Un anno alla finestra
Prefazione
Un agglomerato di edifici non è sufficiente per costituire una città. E non ha importanza quanto sia grande, né quale sia la qualità architettonica dei singoli edifici o dell’organizzazione urbanistica del tutto. Ciò che importa è come l’agglomerato viene percepito da chi ci vive, come viene raccontato a chi lo visita, e come chi lo visita a sua volta lo racconterà al mondo esterno. Le città fisiche esistono, ovviamente, ma sono città solo in quanto vengono percepite. Gli agglomerati di edifici che chiamiamo città sono degli organismi viventi che si nutrono di percezioni e in cambio restituiscono storie, emozioni e sogni.
Prima di venire a Torino ho vissuto per tredici anni a New York. L’ho assorbita e ho cercato di disegnarla tutta, come fosse una cosa sola. Ne ho disegnato il profilo visto dai fiumi che la circondano, poi quello da Central Park. Poi, mentre stavo per cambiare casa e a trasloco quasi pronto, mi sono affacciato dalla mia finestra e ho capito che di città non ce n’era una, ma milioni, tante quante il numero dei suoi abitanti. E così ho visitato una moltitudine di finestre per disegnarne le viste e scoprire come vedono la città quelli che la abitano. Quando sono arrivato, Torino non la conoscevo per nulla. E forse ancora non la conosco: non passa un giorno che non incontri uno scorcio nuovo, un angolo o un palazzo mai visti. Ma dopo «un anno alla finestra» sento di avere iniziato a scoprirla. Invece di avvicinarmi dal di fuori e cercare lentamente di conoscerla – come capita normalmente – mi sono tuffato direttamente nel suo cuore. Ho visto come viene percepita da chi la abita; dalle sue finestre ho sentito i racconti di chi ci vive e ci è nato, o di chi, come me, è venuto da altrove. Dalle finestre ho potuto notare il tempo, lo si vede nelle architetture, e come in questi ultimi anni abbia cambiato questa città.
A chi chiedevo di mostrarmi la sua finestra dicevo che questo sarà un racconto di Torino vista dai suoi buchi, della più intima e più vera delle città.