Da undici anni Matteo Pericoli insegna a studenti di tutto il mondo come analizzare la struttura narrativa di una storia e trasformarla con creatività e immaginazione in un edificio. Da questa esperienza è nato “Il grande museo vivente dell’immaginazione” (il Saggiatore), scritto a sua volta come se fosse un museo da esplorare, con tanto di mappa e bookshop

Dickow, Niddam, Porat, Topaz su un racconto di Yonathan Raz Portugali Hebrew University of Jerusalem

Per Ennio Flaiano i grandi libri non sono quelli che sfogliamo con disattenzione, che consumiamo per invidia o emulazione, che finiamo in fretta, con rabbia, per stare al passo con la moda letteraria del momento; ma quelli che rileggiamo così tante volte da abitarli, sentendoli addosso come certi angoli di casa nostra. Li teniamo sul comodino, in borsa o in uno scaffale preciso della libreria per rifugiarci quando ne abbiamo più bisogno. Per cercare risposte a domande che la vita ci pone distrattamente. Alcuni libri hanno la forma di una tenda, altri di un attico, altri ancora di una casa in collina.

Ci voleva però la poliedricità di un architetto, illustratore, docente e scrittore per scoprire come analizzare l’architettura di una storia e trasformarla con creatività e immaginazione in un edificio. Da undici anni Matteo Pericoli guida studenti in tutto il mondo (Stati Uniti, Italia, Israele, Svizzera, Taiwan ed Emirati Arabi Uniti) in un gioco che ormai è diventato un sorprendente esperimento dove non esistono errori, perché non c’è un dogma da seguire: il Laboratorio di Architettura Letteraria. Questo lavoro pluriennale è diventato un libro: “Il grande museo vivente dell’immaginazione” (il Saggiatore), scritto a sua volta come se fosse un museo da esplorare, con tanto di mappa e bookshop.

In questa guida generosa e attenta a seguire il passo del lettore, Pericoli svela i segreti per aprirsi al misterioso ma continuo legame tra fantasia e costruzione. E così Cuore di Tenebra di Joseph Conrad diventa una slanciata piramide inversa il cui vertice si trova a decine di metri sottoterra; L’amica geniale di Elena Ferrante si trasforma in due palazzi che si sostengono e respingono a vicenda. E via costruendo. Questo cantiere culturale non si esaurisce nel libro, ma si espande in un sito bilingue in costante aggiornamento.

«Undici anni fa una fiammella si è accesa in me, innescando una miccia i cui effetti non avevo previsto. Ero appena tornato dagli Stati Uniti e quando mi fu proposto di fare un workshop nella Scuola Holden, all’epoca un piccolo spazio in via Dante a Torino, decisi di approfondire un concetto che mi frullava in testa. Perché si dice che una storia ha una struttura, ha delle fondamenta oppure “non sta in piedi”? Ma mi sono accorto che parlando con gli studenti delle strutture narrative le parole non bastavano. C’era una quantità d’informazioni che mancava. Allora chiesi a loro: “Perché non me lo fate vedere usando cartone, forbici e colla?”. Questa banale domanda mi ha portato a fare una scoperta sorprendente».

Quale?
Tutti noi abbiamo un gigantesco lago sotterraneo di conoscenze inesplorate. Un calderone di energia creativa dato dalla lettura a cui non riusciamo spesso ad accedere perché se andiamo a ricercarlo con le parole ripeschiamo solo gli stessi concetti che avevamo elaborato in passato copiando pensieri altrui. Invece di continuare a usare le parole per spiegare qualche cosa che era fatto di parole, proviamo a dare una forma tangibile ai nostri pensieri sul libro. Così facendo ho notato che le conoscenze si decuplicano. E vale per tutti. Dai liceali che seguono i miei corsi a chi non ha letto tanti libri o non conosce bene l’architettura. Questo fenomeno si ripete a ogni laboratorio. 

Fermiamoci un momento all’ingresso di questo libro-museo in cui inviti il lettore a lasciare nel guardaroba i bagagli ingombranti che impediscono di capire meglio i legami tra storie e architettura. Quali sono gli ostacoli più difficili da abbandonare?
Per esempio pensare che la relazione tra architettura e letteratura sia un insormontabile sforzo intellettuale; non sentirsi all’altezza e dimostrare forzatamente di essere intelligente e preparato prima di leggere un libro. Ma soprattutto lo scetticismo; lo stesso che incontro all’inizio quando propongo questo gioco. Al primo incontro del laboratorio vedo alcune facce sgomente, terrorizzate. Poi il secondo e il terzo giorno vengo travolto da un entusiasmo pazzesco di chi capisce quanto sia bello trovarsi dall’altra parte.

Dall’altra parte rispetto a cosa?
Rispetto ai preconcetti. Al di là delle nostre conoscenze pregresse sullo stile, la narrativa, le etichette che diamo ai libri. Le storie non sono strade puntuali da percorre in base alle indicazioni date da altri, ma edifici da esplorare in libertà, immergendosi in uno spazio letterario. Ovviamente questo spazio è costruito da qualcun altro, lo scrittore, ma alla fine le costruzioni le facciamo quasi totalmente noi, nella nostra mente. La speranza è che una volta iniziato il libro-museo il lettore dica: sai cosa? Questi bagagli ingombranti li lascio lì ed esco più leggero di quando sono entrato. 

Allora entriamo leggeri e facciamo un esempio di costruzione architettonica derivata da una struttura narrativa.
Durante un laboratorio mi ha colpito il modo differente in cui può essere visto il racconto di Ernest Hemingway “Colline come elefanti bianchi”. Per gli architetti il rapporto affettivo tra i due personaggi era squadrato, come un parallelepipedo, mentre per dei ragazzi liceali si trattava di un’opera cilindrica, forse più idealizzata. Queste risposte ti riempiono la mente e il corpo di una sensazione positiva, perché con un testo non sarebbero riusciti ad approfondire così il rapporto tra i due protagonisti. Lo stesso mi è capitato con lo straordinario racconto di Amy Hempel intitolato “Il raccolto”. In undici anni di Laboratorio di Architettura Letteraria non ci sono mai stati due edifici somiglianti. Il punto è che i nostri pensieri  hanno una forma e una sensazione pre verbalizzata, diversa per ognuno, che spesso ignoriamo, saltando subito al passaggio successivo per alimentare il nostro monologo interiore. Il laboratorio esalta ciò che le parole scritte sgonfiano. Ci sono risultati continui perché questo processo è qualcosa di estremamente naturale che viene fuori solo se ci si rilassa.

Questo approccio innovativo potrebbe essere usato nelle scuole per avvicinare i giovani, ma anche i meno giovani, alla lettura?
Certamente. Rendersi conto che la lettura è equiparabile a un’esplorazione di un luogo la cui forma definitiva è incastrata nelle nostre sinapsi potrebbe essere una spinta ad affrontare le storie in una maniera diversa. Ovvero non cercando di replicare quello che altri hanno precedentemente detto o pensato su quel libro. Siccome un’opera ci è stata presentata come bella, brutta, semplice o complessa non dobbiamo cercare nel testo una sensazione che altri hanno già trovato. Sappiamo molto di più di quanto pensiamo di sapere. Andando a ritroso alla fonte delle idee che hanno un peso e una forma, tutti possiamo trovare i nostri spazi, costruendo, decostruendo, abbattendo e ricominciando. E gli errori non esistono più, non ci sono insegnanti e studenti.

Nel libro approfondisci due concetti importanti che accomunano letteratura e architettura: il vuoto e il contesto.
L’architettura è la compagna costante dell’intera esistenza. Passiamo la nostra vita attraversando, trapassando architetture e spazi uno dopo l’altro. Per capirli parliamo di stili e forme, ma trascuriamo spesso l’effetto più potente dell’architettura: ciò che non c’è. Le nostre stanze sono circondate da pareti ma noi viviamo e lavoriamo all’interno dell’unico spazio che non è stato costruito. E così anche nelle storie diamo tanta rilevanza alle pagine, ai paragrafi, alle frasi e alle parole, trascurando quanto sia importante lo spazio all’interno di una storia. Un elemento ineffabile che noi dobbiamo ricostruire nella nostra mente. E come lo facciamo dipende necessariamente dal contesto. Non solo quello all’interno del quale fuoriesce il libro o l’edificio, ma anche il mio contesto: tutto quello che ho imparato, sentito, creduto finora; le mie aspettative e le mie idee che mi fanno approcciare sempre in modo diverso alla storia o allo spazio in base alla mia condizione esistenziale di quel momento. Concentrandosi ogni volta su dettagli e spazi diversi.

Ha parlato di quanta architettura c’è nella letteratura, ma quanta letteratura c’è nell’architettura?
L’architettura è impregnata di narrativa. Ogni scelta compositiva di chi ha progettato gli spazi che viviamo (dalla sequenza dei volumi ai loro collegamenti, da ciò che viene rivelato a ciò che viene celato, dall’impatto della luce al mistero dell’oscurità, e così via) è in realtà una scelta narrativa, alcune volte fatta consapevolmente altre no. L’architettura poi determina la narrazione della nostra giornata. Pensa al momento in cui attraversi la soglia ed esci di casa la mattina: nella tua testa pensi che stia iniziando qualcosa di nuovo ma quel qualcosa in realtà non esiste perché fuori dalla porta nulla è iniziato e nulla è terminato, tutto è sempre esistito. L’architettura è il nostro escamotage per inscatolare la narrazione quotidiana: aprire la finestra per cambiare l’aria la mattina, uscire di casa, ritornare a casa, salire le scale, scendere le scale Questa interazione con l’architettura è inconscia ma profondamente narrativa e determina come incaselliamo il racconto della nostra vita. Ogni nostro movimento è una lettura dello spazio e senza saperlo siamo già in grado di capire la concatenazione delle narrazioni dell’architettura che ci circonda. Perché usciti da un edificio andiamo a destra invece che a sinistra? 

E conoscendo istintivamente gli spazi architettonici siamo in grado di analizzare le strutture narrative?
Sì, ognuno a modo suo dà significato a elementi diversi privilegiando uno rispetto all’altro. La porta ha un potenziale narrativo chiaro, ma per qualcuno può essere importante l’altezza di un soffitto La finestra messa nel posto giusto per qualcuno è una rivelazione. Ma se lo trasmetti a un altro bisogno narrativo non funziona per niente.  Immagina la prima volta che in un edificio architettonico di qualsiasi tipo, primordiale o non, qualcuno con un martello o una mazza ha buttato giù un pezzo di muro e ha visto il mondo fuori senza poterlo oltrepassare. Chissà, forse ogni elemento architettonico ha il suo corrispettivo letterario, in fondo è cosi che nascono le storie.

Castelli di carta | Guida all’architettura letteraria per esplorare in modo innovativo i libri (e sé stessi)

di Andrea Fioravanti, pubblicato su Linkiesta il 26 novembre 2022:
https://www.linkiesta.it/2022/11/museo-vivente-immaginazione-pericoli-saggiatore/

Non mi sembra vero.

Dopo quattro anni di lavoro, quella che all’inizio sembrava una confusa sequenza di stanze è diventata un vero e proprio libro-edificio.

Il grande museo vivente dell’immaginazione. Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria, edito da Il Saggiatore, esce venerdì 25 novembre.

Saul Steinberg: il lascito di un genio del Novecento

di Matteo Pericoli

 
Pubblicato nel numero di Marzo 2022 de L’Indice dei libri del mese

Saul Steinberg 1978. Foto di Evelyn Hofer

Una delle maggiori difficoltà che si incontrano nel cercare di avvicinarsi al lavoro di Saul Steinberg è quella di identificare l’angolo d’approccio corretto. L’errore tipico che si fa è tentare di definirlo: è un illustratore? no, o forse sì; è un fumettista? certo! anzi no, certo che no; un disegnatore? sì, disegnatore di sicuro, o no? è forse più semplicemente, o più genericamente, un “artista”? beh, quello di sicuro. Nell’accostarci con attenzione alla complessa figura di Saul Steinberg, sentiamo però che nemmeno l’onnicomprensiva parola “artista” sembra funzionare. Non è solo un artista, è qualcosa di più. Ma cosa?

Steinberg nasce in Romania nel 1914 da una famiglia ebrea. Vive a Bucarest fino al 1933 quando si trasferisce in Italia, a Milano, dove studia architettura al Regio Politecnico. Nel giro di qualche anno inizia a pubblicare disegni in varie riviste e a godere di un certo successo, ma la sua situazione si complica a causa delle leggi razziali tanto che all’ingresso in guerra dell’Italia decide di emigrare negli Stati Uniti. Scoperto, viene arrestato e passa un periodo di alcuni mesi di internamento in Abruzzo. Nell’estate del 1942 riesce finalmente ad arrivare a New York.

Il lavoro di Steinberg a quel punto era già noto negli Stati Uniti. Grazie ad alcune conoscenze, infatti, durante il periodo d’attesa prima di entrare nel paese aveva già pubblicato vari disegni su riviste statunitensi quali Harper’s Bazaar e Life. Al suo arrivo a New York, Steinberg inizia praticamente da subito a collaborare con la rivista The New Yorker contribuendo con copertine, illustrazioni, disegni vari, vignette e così via; cosa che continuerà a fare, con successo e libertà finora senza pari e forse ineguagliabili, per il resto della sua vita.

Molti indizi sulle difficoltà che si hanno nel descriverlo si trovano in citazioni di Steinberg stesso. Di sé, ad esempio, dice: «Sono nato in un paese complicato, bisognava aprirsi una strada tra diverse verità contraddittorie, una magnifica scuola per un romanziere. Gli unici personaggi che rispettavo, gli unici con cui potevo conversare, erano i personaggi da romanzo. Credevo che i libri fossero di origine divina, e quando ho capito che erano scritti da persone qualunque (che dunque erano sconosciuti prima di diventare famosi), sono rimasto talmente colpito che mi son detto: “Ma allora anch’io posso farlo!”.» (Riga, pag. 111)

Tuttavia, il rapporto conflittuale con la Romania, la «patria infernale» (Lettere a Aldo Buzzi, p. 278), il tradimento dell’Italia e delle sue leggi razziali, il suo essere un immigrato, sebbene naturalizzato, negli Stati Uniti, fanno sì che a Steinberg manchi una lingua con la quale potersi esprimere in totale disinvoltura e con la dimestichezza dei romanzi che adorava.

In una incessante ricerca di sé, della propria identità e di un proprio linguaggio attraverso il suo lavoro, Steinberg cerca da un lato di definirsi, di ritrovarsi, di conoscersi e di farsi conoscere, dall’altro invece crea e simultaneamente cancella le proprie tracce e l’idea che ci si può fare di lui.

Lui stesso racconta come in mezzo a questa accanita ricerca finisce per inventare «un linguaggio che non esisteva prima in quanto linguaggio». Sceglie una «materia prima», il disegno, e la usa «per esprimere idee poetiche o filosofiche» (Riga, p. 106). Non è il disegno che proviene dalla tradizione del disegno dal vero, perché, dice sempre Steinberg, «il disegno dal vero rivela troppo di me […] divento una specie di servo, personaggio di secondo ordine» e nel quale «vedo […] i miei difetti». Nei disegni «fatti con la fantasia», invece, Steinberg può nascondersi, può introdurre molteplici livelli di lettura e interpretazione: «mostro me e il mio mondo nel modo che scelgo». (Riflessi e ombre, p. 59)

E così noi lettori, tramite i suoi lavori, non abbiamo accesso, come di solito accade, a ciò che Steinberg “vede” mentre disegna; siamo piuttosto davanti a una finestra aperta sulla sua mente e sui suoi pensieri, come in un testo letterario o un saggio o un trattato.

In tutto ciò credo che l’architettura abbia avuto un ruolo molto importante, sebbene indiretto. Steinberg ci dice che lo studio dell’architettura è stato per lui «meraviglioso per tutto tranne che per l’architettura. Lo spaventoso pensiero che quello che disegni può trasformarsi in un palazzo ti fa propendere per tratti perfettamente ragionati». (Riga, pag. 38) Le sue linee quindi, così ragionate, precise e con un intento cristallino, sono le impronte visibili delle sue intuizioni, dei suoi pensieri e dei suoi ragionamenti.

Ma non solo, Steinberg sembra addirittura sapere quello che noi, a nostra volta, pensiamo o sappiamo, proprio come i migliori architetti. Infatti, un qualsiasi disegno di Steinberg mi fa pensare al Partenone di Atene. Nel voler trasmettere un senso di armonia, proporzioni e chiarezza, i costruttori del Partenone sapevano che la nostra mente corregge, modifica e vede in modo distorto. Ad esempio, sapevano che le colonne alle estremità andavano un po’ ingrandite e un po’ avvicinate alle altre altrimenti sarebbero apparse più lontane e più piccole delle altre; oppure che la base del timpano andava leggermente curvata all’ingiù altrimenti le sue estremità si sarebbero sollevate invece di apparire orizzontali. Il rapporto che si instaura quindi tra chi costruisce e chi assorbe (in questo caso uno spazio architettonico) è una sorta di interconnessione o collaborazione tra due fonti creative: quella di chi compone e quella di chi legge.

Non è un caso che i filosofi Roberto Casati e Achille Varzi scrivano che «commentare un disegno di Steinberg è […] come commentare il lavoro di un collega» (Riga p. 398). Steinberg voleva e sapeva parlare a tutti; e voleva essere ascoltato da tutti.

Per avvicinarci al suo lavoro, quindi, non ci resta che indugiare davanti a un suo disegno, resistere al desiderio di classificarlo, far sì che le sue linee si insinuino nella nostra mente e atterrare così nel suo mondo fantastico.

— Marzo 2022


Libri menzionati:

Riga 24, Saul Steinberg, Marcos y Marcos, 2005
Saul Steinberg, Lettere a Aldo Buzzi 1945-1999, Adelphi, 2002
Saul Steinberg con Aldo Buzzi, Riflessi e ombre, Adelphi, 2001