isola, sia dall’interno, come lo si vede da Central Park – mi domando se i consiglieri comunali abbiano trovato delle risposte alla domande che mi hanno assillato a lungo: che cos’è lo skyline di una città? È una cosa fisica, tangibile, reale? O è solo un’idea, una percezione collettiva di un organismo in evoluzione che si trasforma nel tempo? E, soprattutto, può essere progettata o, addirittura, curata?

Lo skyline
Mi sono convinto nel tempo che lo skyline di una città, cioè il risultato di decenni di politiche territoriali e di sviluppo urbano, è un organismo con una sua energia e vitalità proprie. L’idea di controllarlo, di ulteriormente abbellirlo illuminandolo come fosse un singolo oggetto, va contro la sua natura. Poiché, come ho scoperto disegnandolo, è il contesto che rende lo skyline leggibile e, non potendo dire esattamente dove inizia e dove finisce, cosa vi appartiene con certezza e cosa non, dovremmo essere in grado di assorbirlo nella sua totalità e vedere la città accendersi e spegnersi seguendo i suoi ritmi naturali. Se New York è veramente la città che non dorme mai, allora non abbiamo bisogno di luci che lo accentuino, basta guardarla.

Una delle cose che impressiona di più, quando si arriva a New York la prima volta, è vederla respirare con le luci proprie: abituati agli scuri che di sera scendono nelle nostre città, Manhattan sembra svegliarsi al crepuscolo e cambiare d’abito. Gli uffici emanano la loro omogenea luce lavorativa ancora per un po’, poi il bagliore si trasferisce altrove. Forse si abbassa, e in certi punti può anche finire per spegnersi, ma non per questo si perde il fascino di un luogo vivo con i suoi cicli naturali. In questi momenti di passaggio la bellezza di Manhattan è ancor più struggente perché, incontrollata e incontrollabile, sembra inconsapevole e umana.

Leggi dal sito de La Stampa:
https://www.lastampa.it/esteri/2015/05/10/news/de-blasio-vuole-spegnere-le-mille-luci-di-new-york-1.35260453


Il World Trade Center risulta più alto della Willis Tower di Chicago
I rivali attaccano: “Antenna camuffata da guglia”. A novembre il verdetto

di Matteo Pericoli

La Stampa, Cultura & Spettacoli, 8 ottobre 2013

 

 

Perché un primato sia veramente tale, deve essere innanzitutto verificato e in qualche modo certificato. Dopo sette anni dall’inizio dei lavori, il 2 maggio scorso viene finalmente issata l’ultima porzione di un enorme pinnacolo alto 124 metri in cima al nuovo grattacielo del World Trade Center (inizialmente noto come Freedom Tower, ma ribattezzato One World Trade Center nel 2009). Quando, nel giro di poche ore, la Port Authority of New York & New Jersey (vale a dire la proprietà dell’intero complesso) dichiara in un comunicato stampa, con un pizzico di arroganza, che «una volta completato, con i suoi 1776 piedi di altezza (541 metri) One WTC sarà l’edificio più alto dell’emisfero ovest», la reazione da parte di chi tali primati non li prende alla leggera non è di unanime accordo.

Perché? Per motivi linguistici e architettonici. Nel comunicato stampa si parla di «edificio» («building»), mentre in realtà si sarebbe dovuto usare, preventivamente, il termine meno specifico di «struttura». Infatti, i primati aggiudicati alle strutture alte sono suddivisi in tre categorie: 1) altezza architettonica (quella comunemente accettata per la definizione di «edificio»), cioè dalla base fuori terra fino alla punta architettonica, vale a dire incluso un eventuale pinnacolo (che abbia funzioni principalmente estetiche), ma non un’eventuale antenna, o ripetitore, o asta per bandiera, e così via; 2) altezza di utilizzo, cioè dalla base fino all’ultima quota abitata all’interno della struttura; e 3) altezza massima, cioè dalla base fino al punto più alto della struttura, qualsiasi esso sia (antenne e aste incluse).

Per districarci da questi pasticci linguistico-architettonici si riunirà a inizio novembre il «Council on Tall Buildings and Urban Habitat» di Chicago, fondato nel 1969 per stilare, una volta per tutte e senza dubbi, la classifica degli edifici più alti del mondo. Ma riusciranno a rimanere imparziali? Infatti, il «Council of Tall Buildings» ha sede a Chicago, la città della Willis Tower (fino a poco tempo fa nota come Sears Tower), nonché l’attuale detentrice del titolo di «edificio più alto dell’emisfero ovest» con i suoi 442 m di altezza architettonica, 413 m di altezza di utilizzo e 527 m di altezza massima.

La voglia di costruire sempre più in alto ha radici e tradizioni antiche. Senza andare troppo indietro nel tempo, nella stessa New York ci fu l’avvincente e, visti i tempi (erano gli anni 1929-1930), entusiasmante corsa al primato di altezza tra i grattacieli 40 Wall Street e Chrysler Building. La gara si consumò durante la costruzione, pressoché simultanea, dei due grattacieli. E finì con un colpo di coda, una mossa di furbizia ingegneristica, quando il famoso pinnacolo di completamento del Chrysler Building venne prima trasportato (di nascosto e rimpicciolito come un palo telescopico chiuso) in cima al cantiere, poi issato e infine, in poche ore, esteso a mo’ di canna da pesca per sorpassare l’ormai finito 40 Wall Street e regalare così il primato, durato poi solo un anno, al Chrysler Building.

E, senza andare troppo lontano, anche Torino ha dovuto di recente confrontarsi con la complessa questione se sconfiggere o meno un primato d’altezza. Infatti, il nuovo grattacielo della Compagnia di San Paolo alla fine non ce l’ha fatta a sorpassare la Mole Antonelliana e rimarrà più basso, anche se solo di una manciata di centimetri.

Dopo il comunicato stampa di maggio, in cui la «Port Authority of NY & NJ» si vantava che il One WTC fosse l’«edificio» più alto dell’emisfero ovest, è sorto un terribile dubbio. In un articolo in prima pagina del 10 settembre scorso, il Chicago Tribune si domanda se quel pinnacolo non sia forse un’antenna camuffata, abbassando quindi la quota dell’edificio vero e proprio, e lasciando così il titolo alla Willis Tower di Chicago. È vero che alla fine, per la città con l’edificio certificato più alto, c’è un premio che va oltre la questione di vanità; e cioè: più turisti, più prodotti da commercializzare e vendere, più diritti (legali, certificati) di vantarsene, affitti più alti, insomma un po’ più di tutto.

Intanto, in attesa della deliberazione del «Council on Tall Buildings» a inizio novembre, bisognerebbe forse soffermarsi a ripensare a questa ossessione così marcatamente fallica per gli edifici che a tutti i costi devono ergersi più alti degli altri, quando la vera magia dell’architettura è l’esatto opposto, cioè lo spazio pensato per essere percepito dal di dentro e che solo raramente possiamo cogliere nella sua interezza.

Ma, attenzione, una vittoria di New York e del One WTC potrebbe nascondere un’ironica sconfitta. Quattro anni fa, il «Council on Tall Buildings» ha cambiato le regole su come si misura l’altezza di un edificio: la base deve essere calcolata dal punto più basso di accesso pedonale. One WTD ha un ingresso secondario sulla facciata nord, che è più basso di cinque piedi rispetto a quello principale, sulla facciata sud. Dai fatidici 1776 piedi, numero che evoca l’anno della dichiarazione d’indipendenza statunitense, si passerebbe a un’altezza di 1781 piedi, e quindi a una data che, volendo, potrebbe ricordare, a vostra scelta: la scoperta del pianeta Urano, la fondazione di Los Angeles, o la pubblicazione della Critica della ragion pura di Kant.


La Stampa, 8 ottobre 2013

Matteo-Pericoli-Torino Unfurled

Turin Unfurled (detail)

Fu nel 1998, mentre guardavo Manhattan da un battello che la circumnavigava, che mi venne l’idea di “disegnare tutto”. Erano ormai tre anni che mi ero trasferito a New York e, più o meno consapevolmente, era da altrettanto tempo che andavo cercando quella chiave di lettura che in qualche modo mi aiutasse a impadronirmi della città dove vivevo e della quale ero chiaramente infatuato. Tornai così a casa, presi della carta da schizzo e iniziai, quasi per gioco, un’avventura che mi portò a disegnare su due rotoli di quasi dodici metri ciascuno tutto ciò che si vede di Manhattan dai fiumi che la circondano.

Da allora, quell’idea e quell’avventura mi hanno portato a ritrarre il profilo di Manhattan com’è vista dal suo centro vuoto (Central Park), la riva nord e quella sud di Londra vista dal Tamigi, e ora Torino, la città dove vivo da qualche anno con la mia famiglia, vista dal Po.

E porto sempre con me, insieme a quell’idea originaria apparentemente tanto chiara e intuitiva quanto vaga, “disegnare tutto”, una domanda la cui risposta si fa in realtà sempre meno chiara: cos’è quel tutto?

Il disegno al tratto, cioè quello fatto di linee il più possibile chiare, non schizzate o affrettate per intendersi, è un tipo di rappresentazione le cui decisioni – sostanzialmente quali linee fare – si basano su un filtro che elimina ciò che non serve. Un filtro che sceglie ciò che finirà per aiutare la narrazione invece di confonderla. È un po’ come il nostro cervello che, per difendersi dalla cacofonia e dal bombardamento della realtà (quella “vera” che raramente percepiamo), lavora per proporci un’immagine il più possibile lineare e comprensibile di continuità, di chiarezza, di narrazione. Si finisce, sintetizzandola, per idealizzare la realtà e ridurla, nel caso di questi disegni, a delle strisce di carta dove quel tutto di cui sopra è lì, raccontato, si spera, in modo chiaro e comprensibile e con il minimo numero di linee necessarie.

Per riuscire a ricostruire il disegno di Torino ho scattato più di 400 foto e camminato, dal Ponte Isabella a Corso San Maurizio, tra i vari avanti, indietro e su e giù per la collina alla ricerca delle prospettive più chiare, tra i dodici e i quindici chilometri. Tutto ciò tra febbraio e giugno di quest’anno. Non sembreranno forse dei grandi numeri, soprattutto rispetto, per esempio, ai quasi cento chilometri camminati e le più di seimila foto scattate per il progetto di Londra al quale ho lavorato per due anni. Ma, date le ovvie proporzioni, sono invece indicativi del fatto che l’unico modo con cui percepiamo una città è attraverso frammenti difficilmente ricomponibili se non con delle invenzioni, prospettiche o di scala, nel mio caso, o narrative in altri.

Tra la città vera (quella che realmente c’è) e la nostra città (quella che percepiamo o che raccontiamo) si nasconde un fertile e invisibile spazio infinito dove raccogliere tutte quelle storie, racconti, sogni e progetti senza i quali le città, organismi viventi a sé stanti, finiscono nel tempo per spegnersi e morire.

 

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