di Vincenzo Latronico

Rane – Il Sole 24 Ore – 29 settembre 2015

Tecnicamente sarebbe
un “workshop interdisciplinare”.
In pratica, è uno
strabiliante esperimento
intellettuale in grado di
mettere insieme le forbici
con la punta arrotondata
e i racconti di Kafka

In un torrido pomeriggio di inizio luglio stavo parlando con due amici di un testo di Amy Hempel intitolato Il Raccolto. Racconta la storia di un incidente d’auto capitato all’autrice, e poi la racconta di nuovo: elencando le omissioni e gli aggiustamenti fatti alla prima versione per renderla efficace e brillante, svelando le piccole insicurezze di chi scrive, le bugie e le vergogne. L’effetto è accattivante e straniante allo stesso tempo. Alla fine la prima storia – quella “romanzata” – non sta in piedi.
«Non si regge», ho detto. «La seconda parte gli toglie ogni punto d’appoggio».
«È vero», ha detto Stefania. «Servirebbe un pilastro».
Non era una metafora per riferirsi a una frase efficace. Stefania parlava proprio di un pilastro. La prima parte del racconto della Hempel era un osservatorio a picco su una montagna, scavato all’interno di un salone più grande che era la seconda, e non si reggeva.
Poi abbiamo aggiunto un pilastro, che Andrea ha ritagliato nel cartoncino vegetale, e allora sì.
Eravamo al Laboratorio di Architettura Letteraria, uno strabiliante esperimento intellettuale portato avanti da Matteo Pericoli, architetto e disegnatore. Tecnicamente è un “workshop interdisciplinare”, ma il termine è un po’ urticante e calza male a una situazione in cui sono presenti in egual misura Kafka e forbici con la punta arrotondata.
Per introdurre il tema del laboratorio, Pericoli cita spesso un brano di Alice Munro: «Una storia non è una strada da percorrere (…) è più come una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo come le camere stiano in rapporto col corridoio, come il mondo esterno viene alterato se lo guardi da queste finestre. E anche tu, il visitatore, il lettore, sei alterato dall’essere in questo spazio chiuso, ampio e facile o pieno di svolte e angoli che sia, pieno oppure vuoto di arredamento. [Questa casa] trasmette anche un forte senso di sé, di essere stata costruita per una sua necessità, non solo per fare da riparo o per stupirti».
L’idea di fondo del laboratorio è che questa metafora – che il percorso del lettore in un libro è simile al percorso di una persona in uno spazio – può essere presa sul serio; e che l’architettura può essere usata come strumento concettuale per analizzare e comprendere una storia, disegnandone un progetto strutturale e costruendone letteralmente un modello.

Strutture, vuoti, scale

In passato i corsi si sono tenuti in varie forme alla Columbia University di New York e alla Scuola Holden di Torino, in scuole superiori statunitensi e all’Università di Ferrara; io ho preso parte a un’iterazione che si è svolta all’interno del festival “Architettura in città” dell’Ordine degli Architetti di Torino.
Eravamo in quindici, tutti architetti presenti o futuri a parte me; faceva un caldo brutale fuori dai magazzini OZ, l’associazione che ci ospitava. Dopo una breve introduzione di Pericoli, ci siamo divisi in gruppi in base ai testi che avevamo scelto. Ci siamo seduti a un tavolo, ci siamo presentati rapidamente e abbiamo cominciato a parlare del testo di Hempel. Era come se parlassimo di architettura. Dicevamo tensione, struttura, ritmo, aperture e chiusure, connessioni, passaggi, sequenze, vuoto. Dicevamo scena, che in realtà è il luogo dove le scene narrative si svolgono. Dicevamo climax, che significa scala.
Secondo il grande linguista George Lakoff le metafore non sono casuali: più sono cementate nel nostro linguaggio, più rivelano che l’affinità fra i due campi ha un reale fondamento cognitivo. È celebre l’esempio della matematica, di cui si parla spesso con metafora spaziale (numeri che si seguono, insiemi che contengono); Lakoff ha dimostrato che i processi mentali che attiva nel cervello sono gli stessi usati per orientarsi nel movimento.
Non so se ci sia un qualche fondamento cognitivo nell’idea che una storia è come una casa (ne dubito); quello che so è che parlare di una storia come se fosse una casa è un modo estremamente efficace per comprenderla.
Penso al nostro caso: tre sconosciuti seduti intorno a un tavolo che devono discutere di un testo che hanno letto. Le probabilità che qualcosa vada storto sono altissime: si può finire schiacciati dal silenzio imbarazzato, o smarriti nelle astrazioni sclerotizzate a cui ci abitua la scuola («intenzione dell’autore», «contesto storico»), o bloccati nel pantano del «secondo-me-lei-non-lo-amava-davvero».
A noi non è capitato nulla di tutto questo; la metafora architettonica ci ha indirizzati verso l’essenziale. La Hempel raccontava una storia, e poi l’episodio reale da cui questa era nata: e cioè l’episodio su cui questa si fondava, su cui si basava, che la racchiudeva. Questi sono termini spaziali, e ci è stato chiaro che la struttura del racconto si traduceva in due ambienti fra cui vigeva uno di quei rapporti.

La spirale di Dumas

Mi è venuto immediato estendere questa procedura ad altri testi che conosco e amo.
Democracy di Joan Didion – una storia d’amore raccontata in modo esploso, tornando ciclicamente alla stessa scena madre per poi diramarsi ogni volta in un momento diverso del passato dei due – è un labirinto in cui si ripassa sempre da una stanza centrale, vedendola ogni volta da prospettive diverse.
Il conte di Monte-Cristo di Alexandre Dumas, che racconta di una vendetta preparata per decenni, è una spirale ascendente: visto di fianco, è la storia di un’ascesa vertiginosa, visto da sopra è un percorso che porta esattamente al punto di partenza, e probabilmente finisce in uno strapiombo.
Questo è a tutti gli effetti un modo di visualizzare un’idea astratta, anzi, di toccarla con mano: finito il progetto ci siamo messi a realizzarne un modello. Oltre che essere molto divertente per me che passo la vita al computer (colla! taglierino!), questo ci ha permesso di scoprire aspetti di quell’idea che prima, al solo pensiero, non erano evidenti.
Ad esempio: tutto ciò che non è finito nel nostro progetto – i personaggi, le piccole scene, le battute di dialogo – si rivelava in qualche modo inessenziale; un personaggio poteva essere eliminato, una conversazione allungarsi o svolgersi altrove, ma l’esperienza complessiva del lettore non sarebbe cambiata in maniera cruciale. Questa è una verità che fa rabbrividire critici e teorici, ma che ogni lettore sa bene: in un romanzo, molta della superficie è secondaria o comunque rimpiazzabile, purché lo scheletro, progettato in ogni dettaglio e calibrato al microgrammo, resti inalterato. È quello scheletro che si costruisce nel modello. Vederne una prova sotto i miei occhi è stato sbalorditivo.
Ancora più sbalorditivo è stato rendersi conto che, alla fine del laboratorio, all’esposizione dei modelli, mi trovavo in una stanza con quindici persone che avevano passato tre giorni a discutere di teoria letteraria: ed era stato, inspiegabilmente, divertente e proficuo.

Lettori sudati

Credo che sia qui la rilevanza profonda del laboratorio, che va ben al di là delle sfere ristrette di scrittori e architetti e ha a che fare col modo in cui si comprende e si insegna la letteratura.
Tempo fa, sulle pagine di questo giornale, lamentavo la pesantezza e l’inefficacia del suo insegnamento scolastico, che spesso la fa apparire come una montagna inespugnabile anziché come una fonte di gioia. Sostenevo che era anche per questo che si leggeva poco e male. Di recente mi ha risposto Giusi Marchetta con uno splendido saggio (Lettori si cresce, Einaudi 2015) in cui argomenta che è un bene che gli studenti vedano la letteratura come una montagna, perché la scuola deve opporsi al meccanismo della gratificazione istantanea e insegnare che i premi importanti vanno sudati.
La sua tesi mi ha convinto, eppure restavo – resto – dell’idea che le montagne siano spaventose e inospitali, e che se la letteratura viene mostrata come tale gli studenti continueranno a preferire le spiagge di Instagram e le piscine gonfiabili di Candy Crush.
Al laboratorio – facendo teoria letteraria con cartoncino e matite – ho visto un’altra possibilità. Su quella montagna ci si costruisce una casa.

Leggi sul sito del Sole 24 Ore:
https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-09-28/laboratorio-architettura-letteraria-184136.shtml

di Matteo Pericoli
La Stampa Esteri, 10 maggio 2015

La settimana scorsa si è riunito il consiglio municipale della città di New York per discutere una proposta di legge, sostenuta dall’amministrazione del sindaco Bill de Blasio, che ha l’obiettivo di diminuire l’impatto ambientale di New York. La legge obbligherebbe, infatti, migliaia di edifici commerciali a ridurre in certe ore della notte l’illuminazione sia interna che esterna — in sostanza, a spegnere le luci quando si va via. La proposta, in linea con la promessa di Bill de Blasio di fare di New York una città più verde, ha, com’era prevedibile, sollevato animate reazioni da parte dei cittadini: da un lato, tra i favorevoli, gli ambientalisti e amanti della natura, che temono per le migrazioni notturne di uccelli e sognano notti più stellate; dall’altro, tra i contrari, quelli che associano la luce a un’idea di prosperità, di ostentata bellezza, di attrattiva turistica e, in qualche modo, a un senso di sicurezza.

Negli ultimi anni il mercato immobiliare di New York è esploso, sia dal punto di vista finanziario – risale al dicembre scorso la prima volta nella storia della città che un’unità residenziale non indipendente viene venduta a più di 100 milioni di dollari – che fisico: si stanno infatti moltiplicando gli edifici residenziali e commerciali che regolarmente battono record di altezza o volumetria. Dal nuovo grattacielo del World Trade Center all’ultima torre residenziale per straricchi, 432 Park Avenue, in una sorta di gara cacofonico-luminosa ognuno di questi edifici viene illuminato di notte perché sia più visibile del vicino.

Consapevoli forse che l’effetto dell’illuminazione scenica, cioè fine a se stessa e non utilitaristica, sia un elemento ormai parte del paesaggio urbano di New York, la proposta di legge include una piccola ma quasi diabolica eccezione: potranno illuminarsi per bellezza quegli edifici che sono “parte significativa dello skyline della città”. Ciò vuol dire che alcuni amministratori comunali si troveranno in pratica ad avere il “mandato di curare” (nel senso di curare una mostra) “lo skyline della città”, come dice il direttore della Landmarks Preservation Commission, a decidere cioè chi merita l’illuminazione teatrale notturna e chi no.

Dopo aver passato diversi anni a disegnare il profilo di Manhattan nella sua interezza – sia dall’esterno, come si vede circumnavigando l’isola, sia dall’interno, come lo si vede da Central Park – mi domando se i consiglieri comunali abbiano trovato delle risposte alla domande che mi hanno assillato a lungo: che cos’è lo skyline di una città? È una cosa fisica, tangibile, reale? O è solo un’idea, una percezione collettiva di un organismo in evoluzione che si trasforma nel tempo? E, soprattutto, può essere progettata o, addirittura, curata?

Lo skyline
Mi sono convinto nel tempo che lo skyline di una città, cioè il risultato di decenni di politiche territoriali e di sviluppo urbano, è un organismo con una sua energia e vitalità proprie. L’idea di controllarlo, di ulteriormente abbellirlo illuminandolo come fosse un singolo oggetto, va contro la sua natura. Poiché, come ho scoperto disegnandolo, è il contesto che rende lo skyline leggibile e, non potendo dire esattamente dove inizia e dove finisce, cosa vi appartiene con certezza e cosa non, dovremmo essere in grado di assorbirlo nella sua totalità e vedere la città accendersi e spegnersi seguendo i suoi ritmi naturali. Se New York è veramente la città che non dorme mai, allora non abbiamo bisogno di luci che lo accentuino, basta guardarla.

Una delle cose che impressiona di più, quando si arriva a New York la prima volta, è vederla respirare con le luci proprie: abituati agli scuri che di sera scendono nelle nostre città, Manhattan sembra svegliarsi al crepuscolo e cambiare d’abito. Gli uffici emanano la loro omogenea luce lavorativa ancora per un po’, poi il bagliore si trasferisce altrove. Forse si abbassa, e in certi punti può anche finire per spegnersi, ma non per questo si perde il fascino di un luogo vivo con i suoi cicli naturali. In questi momenti di passaggio la bellezza di Manhattan è ancor più struggente perché, incontrollata e incontrollabile, sembra inconsapevole e umana.

Leggi dal sito de La Stampa:
https://www.lastampa.it/esteri/2015/05/10/news/de-blasio-vuole-spegnere-le-mille-luci-di-new-york-1.35260453

di Matteo Pericoli

Il 4 marzo scorso è apparsa su FiveThirtyEight – il sito dello scrittore e studioso di statistica Nate Silver, noto per aver predetto accuratamente i risultati delle elezioni americane dal 2008 in avanti – un’interessante recensione di Draftback, un’applicazione che «tratta la scrittura come dati». Nella versione attuale, Draftback è un’estensione del browser Google Chrome che, sostanzialmente, registra in tempo reale non solo tutti i tasti che vengono premuti sulla tastiera durante la compilazione di un documento scritto (e quindi tutte le lettere, gli spazi, gli accapo, le cancellazioni, i ctrl+Z, i copia e incolla, ecc.), ma anche gli intervalli di tempo tra una battuta e l’altra. Alla fine, Draftback ci restituisce tutto ciò con una sorta di animazione dell’atto dello scrivere, riproducibile a noiosissima velocità normale, cioè esattamente seguendo i tempi della produzione del testo, oppure a velocità accelerata.

Prima di arrivare a Draftback, il programmatore (e scrittore) James Somers aveva passato anni a cercare di sviluppare un programma che facesse quello che Google Docs aveva sempre fatto: memorizzare e archiviare tutte le battute di tutti i documenti prodotti e salvati sui propri server. Gli è bastato quindi accedere al codice di Google Docs per poter rivedere le animazioni di tutti i suoi testi.

L’idea di un’applicazione che mostri la scia che l’atto dello scrivere lascia durante il suo faticoso percorso è significativa.

Da un lato, c’è l’effetto del progresso: per chi ancora usa normalmente carta e penna, o è a conoscenza dell’esistenza della macchina per scrivere, il fatto di poter rivedere il passaggio da una bozza all’altra, da un’idea all’altra, tra errori e passi falsi, è la norma, nulla di nuovo. Per molti, invece, la tecnologia significa un inesorabile distacco da esperienze cognitive e percettive che fino a poco tempo fa erano comuni. E quindi sorge, a un certo punto, il curioso desiderio di voler colmare, sempre tramite la tecnologia, il divario creatosi tra l’esperienza analogica e quella digitale.

Dall’altro lato, c’è il piacere, comune a molti, di poter spiare il processo creativo di altri, forse nella speranza di trarne qualche indicazione. A questo riguardo, tuttavia, l’argomento di fondo del creatore di Draftback nasconde un fraintendimento cruciale. Il programmatore dice al recensore: sappiamo come migliorare un violinista, ma non sappiamo come migliorare uno scrittore. L’idea è che, vedendo l’animazione di un testo mentre viene scritto, si possa capire meglio la tecnica con cui è stato creato, e quindi correggerla o imitarla.

Ma scrivere, come anche disegnare, non è una disciplina esecutiva come lo sono suonare il violino o danzare; è una disciplina compositiva. A differenza dell’esecuzione di una danza o di un brano musicale, nella composizione di un testo è soltanto davanti al lavoro in stato avanzato che se ne può parlare. È solo davanti a una frase o a un paragrafo completo che un ipotetico insegnante può intervenire per migliorarlo.

Alla fine, più banalmente, riguardando la scrittura animata di Draftback finiremo forse per sentirci un po’ rassicurati dagli altrui errori, ripensamenti, cancellature, tentennamenti e indecisioni. È proprio vero che, quando siamo soli davanti a uno schermo o a un foglio di carta bianco, ci troviamo un po’ tutti a ondeggiare sulla stessa fragile barca ed è futile cercare soccorso altrove.

Link all’articolo: https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-04-29/la-storia-miei-filedoc-181300.shtml