Di Matteo Pericoli

Un diario tenuto dall’1 marzo 2002 al 24 febbraio 2003 che accompagna il disegno a fisarmonica di oltre sei metri in Il cuore di Manhattan (Bompiani, 2003)

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Manhattan Within Legend

Il disegno originale di più di 10 metri avvolge Central Park


Nel maggio del 1998 presi per la prima volta la Circle Line, il battello che circumnaviga l’isola di Manhattan. Quelle tre ore di navigazione furono all’origine del libro pubblicato nell’ottobre del 2001, Manhattan svelata, che mostra integralmente sia l’East Side che il West Side dell’isola visti dall’acqua. Nel marzo del 2002 ho incominciato a lavorare a un disegno della città vista da Central Park. Queste pagine sono basate sul diario che ho tenuto durante il periodo di tempo in cui ho lavorato al disegno, dall’inizio alla fine.

È finalmente giunto il momento di mettere mani e strumenti sulla carta. I quasi dieci metri di rotolo che ho davanti sono bianchi e terribilmente lunghi. Ho passato gli ultimi mesi a fare schizzi, a scattare foto, a provare una tecnica dopo l’altra, sempre sapendo che, tanto addentro nell’isola, il disegno non può essere semplicemente in bianco e nero, inchiostro su carta. Dev’essere a colori. Deve sembrare fatto di materia. Non c’è solo acqua fra me e la città, c’è della vegetazione stavolta, ci sono foglie, terra, boschi e prati.

Ho fatto dei primi calcoli approssimativi: il parco è lungo 51 isolati e largo l’equivalente di più o meno dieci strade, perciò il perimetro è di circa 122 isolati. Questo significa che, per far stare il disegno nel rotolo che ho scelto, ciascun isolato dovrà misurare circa otto centimetri. Il resto dovrà essere improvvisato. Vorrei evitare che il disegno risulti troppo esatto. Sto entrando ora nel parco dall’angolo nord-ovest, e mi lascio alle spalle – o meglio, tutt’intorno – i rumori della città. Entro. Poi mi girerò per guardarmi indietro.

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Vista dal parco, la città sembra sorgere da una nuvola di alberi. Nessuno degli edifici rivela la sua base, le sue radici. Tutti fluttuano invece al di sopra della nuvola verde.

Fuori del parco, per potersi orientare nella griglia urbanistica della città, bisogna conoscere le proprie coordinate – un’avenue e una delle strade che la attraversa. Nel parco, per capire dove ci si trova, bisogna guardare fuori, verso gli edifici.

Il disegno si concentrerà sugli edifici che si affacciano direttamente sul parco e sullo skyline che si portano sulle spalle, su una linea, una linea immaginaria e mutevole, che si crea dove il parco finisce (le cime degli alberi) e la città incomincia. Il parco nel disegno svanirà perché mi servirà solo come punto di osservazione da cui vedere lo skyline interno di Manhattan.

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In cerca dei pezzi mancanti del puzzle che sto provando a ricostruire. Oggi sto lavorando a una porzione di Central Park North. L’aspetto finale del disegno sarà una mescolanza di ciò che ho fotografato e di ciò che ho annotato nei miei schizzi – il tutto unito a una buona dose di invenzione. Il disegno finirà per essere qualcosa che non esiste in realtà, o meglio che in realtà è visibile solo a pezzi e mai integralmente.

Camminare per il parco “in cerca” della città rappresenta quello che dovrebbe essere lo spirito di questo lavoro: andare a caccia di uno skyline al contrario, rovesciato; osservare come si mostra la città quando guarda il proprio centro, il proprio cuore, al limite del suo confine interno, e non come la vede il mondo, dal di fuori. Eppure, mentre camminavo fra gli alberi stamattina, mi è parso improvvisamente di non essere entrato più addentro nella città, ma di esserne invece appena uscito.

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Oggi ho lasciato la città e sono entrato di nuovo nel parco all’angolo della 110ma Strada con Central Park West e ho camminato lungo il bordo giù fino alla 66ma Strada. Ero dentro al parco, ma non troppo dentro, e saltavo sassi e aggiravo tronchi per guardare la città che stava fuori, in cerca di un’apertura fra i rami che rivelasse un pezzo di skyline da aggiungere a quello appena visto prima. Il parco è già bello per sé, ma è lo sfondo della città che lo rende magico. La maggior parte delle foto di Central Park che la gente scatta o che ho visto su cartoline o in vari libri su New York mostrano tutte la stessa cosa: mai gli edifici da soli, o il parco per conto suo, ma l’unione, il contrasto delle due cose messe insieme.

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Tutte le foto che mi servono (decine per ogni isolato) e i miei appunti sono sparpagliati sulla scrivania. Un caos. Il rotolo di dieci metri di carta è avvolto su due rocchetti di legno, uno a ogni estremità. Una porzione del rotolo di circa 60 cm è aperta davanti a me, pronta per il lavoro. Quello che ho già completato è avvolto sul rocchetto di sinistra; il resto del disegno (circa nove metri) è avvolto su quello di destra. Siccome disegno con la destra, mi sposto lungo il perimetro del parco in senso orario. Da qualche parte in mezzo a questo caos ho delle banalissime matite (per il primo schizzo sommario), delle matite colorate, i pastelli a olio, una punta di acciaio e un set di matite di grafite più dure e precise.

Le varie foto sparse davanti a me ritraggono la porzione di skyline a cui intendo lavorare. Mostrano le diverse facciate dei diversi edifici, da molti possibili punti di vista, in varie stagioni e condizioni di luce. All’inizio fisso queste immagini a lungo. Ho bisogno di assorbirle e comprenderle. Devo isolare ciascun edificio, capirne la relazione con quelli vicini e scoprire le sue caratteristiche principali, o meglio il suo carattere.

A un certo punto, durante questa fase, sembra essere arrivato il momento giusto per mettere giù un primo schizzo degli isolati che sto studiando. Schizzo gli edifici, i loro profili, le loro proporzioni, e scelgo un punto di vista per la prospettiva. La prima volta di solito non funziona, quasi mai. Questo schizzo rappresenta una serie di possibilità: molte linee si intrecciano, e lo stesso edificio può comparire in più di un posto o in più di una posizione.

Gli edifici appena finiti (arrotolati alla mia sinistra) mi aiutano a stabilire la dimensione dei successivi. Quelli più grandi sono pericolosi perché rischio di sopravvalutarne le dimensioni e di trovarmi poi senza spazio verticale sufficiente sulla carta.

A questo punto prendo le matite colorate e ripasso tutte le linee che mi interessano – tutte le linee che fissano gli edifici e che riproducono i loro tratti fondamentali: altezza, larghezza, profondità, profilo, ma ancora senza dettagli, senza finestre ecc. Scelgo un’immagine tra le tante. Le matite sono di vari colori: blu, rosse, giallo scuro, arancio, violetto e così via. Le uso a caso, poi prendo i pastelli a olio e copro tutto lo schizzo con uno spesso strato di colori tenui: crema, azzurri, gialli chiari, arancio e bianco o bianco sporco. Mi sporco le mani con i pastelli a olio e lo schizzo a matita scompare, coperto quasi completamente dall’olio. Riesco a malapena a distinguere le linee del disegno sottostante.

Questo è il momento di prendere la punta d’acciaio, una sorta di bulino, e incominciare a grattare, in cerca delle linee nascoste. Le trovo qua e là – ma non trovo elementi precisi, netti, univoci. Sono linee confuse, combinazioni di molti graffi in molte direzioni. È come scavare per riportare alla luce una città sepolta. Ogni linea che trovo mi fornisce una traccia, un indizio sulla città da scoprire e un indizio sul mio stesso disegno. A volte ricordo quello che ho fatto e vado a memoria; altre volte mi domando: “Dove cavolo ho messo quella linea?”

È questa la parte più emozionante del lavoro, durante la quale non so esattamente cosa sto facendo. Mi limito a cercare e a reagire a quello che vedo emergere davanti a me. Non è possibile sbagliare, perché se gratto dove non ci sono linee vado a cercare da un’altra parte. La linea, essendo il risultato di una serie di tentativi, simboleggia lo spirito di quello che voglio fare; questo skyline non è lo skyline, l’unico possibile skyline, ma la somma di molte possibili porzioni di uno skyline che, nel suo insieme, è invisibile.

Continuo a raschiare. Lentamente il disegno riemerge. Riemerge la città. La città sorge dalla carta e mi si mescola ai pastelli a olio.

Dopo che gli edifici sono riapparsi, prendo le matite di grafite più precise – molto più dure e molto appuntite – per dar forza ai volumi, e continuo a scolpire le forme aggiungendo i dettagli, i particolari, le finestre. A questo punto di solito mi viene un po’ di nausea, perché questi edifici hanno un indicibile numero di finestre, aperture, vetrate ecc.

Quando la nausea passa, riprendo il bulino e gratto via il pastello a olio da tutte le finestre, per dar loro profondità. Infine, con una matita più morbida, aggiungo una linea a “L” a due lati di ogni finestra, per fissare e dar profondità all’apertura.

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Ognuno dei quattro lati di Central Park mostra una faccia diversa della città. Immaginate di tagliar via un pezzo quadrato dal centro di una torta e di mettervi all’interno di quello spazio. Guardando verso l’esterno, verso i quattro lati, vedreste gli strati interni della torta, di cosa sono fatti, tutti i colori e le consistenze dei diversi ripieni – crema, marmellata e così via. Ma non vedreste nessuna differenza tra un lato e l’altro. Mentre nel parco – ed ecco la grande differenza fra l’esperimento della torta e l’esperienza di Central Park – ciascun lato è unico.

Central Park è stato scavato dalla griglia urbana di Manhattan quando intorno ad esso era stato costruito ancora molto poco, se non addirittura nulla. Quando la città è poi cresciuta a dismisura e si è impadronita dell’isola, quel primo taglio è rimasto intatto. Adesso, guardando verso sud dall’interno del parco, vediamo l’incredibile forza delle strutture di midtown che spingono verso nord; guardando verso est e verso ovest, vediamo gli eleganti palazzi di appartamenti del primo Novecento a due torri, le decorazioni in stile art-déco e svariati musei; guardando verso nord vediamo Harlem, una parte della città più dolce e architettonicamente più delicata, con edifici non troppo alti, o a volte tanto bassi che dal parco non li si vede neppure. Il loro rapporto con il parco è dei più naturali, come quello di una cittadina di provincia con i campi coltivati dei suoi dintorni. I lunghi isolati di Central Park North, con edifici bassi uno dopo l’altro e centinaia di scale antincendio in metallo che riflettono la luce che le colpisce da sud, ispirano emozioni molto diverse dalla congestione architettonica di Central Park South, a cinquantun isolati di distanza. Il Rockefeller Center e gli altri grattacieli della folta giungla di midtown incombono sulla prima fila di edifici lungo Central Park South; quasi li fanno ribaltare. Il grattacielo alle spalle dell’hotel Plaza, quello con la base inclinata, sembra costruito così proprio per resistere a chi lo spinge da dietro.

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La prima svolta si rivela più facile del previsto. Di tutte le piccole bugie che questo disegno racconta, girare l’angolo, ruotare di 90 gradi per passare da un lato all’altro, è probabilmente la più grossa. L’angolo dev’essere appiattito nel disegno per non interromperne la continuità. Qui, all’incrocio fra Central Park North e la Fifth Avenue, i due alti palazzi di appartamenti funzionano perfettamente da perno per la svolta: lo spazio tra di loro è il vuoto attorno al quale passerò dal guardare a nord (verso Central Park North) al guardare a est (verso la Fifth Avenue). La città sullo sfondo seguirà, come l’asta di un compasso. Le due viste si mescolano facilmente l’una all’altra e l’angolo si apre. Più giù, agli angoli più importanti, dove Central Park South incrocia la Fifth Avenue o Central Park West, la città ti circonda invece come un anfiteatro, e le sue masse ti premono con forza dall’alto.

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Ancora al parco a fare foto e a prendere appunti. Un freddo pazzesco, ancora, il che fortunatamente significa niente foglie sugli alberi, ma anche che le mie estremità sono congelate. L’inverno è il periodo migliore per godersi le viste della città, ma anche il più difficile per catturarle. I miei guanti imbottiti rendono estremamente difficile premere il pulsante della macchina fotografica e pressoché impossibile tenere la matita in mano.

Ormai devo avere fatto almeno ottocento foto e sto incominciando a riconoscere gli edifici, anche quelli che non ho ancora disegnato. Malgrado ciò, non mi sembra di poter dire che conosco qualcosa finché non l’ho disegnata. Mi domando cosa vediamo veramente quando andiamo in giro, o anche quando facciamo delle foto. Penso sempre al momento in cui disegnerò quello che sto fotografando, perché allora, e per me solo allora, arriverà il momento di capire, imparare e conoscere.

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Oggi stavo guardando Central Park West dall’estremità est dello Sheep Meadow, quando una signora alle mie spalle dice: “Che splendida opera d’arte”. Quell’osservazione mi ha colpito perché in effetti si trattava di una vista incredibile, ma a quale “opera d’arte” si riferiva? Al parco? All’erba del prato? A un edificio in particolare? Chi era l’artista? Frederick Law Olmsted, che ha progettato il parco? O gli architetti che hanno progettato gli edifici lungo Central Park West? Tutti loro, ma anche tutti noi, senza dubbio. Loro che hanno dato vita a tutto questo, e noi che lo amiamo.

Ci sono posti unici e splendide architetture dappertutto, e si possono dividere in due categorie: posti che sono consapevoli della propria bellezza e posti che non lo sono. Manhattan appartiene a questi ultimi. La sua bellezza è naturale, perché quello che amiamo non è stato pensato semplicemente per il nostro piacere, ma è stato progettato per ragioni pratiche. Pensate alla griglia stradale, allo sviluppo urbano selvaggio spinto dall’economia. Pensate al bisogno di salire verso l’alto a causa del costo dei terreni o al piano regolatore del primo Novecento, che imponeva la costruzione di terrazzature agli edifici man mano che aumentavano in altezza. Tutto questo ha prodotto ciò che vediamo e apprezziamo oggi. (Nessuno ha progettato le viuzze tortuose di tante città medievali italiane per creare vedute piacevoli per i turisti. Una strada tortuosa segue meglio la topografia della zona, crea una barriera contro i rigidi venti invernali ed è più facile da difendere.) Il parco è stato il risultato di una lotta vinta da persone comuni per assicurarsi un bene fondamentale: aria pulita.

Si potrebbe perciò dire che quella vista non è “un’opera d’arte”, dato che non è frutto di una decisione individuale, e che in realtà è New York, la città stessa, che prende queste decisioni, con una propria vita e un proprio cervello. La sua struttura e i suoi meccanismi interni sono alla base della creazione quasi automatica di opere d’arte. È difficile sbagliare, perché è difficile rovinare un sistema che assorbe praticamente qualsiasi cosa, la assimila e ce la restituisce come parte di sé.

Faccio fatica a osservare e a giudicare gli edifici di New York in sé e per sé. Molti non sono belli, molti sono decisamente mal riusciti, forse, ma avrebbe senso dire ciò solo se fossero da un’altra parte, completamente isolati. Qui non mi paiono brutti. Non si può pensare allo skyline semplicemente come a una somma delle sue parti. Lo skyline non è la somma degli edifici che lo compongono contro il cielo. È qualcosa al di là e oltre – qualcosa che trascende gli edifici e vive di vita propria.

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Fra pochi giorni il parco si riempirà di verde. Gli uccelli torneranno e una spessa coltre di foglie attenuerà gran parte del rumore cittadino e oscurerà la visuale. La città sembrerà arretrare. Le vedute nei periodi “verdi” dell’anno mostrano una città distante, più lontana e misteriosa.

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L’altro giorno stavo facendo delle foto da un appartamento al dodicesimo piano di un palazzo sulla Fifth Avenue e la 98ma Strada. Vista stupenda, appartamenti magnifici. Ne ho visti più di una dozzina. Era come una catena: qualcuno il cui appartamento avevo visitato di recente telefonava a un amico in un’altro palazzo e così via. Quelli che mi davano il benvenuto nella loro casa sembravano tutti avere la stessa opinione sulla vista di cui godevano: c’era un sentimento di orgoglio nel modo in cui mi portavano alla finestra, quella era la loro vista – non il mondo fuori dalla finestra, bensì un’estensione del loro appartamento. Un’altra stanza. Sentivo la presenza tangibile della città nella loro vita.

Le foto da questi appartamenti mi sono essenziali per capire e organizzare le informazioni raccolte dal parco: dall’alto posso vedere la massa della città che preme sul parco molto più chiaramente che dal basso. Il passaggio dal parco alla città è improvviso e violento. Non c’è transizione. Da molto sopra la cima degli alberi, il mare verde e la densa vita della città si toccano senza mai sovrapporsi, come se ci fosse un muro invisibile a separarli. Come una città antica che si difende non dal mondo esterno, ma da qualcosa al suo interno. Come una città che abbia costruito delle mura rettangolari, lasciando l’interno del rettangolo vuoto – perché quello è il mondo esterno – e costruendo solo all’esterno. Sarebbe una città piuttosto strana.

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Penso che questo sia il vero skyline di Manhattan. Dal parco, tutti gli edifici sembrano guardarmi. Quando lavoravo allo skyline lungo il bordo esterno della città, gli edifici che vedevo mi davano le spalle, come se a loro non importasse nulla di me.

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Mi ricordo quando, poche settimane dopo essermi trasferito a New York, nel dicembre del 1995, venne un’enorme nevicata. Nel giro di alcuni giorni caddero metri e metri di neve. La città si fermò, come un corridore che si ferma per prendere fiato e per scrollarsi la neve dalle spalle.

I volumi, le forme, le dimensioni degli edifici della città erano cose a cui dovevo ancora abituarmi. Appena sbarcato dall’Italia e ancora fresco dei miei studi ed esperienze architettoniche italiane, camminare a fianco di edifici più alti di dieci piani, o sotto strutture sospese per più di cinquanta metri, esigeva un completo riaggiustamento dei miei sensi. (Qualsiasi luogo viene colto prima con i sensi, e poi spiegato o apprezzato con il cuore e con la mente.) Il rumore e l’odore della città erano altrettanto nuovi. Una passeggiata pomeridiana a midtown, per uno appena sceso dall’aereo, non è un’impresa da poco: le macchie gialle dei taxi punteggiano i fiumi di macchine con i loro colori e i loro clacson, vapori fuoriescono da buchi nel terreno, la luce del sole raramente riesce a penetrare la densità e la mole degli edifici, la cui cima resta spesso invisibile, perché è arretrata e troppo alta per poterla vedere. Costruzioni e trasformazioni dappertutto. Nulla sembra rimanere fermo. Un tumulto di sensazioni che frustravano i miei genuini sforzi per vedere e capire questo posto. Ma fortunatamente un giorno (o meglio una notte) cadde la neve e con essa una coltre di silenzio si posò sulla città – così come mia nonna, con un gesto fermo e armonioso, stende la tovaglia sulla tavola prima di apparecchiarla per il pasto. Tutto si fermò – autobus, metrò, macchine. Potevo passeggiare ovunque, in qualsiasi momento. Potevo alzare gli occhi senza paura di urtare qualcuno o di essere investito da un’auto. Mi si aprirono nuove prospettive sulla città. La mia vista si fece più acuta, come quella di un guidatore che abbassa il volume della radio per fare attenzione ai cartelli stradali.

Quel silenzio è stato uno dei regali più belli che la città mi abbia fatto. Mi ha aiutato a rendere quegli enormi volumi, dimensioni, proporzioni, un po’ più miei, a dar loro una forma umana. Mi ha aiutato a entrare in relazione con loro. Ho visto l’Empire State Building, i canyon lungo la Sixth Avenue a midtown, le irraggiungibili cime di tutti quei grattacieli come non era previsto che li vedessi: domati e resi silenziosi dalla natura, costretti, come tutti noi, ad aspettare che la tempesta cessasse per poter riprendere il loro solito ritmo e riacquistare la loro solita forza. Non c’era differenza, in quel momento, fra loro e me. Il caos che in breve tempo ritornò non ha mai cancellato quel ricordo.

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Un disegno è fatto di linee, le linee sono un’astrazione della realtà, e in quanto tali sono delle finzioni. Devono essere inventate di volta in volta. Le linee di un disegno sono il risultato di una complessa (benché intuitiva) serie di decisioni riguardanti la realtà, di scelte su come mostrare qualcosa che non esiste più di quanto esista l’orizzonte. Un disegno porta con sé le parole “ecco ciò che penso” più che le parole “ecco ciò che vedo”.

Le linee si possono disegnare in molti modi, usando diverse tecniche, ma ciascuna ha un significato particolare, un’intenzione. Collegare un punto con un altro sembra essere l’unico scopo di una linea. Ma c’è ben altro: c’è il come. Come una linea è tracciata rivela la profondità, la conoscenza e il grado di astrazione che si vuole comunicare. Disegnando una linea io posso mostrare accuratamente la geometria della bottiglia che ho di fronte, ma potrei anche tentare qualcosa di più: potrei usare la matita per creare una linea che senta la curva del collo della bottiglia; potrei trattare in modo diverso la linea che rappresenta il cilindro rispetto a quella dell’imboccatura; e metà dell’apertura rotonda sarà più vicina a me, per cui la linea dovrebbe comunicare anche questo, e così via.

Quando si guarda un disegno altrui, e si riescono a seguire i percorsi della penna o della matita, si può risalire o all’occhio che ha scrutato il mondo o alla mente che ha scavato nell’immaginazione. Disegnare dal vivo, o rifare un disegno già fatto da qualcun altro, incide nella mente quello che si sta guardando.

Come in un testo, si può essere ambigui, si può insinuare, o si possono usare troppe linee o troppe parole per descrivere qualcosa quando se ne potrebbero usare meno, riducendo la quantità di informazioni a un minimo convincente. Leggerezza e precisione possono essere espresse da una linea o da una frase (non la precisione della linea tracciata col righello, ma la precisione che deriva dal servire a uno scopo). Una linea disegnata per generare la forma di un’architettura umanizza una veduta, così come una descrizione calda e intensa del sole che illumina un palazzo ad una certa ora del giorno. Le parole possono far pensare, così come le linee possono far vedere quello che non si era immaginato prima.

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Come molti altri visitatori, ho passato i miei primi giorni a Manhattan lamentandomi del dolore al collo perché tentavo di guardare la cima dei grattacieli, che sembravano progettati per essere osservati dalla loro altezza, non dalla mia. I dettagli più belli erano tutti lassù, in mezzo alle nuvole. Prima di essere costruito, ciascuno di questi edifici è stato sul tavolo da disegno di un architetto, e siccome in un disegno la base, il centro e la cima sono visibili nello stesso tempo, non fa differenza se l’edificio è alto trenta metri o trecento; si cambia semplicemente la scala. Perciò, fin dall’inizio, mi ha interessato più il rapporto tra gli edifici di Manhattan e il cielo che il loro rapporto con il suolo. Incantato dall’altezza, e dalla bellezza della cima di questi giganti, non trovavo altrettanto emozionante ciò che si svolgeva ai loro piedi. In Italia, ciò che conta è come un edificio sbuca dal terreno, il suo rapporto con la piazza circostante e con noi, esseri umani. Le grandi eccezioni sono le cupole, strutture cave costruite per far sì che l’anima si elevi al cielo e fatte per essere viste da lontano. Ma in una cupola quello che conta è l’interno vuoto, non la struttura in sé. Qui, invece, ciò che conta è la domanda: “Cosa farà il palazzo quando incontrerà il cielo?” È un nuovo tipo di rapporto, non fra l’architettura e la città, o fra l’architettura e le persone, o fra l’architettura e lo spazio, ma fra l’architettura e il cielo.

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Guardare, seguire questo disegno su un lungo rotolo di carta è come svolgere una storia. L’inizio e la fine appartengono a due momenti diversi. Sono distanti sia fisicamente, sia cronologicamente. Mentre lavoro, non riesco a vedere né l’inizio (arrotolato alla mia sinistra), né, naturalmente, la fine (alla mia destra). Una linea immaginaria segna l’avanzare del lavoro e separa ciò che è finito e pronto a essere stampato da ciò che ancora non esiste. Il rotolo, in effetti, è una serie di sessioni terminate. Dopo ciascuna, avvolgo un altro po’ di carta e ricomincio da zero: schizzo a matita, aggiungo i colori, poi i pastelli e così via. Le nuove porzioni risulteranno unite alle precedenti, ma ciascuna è per me un nuovo disegno, una nuova esperienza: nuovi edifici da capire, nuove proporzioni, nuove scoperte. I molti capitoli di una storia, che si svolge nel tempo e nello spazio, e che si lascia alle spalle ciò che è stato già detto.

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Se si vuole capire una città europea – Roma, per esempio – è necessario prima di tutto sedersi e leggere qualche libro. Bisogna cominciare a scavare e sfogliare gli strati di tempo per immaginarsela “com’era una volta”, e poi rimetterli a posto in ordine, strato dopo strato di storia, distruzioni, costruzioni, idee buone, idee pessime, uno sopra all’altro. In questo modo si può iniziare a capire perché si sta vedendo quello che si vede. Una sfida enorme e bellissima. A Manhattan, se si sfogliano poche centinaia di anni – solo poche centinaia di anni – si resta con niente: un’isola, in una tranquilla baia dell’oceano, coperta di alberi e con qualche roccia che spunta qua e là. Non si può incominciare così. Bisogna invece usare i propri sensi, assorbire e memorizzare tutto quello che si può. Bisogna spiegarsi la città a partire da quello che si vede, non da quello che si sa. Manhattan è il risultato dell’oggi, non di ieri o dell’altro ieri. Quando penso a Manhattan oggi mi viene in mente la Venezia del tardo Medioevo e del Rinascimento. Venezia era allora al culmine del suo sviluppo, della sua produzione culturale e della sua solitudine – senza quasi legami con la terraferma e con lo sguardo rivolto ad altri mondi.

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Manhattan ha messo alla prova tutte le mie aspettative. Rimanevo senza fiato per le dimensioni di alcuni edifici, ma venivo poi rassicurato dal delicato disegno di altri. Ero stupito dalla densità di alcune zone e placato dall’apertura di altre. Quando pensavo di essere nel cuore della città americana per eccellenza, mi accorgevo all’improvviso che per altri aspetti mi sembrava di essere in una città medievale europea: una città che ha ancora confini chiari, demarcazioni, soglie. Oggi la maggior parte delle città antiche è stata fagocitata dai suoi dintorni, dalle sue periferie; città rimaste soffocate dalla loro stessa crescita e che hanno così perso completamente le loro soglie. Avvicinandosi alla parte più antica, il centro, bisogna attraversare zone recenti, meno recenti, quasi vecchie, vecchie e più vecchie, finché finalmente si vede (e si sente) che si sta tornando indietro nel tempo. Il tempo, in questi casi, non lavora solo in verticale, come nell’archeologia (alto = più recente; basso = più antico), ma anche in orizzontale.

Com’è bello invece sapere che si entra in un posto, o che lo si lascia, o che si è appena attraversato un fiume, o il ponte levatoio di un castello, difeso e accogliente allo stesso tempo. Questo è quello che si prova visitando una città medievale perfettamente conservata. La si vede sola in mezzo al paesaggio, la si individua da lontano e ci si dice: “Ah, eccola!”. (È una cosa molto importante: riconoscere qualcosa da lontano per potersi preparare all’incontro.) Ci si avvicina, si incominciano a notare i dettagli, a identificare una torre civica e un campanile, la chiesa più importante, forse una cattedrale. Un’idea di quello che si vedrà all’interno delle sue mura incomincia a formarcisi in testa.

Ecco, Manhattan è proprio così. Se ci si avvicina da terra, la si vede da lontano, da molto lontano. Quando le si arriva più vicino, le diverse parti della città prendono forma: si riconoscono alcuni edifici e li si può usare per ricostruire la propria mappa mentale della città. Ben poco sembra avere senso, se è la prima volta. Se è la cinquantesima volta, ci si incomincia a sentire di nuovo a casa. Si sa che bisogna attraversare un ponte per arrivare, o tuffarsi sott’acqua per riemergere dall’altra parte, e si sa anche che, al crescere della densità, crescerà l’energia, e una volta dentro il resto del mondo resterà fuori.

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C’è un’altra cosa curiosa di Manhattan, o meglio la cosa curiosa: il centro, il baricentro dell’isola, che in tutte le grandi città storiche dell’Europa è la parte più antica e affollata, a Manhattan è semplicemente vuoto. È vuoto grazie a una insolita decisione presa quando l’espansione e la corsa allo sviluppo erano ancora arrestabili. Probabilmente è stata l’unica occasione che questa città abbia mai avuto di scavarsi un enorme rettangolo nel proprio tessuto – nel proprio corpo e meccanismo destinato a produrre ricchezza – e arrestare ogni tipo di costruzione ai suoi margini. Non riesco a immaginare una scelta più coraggiosa e lungimirante nel progettare l’espansione di una città. Oggi Central Park è uno degli aspetti che rendono Manhattan unica. Vuoi uscire dalla città? Entra. Vai dentro, non fuori, e ti troverai in campagna, con la città tutt’intorno, che ti guarda silenziosa, come un cane ben educato che aspetta pazientemente fuori del negozio il ritorno del suo padrone. Sì, è proprio questo che fa la città: si ferma e dice: “Spiacente, io non posso entrare, aspetto qui, tu vai pure”. Quando si entra nel parco, si sente sempre la presenza della città, quasi il suo desiderio di sapere dove sei, e viceversa. C’è una sensazione di mutua e sottintesa fiducia: una città paziente che aspetta il tuo ritorno.

Dall’esterno dell’isola – dai fiumi che la circondano o dagli altri quartieri – non si immagina l’esistenza di un simile spazio aperto all’interno di quell’ammasso di edifici. E viceversa: da dentro al parco il confine esterno è invisibile; non esiste. La città è come una ciambella, e l’unico modo per poter vedere il buco e insieme la circonferenza è dall’alto. Non sono fatti per coesistere nello stesso campo percettivo, eppure si completano perfettamente a vicenda.

Storicamente, la città ha sempre dato le spalle all’acqua. L’acqua non è mai stata vista come una via di fuga, anzi: come un posto da cui fuggire. I bordi dell’isola ospitavano servizi, attività e un tipo di vita che bisognava lasciare ai margini. (Pensate solo a Tudor City, un intero quartiere costruito senza finestre affacciate sull’acqua, per evitare la vista dei macelli lungo l’East River.) Per uscire fuori, la città poteva guardare solo in un’altra direzione: verso il parco, il vero spazio aperto. Al centro, proprio nel suo cuore.

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Ho appena finito di lavorare al Guggenheim Museum, il che significa che ho appena superato l’88ma Strada e la Fifth Avenue, diretto verso sud. È il primo importante monumento che ho disegnato da quando ho incominciato questo progetto.

I monumenti ci toccano in molti modi. Li conosciamo perché, per una ragione o per l’altra, sono entrati a far parte di un repertorio comune di immagini, di ricordi, di foto di famiglia. Ogni cultura ha le proprie foto di famiglia, ma ci sono luoghi che appartengono a un album di fotografie “universale”. New York è molto presente in questo album, e giustamente – in alcuni casi si tratta di singoli edifici, in altri di panorami colti da un punto di vista particolare. Quando vediamo uno di questi luoghi o uno di questi edifici noi reagiamo, perché riconosciamo qualcosa. Ma riconoscere è ben diverso da vedere. Quando riconosciamo, diventiamo praticamente ciechi e la nostra capacità di godere innocentemente di ciò che vediamo scompare. Conoscere diventa un ostacolo, non un vantaggio. Quando si guarda il Guggenheim, non è possibile non riconoscerlo. In questo disegno il mio scopo è guardare il Guggenheim (o un qualsiasi altro monumento o vista famosa) e cercare di non riconoscerlo – guardarlo e disegnarlo nello stesso modo in cui guardo e disegno, per esempio, l’edificio che si trova proprio di fronte al Guggenheim, sull’altro lato della strada. Quel palazzo bianco non è citato in nessuna guida turistica di New York (anche se compare in alcune foto del museo), ma per comprendere le emozioni suscitate dal Guggenheim bisogna includere i dintorni, bisogna avere un’idea del contesto in cui si trova.

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Arrivato a metà strada del disegno, non riesco più a distinguere una sessione dall’altra. La quantità di lavoro, accumulata giorno dopo giorno, fa sì che diventi una cosa sola, un unico prodotto. Il disegno stesso sta prendendo vita e mi lascia libero di commettere degli errori.

All’inizio di un progetto, quando si hanno davanti tutte le possibilità, una svolta sbagliata al primo incrocio può portare lontani dalla meta. Ma quando, per istinto o per fortuna, si incominciano a scegliere le strade giuste (anche se solo più tardi si saprà che sono quelle giuste), gli errori vengono assorbiti e corretti dal meccanismo che si è venuto creando giorno dopo giorno. Ero molto più ansioso, e la mia mano era molto meno sicura, durante i primi centimetri del disegno, quando un grave errore avrebbe provocato in apparenza solo una piccola perdita, visto che avrei potuto facilmente ricominciare da capo. Non ci si rende conto subito di questa nuova libertà, finché non si ha l’impressione di camminare in compagnia di qualcuno, e questo qualcuno è il tuo lavoro.

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Alcuni anni fa feci un viaggio in moto in Tunisia con un mio amico. Lasciammo l’Italia con l’idea di andare il più a sud possibile, e magari arrivare fino al deserto del Sahara. Durante il viaggio, nel sud della Tunisia, giungemmo all’immenso lago salato prosciugato chiamato Chott el-Djerid e discutemmo se attraversarlo o aggirarlo. Il lago è tagliato da un’unica strada completamente diritta (e dico diritta) di 90 km, chiaramente disegnata sulla mappa con un righello e costruita di conseguenza. Naturalmente decidemmo di attraversarlo.

Ci fermammo per fare benzina e comprare qualcosa da mangiare in una cittadina ai margini del lago prosciugato e ripartimmo a metà pomeriggio. Eravamo abituati alle strade e alle distanze europee, a un certo tipo di paesaggio e al fatto che dopo un pezzo di strada rettilinea di solito si trova una curva, un cambiamento. Di solito. I nostri viaggi precedenti erano scanditi dalla varietà, e non immaginavamo che a un certo momento di un viaggio si possa pensare: “Questo dovrà finire, prima o poi – deve finire”. La distanza è qualcosa di soggettivo, non di oggettivo, e tanto o poco dipende da ciò a cui si è abituati. Ma, per ore, il paesaggio lunare che subito incontrammo non cambiò. I primi chilometri avevano un che di interessante. C’era sempre la possibilità di girare e tornare indietro, e questo in qualche modo ci rassicurava. Ma ben presto i minuti incominciarono a dilatarsi, mentre il paesaggio restava immutabile, fisso davanti, intorno e dietro di noi. Cosa stava succedendo? La strada non presentava alcuna difficoltà, poiché – come mostrava chiaramente la mappa – non c’erano curve né variazioni di nessun tipo. Il nostro desiderio di raggiungere l’altro lato ben presto diventò irragionevolmente pressante, cosicché la nostra traversata si fece prima poco piacevole, poi realmente difficile. Durante i primi chilometri, ogni sensazione, del luogo, della velocità, dello spazio intorno a noi, ci pareva in qualche modo estranea. Poi, man mano che i chilometri si accumulavano, quella stessa sensazione lentamente divenne parte di noi. A un certo punto capimmo che eravamo vicini o avevamo già superato la metà della traversata, per cui non aveva senso tornare indietro. Invece di doverci spronare a continuare, adesso eravamo attirati dalla fine della strada di fronte a noi. Il peso aveva lasciato il posto alla leggerezza.

Tutt’intorno a noi c’era un paesaggio di sabbia polverosa e salata. Le nostre ombre diventavano sempre più lunghe. Viaggiare in moto significa che fra te e il paesaggio non c’è nulla. Tu sei il paesaggio.

Avvicinandoci all’altra sponda, la fine della strada ci attirava con sempre maggior forza. Volevamo andare più veloci, ma nello stesso tempo cominciavamo a desiderare che il viaggio si prolungasse. Iniziavamo a rimpiangere quella condizione di sospensione del tempo ancor prima che finisse. Quando arrivammo dall’altra parte, la luce del giorno era quasi svanita. A ovest, le montagne che circondavano il lago prosciugato si stagliavano blu sul tramonto, mentre le montagne di fronte al sole calante erano di un rosso vivo.

Non esiste una cosa come una semplice strada diritta di 90 km. Ogni chilometro ha un sapore diverso; ti spinge, ti attira, ti ipnotizza o ti spaventa.

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L’unico modo per restare fedele al mio progetto apparentemente oggettivo (“disegnare tutti gli edifici che si affacciano sul parco”) è di essere totalmente soggettivo. Il punto di vista cambia ogni pochi isolati; si muove man mano che ci spostiamo lungo il perimetro del parco. L’unico modo per congiungere due di questi punti di vista è una piccola bugia: devo mostrare due facciate di edifici adiacenti che non sono mai visibili nello stesso istante. Ogni edificio ha anche un lato privilegiato, un punto di osservazione migliore per guardarlo e capirlo (gli edifici, in questo, assomigliano molto alle persone).

La serie di bugie necessarie per sistemare le prospettive e i punti di vista funziona come della calce per i pezzi del disegno. Li tiene insieme, li rende una cosa unica.

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Mi sto avvicinando alla 59ma Strada. Finora il punto di vista si è spostato lungo la Fifth Avenue, parallelo alle facciate degli edifici che danno sul parco. Si è fermato ogni tanto per consentire alla prospettiva di centrarsi su alcune strade, ma ha proceduto abbastanza regolarmente. Adesso, avvicinandomi all’angolo sud-ovest del parco, il punto di vista deve rallentare, poi fermarsi e ruotare allo stesso tempo, fino a volgersi verso Central Park South. Se dovessi prendere i quattro lati del parco e semplicemente metterli insieme, ignorerei la città che vedo guardando dritto verso l’angolo, e perderei completamente la densità a sud-est e a sud-ovest del parco.

Una volta che il punto di vista avrà completato la sua rotazione e sarà rivolto verso Central Park South, potrà continuare verso ovest, verso Columbus Circle.

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Gli edifici lungo Central Park South e quelli alle loro spalle sembrano voler saltare nel disegno. È difficile scegliere quali disegnare e quali trascurare, perché mi chiamano, si vogliono far vedere, mi fanno cenno da lontano, “Ehi, e io? Non vuoi mettermi nel disegno? Ma stai scherzando?”.

Creare una prospettiva per questo pezzo è più difficile, molto più difficile di quanto immaginassi. Central Park South non è molto lunga, per cui non ha senso continuare a cambiare punto di vista. Ciò creerebbe inoltre troppi spazi vuoti (i vuoti prodotti dalla giuntura fra due punti di vista diversi) e l’impressione creata dall’incredibile ammasso di edifici si perderebbe. Quindi l’unico punto di vista sarà al centro, fra la Sixth e la Seventh Avenue. Da lì mi volterò prima verso est e poi verso ovest per creare una sola immagine dei tre lunghi isolati di Central Park South.

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L’architettura non sta ferma ma si muove. Non è necessario guardarla per poterla percepire. È percepita dai nostri sensi in ogni momento. Quando ci facciamo i fatti nostri, l’architettura si muove intorno a noi; i palazzi danzano e ruotano e si chinano e si confondono l’uno con l’altro. Percepiamo le loro dimensioni e le loro varie facce in movimento. Assorbiamo tutto questo inconsciamente, del tutto inconsapevoli di essere noi fermi in un mondo di masse in movimento.

Quando la guardiamo intenzionalmente, l’architettura allora si ferma. Guardiamo i dettagli, le proporzioni, i colori, le forme, e ricostruiamo tutto questo nel nostro cervello perché “vogliamo capire”. Trasformiamo un’esperienza sensoriale in un’esperienza intellettuale.

Gli edifici ci parlano. Parlano di emozioni e ricordi. Ci raccontano qualcosa del tempo in cui furono progettati e costruiti, dei materiali usati e della scelta dei dettagli, o della loro assenza. A New York quasi ogni edificio parla un proprio linguaggio. E nel parco, dal parco, questa relazione – il dialogo fra i nostri sensi e le migliaia di linguaggi della città – è sorprendentemente chiara. È chiara perché siamo lontani quanto basta per sentire tutte quelle voci fondersi in una sola.

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Dopo il rumore di Central Park South, non è facile tornare a un ritmo più equilibrato e tranquillo. Gli edifici lungo Central Park West respirano meglio; hanno abbondanza di aria e di spazio intorno a sé. I palazzi con due torri (il Century, il Majestic, il San Remo, l’Eldorado) sono distanti l’uno dall’altro e dominano lo skyline. Molti palazzi art-déco salgono con calma finché raggiungono il quattordicesimo o il quindicesimo piano, poi (come quello all’angolo della 66ma Strada) esplodono in un groviglio di dettagli e decorazioni; diventano improvvisamente castelli di sabbia iper-decorati. Il Majestic, con i suoi costoloni verticali, sembra emergere direttamente dal sottosuolo. Altri (come il Dakota o il St. Urban) sembrano provenire da altre città e da altre epoche. Questi edifici non danno l’impressione di essere sospinti da una grande massa alle loro spalle. Non devono lottare per farsi vedere, o per godersi la vista: stanno semplicemente lì, orgogliosi, davanti al parco.

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La città sta al parco come un ciclone sta al suo occhio: non c’è vento, non c’è energia nell’occhio del ciclone, solo intorno ad esso. La forza centrifuga della tempesta apre il suo centro, il silenzio sembra irreale, il cielo è limpido, la città resta fuori.

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Il sistema della griglia stradale ortogonale è un meccanismo molto utile. Quando mi trasferii a New York, mi ci volle solo un giorno per imparare come e in quanto tempo potevo andare in un posto qualsiasi. (A parte downtown, naturalmente, dove mi sentivo a casa in altro modo, a causa delle sue strade strette e tortuose.) Il sistema della griglia ti permette di capire Manhattan istantaneamente. Ti permette di localizzare il punto A e il punto B, poi di collegarli e di valutare la distanza, il tempo e lo sforzo fisico necessari per andare dall’uno all’altro. La comprensione di una città europea, invece, si basa sulla conoscenza degli itinerari. Sapere la posizione dei punti A e B spesso non è sufficiente per visualizzare e valutare il percorso reale. Bisogna conoscere un certo numero di itinerari prestabiliti che collegano le diverse zone della città, in modo da poter cercare i punti precisi all’interno di quelle zone.

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Qualche settimana appena passata in Italia, a risentire odori familiari, a vedere immagini di antiche città e a percepire tempo accumulatosi su pietre, mura e palazzi. Qualche settimana passata ad Ascoli Piceno, città di origine della mia famiglia, il cui centro è un antico, denso agglomerato di edifici dell’epoca romana, medievale e rinascimentale, che proteggono una piazza incredibile, uno spazio aperto completamente rivestito con lo stesso travertino di cui sono fatti tutti gli edifici. Piazza del Popolo ti si apre davanti mentre passeggi, all’improvviso, e ti mostra uno spazio aperto rettangolare, lastricato e circondato da portici, dal palazzo municipale medievale (Palazzo del Popolo) e dal fianco (non dalla facciata!) della basilica più importante (San Francesco). È spettacolare e rassicurante nello stesso tempo.

Ad Ascoli, i miei pensieri sono tornati rapidamente a Manhattan e alla sua preziosa apertura, Central Park, la cui pavimentazione è fatta di erba e il cui colonnato è fatto di alberi e magnifici edifici, tutti diversi l’uno dall’altro, separati ritmicamente dalle strade della griglia. Variano in altezza, materiale, peso e carattere, ma tutti si affacciano sul parco, come se guardassero rispettosamente la piazza principale della città.

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Sembra che tutti noi che veniamo a New York da qualche altra parte vogliamo conoscerla, e conoscerla a modo nostro. Vogliamo scoprire cose che nessuno ha scoperto prima, o che sono state in qualche modo trascurate. E vogliamo capire perché è così bella, e intensa, e da dove viene la sua energia. Noi (che veniamo da altrove) ci mettiamo un po’ ad accettare il fatto che un posto in evoluzione raramente si lascia spiegare, perché non è mai finito. Semplicemente ha bisogno della tua vita – la tua energia – che poi diventa parte dell’“energia della città”.

La complessità e la ricchezza della città sono i segni della sua continua trasformazione: quartieri che si spostano e cambiano nel giro di pochi anni, edifici che vengono sostituiti con altri e continuamente ricostruiti, un nuovo palazzo che sorge a ogni angolo. Ci vuole energia per tenere il passo del cambiamento. Scordati di capire il perché.

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È l’inizio dell’autunno. Nel parco. Il sole è appena calato oltre l’orizzonte, nel New Jersey, e la sua luce sta svanendo a poco a poco. In questo momento fugace, il mio affetto per la città è al culmine. È durante questa transizione che la città appare umana e vulnerabile. Gli uccelli del parco sono ormai quasi completamente in silenzio; le finestre degli edifici rivolti a ovest (lungo la Fifth Avenue) si illuminano e scintillano negli ultimi istanti di luce naturale. Le luci all’interno degli edifici si accendono poco per volta, ma non si capisce se quello che si vede dipende dalla luce artificiale o dal riflesso, perché i riflessi, in questo istante, appaiono luminosi come le luci all’interno. È come se le ultime scintille di luce naturale fossero rimaste intrappolate dentro gli edifici.

Mi giro dall’altra parte (verso Central Park West) e guardo gli edifici rivolti a est: il sole, dietro di loro, è scomparso e tutti i colori del tramonto disegnano lo sfondo della loro silhouette. Gli edifici sembrano incisi nel cielo, completamente privi di volume. Le luci all’interno vengono accese, poco per volta, qua e là, a caso, ma non sembrano altrettanto brillanti, a causa dell’effetto abbagliante dello sfondo. Sono queste luci che ridanno profondità agli edifici.

Un vento fresco si leva dal parco e mi immagino che sia il respiro di tutti i volumi che reagiscono, all’avvicinarsi del buio, espandendosi e contraendosi.

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La radio ci ha avvertiti stamattina che la tempesta di neve che sta per abbattersi su New York oggi si estenderà su un terzo degli Stati Uniti. Una tempesta di queste dimensioni è insolita per l’inizio di dicembre. In genere si verifica più in là, a gennaio o a febbraio.

Ero al parco stamattina e mi godevo la vista della neve che cadeva e ascoltavo il suono – tic, tic, tic – che fa quando colpisce le poche, indurite foglie superstiti. Nel North Meadow, lungo il confine nord, scorgo un tizio che cammina fra i cespugli. Quando mi vede, corre fuori e mi chiede con un forte accento (credo dell’Australia o della Nuova Zelanda, non ne sono sicuro): “Dov’è il sud?” A una domanda così semplice e diretta, io rispondo allungando il braccio nella direzione giusta, cioè verso Central Park South, un po’ inclinato verso l’hotel Plaza. Il tizio mi ringrazia e incomincia a camminare, ma dopo un paio di passi si ferma e mi chiede (e stavolta il suo accento è talmente forte che devo chiedergli, col mio di accento, di ripetere quello che ha appena detto): “Come si fa a uscire di qui? Voglio dire, bisogna conoscere tutti i sentieri di questo posto o c’è un altro modo?” Era incredibile, ma stava mettendo il dito proprio su una delle questioni che andavo rimuginando da qualche mese. Ero pronto a sostenere una lunga discussione filosofica sull’idea di essere fuori della città, anziché “intrappolato” al suo interno, come sottintendeva lui. La sua domanda chiariva il paradosso del rapporto fra il parco e la città: aveva creduto di entrare in un famosissimo parco, e invece si era trovato fuori città, perduto, come in una fiaba. Il che era vero soprattutto questa mattina, quando di Manhattan si riusciva a vedere solo il vago contorno grigio degli edifici contro un cielo e un terreno lattiginosi, tutti dello stesso colore. Mi divertì che mi chiedesse come “uscire” di lì, quando in realtà sperava, anche con una certa ansia, di “rientrare” in città. Invece di annoiarlo con tutto questo, gli dissi semplicemente che sì, si potevano studiare tutti i sentieri, ma il modo più semplice, per me, era quello di usare gli edifici intorno al parco come punto di riferimento per sapere la propria posizione.

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L’aspetto di tecnica esattezza che volevo a tutti i costi evitare – ebbene, l’ho evitato. La linea degli alberi è gradualmente scesa verso il basso del foglio, un fatto che noto solo adesso, al momento di disegnare il secondo dei due edifici a torre all’angolo fra Central Park West e Central Park North. Avevo disegnato quello sul lato nord all’inizio del lavoro e adesso, che sono alla fine del disegno, devo disegnare quello sul lato sud. Volevo assicurarmi che quest’ultimo edificio fosse, sulla carta, alla stessa altezza. Ho srotolato il disegno fino all’inizio e ho preso un pezzo di carta da schizzi per ricalcare i primi centimetri del disegno. Poi ho riarrotolato tutto il disegno fino alla fine e l’ho sovrapposto allo schizzo. Ebbene, non corrisponde. La fine del disegno è considerevolmente più in basso dell’inizio. Non ho molto spazio per correggere (cinque o sei isolati), ma per fortuna qui nel parco c’è la Great Hill. La Great Hill è abbastanza alta e impedisce la vista di molti degli edifici bassi su Central Park West e la 107ma, 108ma, 109ma Strada. Usando la collina, posso alzare la base verde e sistemare l’ultimo edificio, “Towers on the Park” (Sud), più o meno dove dovrebbe essere, di fronte al suo gemello sull’altro lato della strada.

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Mi mancano pochi centimetri; è arrivata la fine del lavoro. La aspettavo da tanto tempo, ma adesso non vorrei davvero vederla. Sento l’odore del legno del rocchetto di destra. Su quello di sinistra c’è uno spesso rotolo di carta. Sembra più vecchio adesso. È pieno di colori, di linee, di dettagli di tutti gli edifici che ho disegnato.

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Per disegnare l’ultimo angolo, fra Central Park West e Central Park North, devo usare le prime foto, fatte un anno fa. Guardo lo stesso angolo 9 metri e 75 centimetri, 624 edifici e 35.842 finestre dopo. Mentre svolgo il disegno, gli edifici mi passano davanti. Vedo le molte sessioni che adesso sono una sola, i giunti senza giunture. Rivivo tutte le scelte, quale lato di un edificio mostrare, come svoltare un angolo, dove collocare un punto di vista. La fine mi ha riportato al principio, ma quest’ultima giuntura – la giuntura del tempo – non resterà invisibile. Quest’angolo, per me, non è più lo stesso posto.

 

1 marzo 2002 – 24 febbraio 2003

 

Traduzione dall’inglese di Alberto Cristofori

 

By Matteo Pericoli

A journal kept from March 1, 2002 until February 24, 2003 that accompanies the 22-foot long accordion-format drawing in Manhattan Within (Random House, 2003)

[Clicca qui per la versione italiana]

Manhattan Within Legend

The original 34-foot long drawing wraps around Central Park


In May 1998 I took my first Circle Line tour around the island of Manhattan. That three-hour-long experience was the inspiration for a book published in October 2001, Manhattan unfurled, that depicts the entire East Side and West Side of the island as seen from the water. In March 2002 I began working on a drawing of the city as seen from Central Park, looking out. The following text is based on the journal that I kept throughout the time I worked on that drawing, from beginning to end.

The time to put my hands and tools on the paper has finally come. The thirty-two-foot roll in front and ahead of me is white and scarily long. I have spent the last few months making sketches, taking photographs, trying one technique then another, always knowing that, so deep inside the island, the drawing cannot be just black and white, ink on paper. It has to have color; it has to seem to be made of matter. There isn’t simply water between the city and me—there is green this time, there are leaves, there is soil, there is dirt.

I have made some rough calculations: the park is 51 blocks long and approximately 10 street blocks wide, so its perimeter is about 122 blocks. This means that, for the drawing to fit on the thirty-two-foot-long roll of paper I have chosen, each block should measure three and a half inches, more or less. The rest will be improvisation. I don’t want the drawing to appear too scientific. What I am doing now is entering the park from its northwest corner, leaving the city’s noise behind—or, rather, all around—me. I am going in. I will then turn around and look back.

Observed from the park, the city seems to rise from a cloud of trees. None of the buildings shows its base, its roots. Instead they all float upon the green cloud.

Outside the park, to locate yourself within the grid of the city, you need to know your coordinates—an avenue and a cross street. In the park, in order to understand where you are, you have to look outward, at the buildings.

The drawing will focus on the buildings that push in from just outside the park, and on the skyline that they carry on their shoulders. It will focus on a line, an imaginary and ever-changing line, created by the end of the park (at the tops of the trees) and the beginning of the city. The park in the drawing will fade away, since, for my purpose here, it serves only as a viewpoint from which to see the inner skyline of Manhattan.

I have been searching for the missing pieces of the puzzle that I am trying to put together. Today I am working on a portion of Central Park North. The final look of the drawing will be a combination of what I have captured with photographs and what I have recorded in my sketchbook, all mixed with a good dose of invention. I will be drawing something that does not exist in reality or, better, that in reality is visible only piece by piece, never as a whole.

Walking around the park “in search” of the city is exactly what I feel this work should be: a hunt for a reversed, inside-out skyline. How the city reveals itself facing its center, its heart, within its inner edge, and not how the world outside sees it. And yet, while I was walking in the woods this morning, it suddenly occurred to me that I hadn’t entered the city more deeply but that I had just left it.

Today I left the city and entered the park once again at 110th Street and Central Park West and walked along its edge all the way down to Sixty-sixth Street. I was inside the park but not too inside, jumping over stones and around trees to look at the city outside while hunting for an opening in the tree branches that would reveal a piece of the skyline to connect to the one I had just seen before.

The park itself would be nice enough on its own, but it is the backdrop of the city behind it that makes it magic. Most of the photographs of Central Park that I see people taking or that I have seen on postcards or collected in books about the city show the same thing: never the buildings alone, or the park by itself, but the juxtaposition, the contrast of the two together.

All the photographs I need (dozens for each few blocks) and my notes are lying on my desk. It’s a mess. The thirty-two-foot-long piece of paper is rolled onto two wooden spools, one at each end. A two-foot portion is open right in front of me and ready to be worked on. The work I have already completed is rolled up on the left spool; the remainder of the drawing (thirty feet or so) is rolled up on the right one. Because I am right-handed, I move along the perimeter of the park clockwise. I have, somewhere in this mess, my regular basic graphite pencils (for the first rough sketch), my colored pencils, oil pastels, a steel point, and a set of harder, more precise, graphite pencils.

The many photographs spread out in front of me depict the portion of the skyline I plan to work on. They show different faces of the different buildings, from many possible viewpoints, in various seasons and light conditions. I begin by staring at these images for a long time. I need to absorb them and understand them. I have to isolate each building, learn how it relates to its neighbors, and discover its main characteristics or, rather, its character.

There is a moment during this phase when it seems the right time to make a first, rough sketch of the few blocks I am looking at. I sketch the buildings, their outlines and proportions, and choose a perspective from which to draw. It’s never right the first time—never. This sketch represents a series of possibilities: many lines cross each other, and the same building may show up in more than one place or in more than one position.

The most recently completed buildings (rolled up on my left) will help me determine the size of what will come next. Big buildings are tricky, since I risk overestimating their scale and finding myself later on with not enough vertical room on the paper. 

Then I take my colored pencils and go over all the lines that I am interested in—all the lines that set those buildings in place and that portray their overall traits: height, width, depth, profile, but still no details, no patterns, no windows and such. I am fixing one outline among the many. The pencils are of various colors: blues, reds, deep yellows, oranges, violets, and variations of these. I use them at random, then I take the oil pastels and cover the whole sketch with a thick layer of soft colors: cream, azures, light yellows and oranges and white or off-whites. My hands get dirty with oil pastels, and the colored-pencil sketch disappears, almost completely buried by the oil. I can barely make out, if at all, the lines from the drawing below.

Then it’s time to take the fine steel point, a burin, and start to scratch away—searching for the lines that lie underneath. I find them, here and there, and what I find are not precise, straight, or univocal elements. They are confused lines, combinations of many scratches in many directions. It’s like excavating a buried city. Every line I find gives me a clue, a clue about the city to be discovered and a clue about my own drawing. Sometimes I remember what I did and go by memory; other times I wonder, “Where the hell did I put that line?”

This is the most exciting part of the process, during which I don’t know exactly what I am doing. I just search and react to what I see coming up in front of me. There is no way to make a mistake, since if I scratch where there is no line, I’ll just look elsewhere. The line, being the result of a series of tentative lines, is similar to the spirit of what I’d like to do: this skyline is not the skyline, the only possible skyline, but the result of many possible portions of a skyline that, as a whole, is invisible.

I keep scratching. Quietly, the drawing resurfaces. The city reemerges. It’s like archaeology. The city rises from the bottom of the paper and melts with the oil pastel.

After the buildings have reemerged, I take my more precise—much harder and very sharp—graphite pencils to give their shapes and volumes strength, and continue sculpting the forms by adding all the details, patterns, and windows. At this point I usually feel some nausea, for these buildings have an untold number of windows, openings, glass walls, etc.

After the nausea passes, I go back with the burin and scratch away the oil pastel from all the windows, so that they gain in depth. Finally, with a softer graphite pencil, I add an L-shaped line to two edges of all the windows that fixes and gives depth to the hole.

Each of the four sides of Central Park shows a different face of the city. Imagine cutting a square out of the center of a cake and putting yourself inside that opening. Looking out at the four sides, you would see the inner layers of the cake, what they are made of, all the colors and textures of the different fillings, creams, jams, and so on. But you wouldn’t see any variation from one side to the other. Whereas in the park—and this is the big difference between the cake experiment and the Central Park experience—each side is unique.

Central Park was carved out from the city’s grid when very little had been built all around it. When the city expanded, and took over the island, that first cut was left intact. Now, looking south from inside the park, we see the immense power of the midtown structures pushing north; looking east and west we see elegant two-towered early-twentieth-century apartment buildings, Art Deco details, and museums; looking north we see Harlem, a gentle and architecturally softer part of the city, with buildings not too high, or so low at times that from the park you can’t even see them. They relate to the park in the most natural way, as a small town in the country would relate to its outskirts, to the cultivated fields. The long avenue blocks of Central Park North, with rows of town houses and hundreds of metal fire escapes reflecting the wide-open southern light, inspire a very different emotion than the opposite side, the architectural congestion of Central Park South, fifty-one blocks away. Rockefeller Center and the other skyscrapers from the dense midtown jungle push on the first row of buildings along Central Park South; they almost topple them. The swooping skyscraper behind the Plaza hotel seems to have been built so as to resist those pressing from behind.

The first turn proves easier than I had expected. Of all the little lies that this drawing tells, turning the corner, rotating by 90 degrees from one side to the next, is probably the biggest. The corner has to be flattened in the drawing and cannot interrupt its continuity. Up here, at the corner of Central Park North and Fifth Avenue, the two identical apartment towers work perfectly as a pivot for the turning point: the space in between them is the void around which I will jump from looking north (at Central Park North) to looking east (at Fifth Avenue). The city in the back will follow; it will follow like the moving arm of a compass. The two vistas melt easily into one another and the corner opens up. Down at the two major corners, where Central Park South crosses Fifth Avenue or Central Park West, the city surrounds you like an amphitheater, its masses looming heavily above you.

In the park again, taking photographs and making notes. Freezing cold, again, which luckily means no leaves on the trees yet, but also frozen extremities. Winter is the best time for views but the hardest for capturing them. My bulky gloves make it extremely hard to press the camera’s button and almost impossible to hold my pencil.

By now, I must have at least eight hundred photos, and I am starting to recognize the buildings, even buildings I haven’t drawn yet. Even so, I never feel I really know anything until I draw it. I wonder what we really see when we walk around, or even when we take pictures. I am always thinking about the moment when I’ll draw what I am photographing, because then, and for me only then, the moment of understanding, learning, and knowing will take place.

Today I was looking at Central Park West, from the eastern edge of the Sheep Meadow, when a woman behind me said, “What a beautiful work of art.” I was struck by her comment because yes, it was an incredible view, but to what “work of art” was she referring? The park? The green of the meadow? A particular building? Who was the artist? Mr. Olmsted, who designed the park? Or the architects who designed the buildings along Central Park West? All of them, but certainly all of us, too. They who brought this to life, and we who love it.

There are unique places and extraordinary architectures everywhere, and they can be divided into two categories: places that are aware of their own beauty and places that are not. Manhattan belongs to the latter. Its beauty is raw, since what we love was not designed to merely please us but was designed for practical reasons. Imagine the grid system, the wild economy-driven urban development. Imagine the desire to go higher because of the cost of real estate, and the terracelike setbacks of the early-twentieth-century buildings determined by zoning regulations. All this resulted in what we see and appreciate today. (No one designed the winding roads of many Italian medieval towns to create charming views for tourists. A winding road follows better the topography of the area, creates a barrier to the harsh winter winds, and is easier to defend.) The park was the result of a fight won by ordinary people to ensure for themselves a very basic need: fresh air. 

So you could say that the view is not a “work of art,” since there has been no single-handed decision behind it, but in fact it’s New York, the physical city itself, that makes such decisions with a life and mind of its own. Its structure and inner mechanisms have become the foundation for the automatic creation of works of art. It is difficult to make a mistake, since it is hard to ruin a system that absorbs almost anything, assimilates it, and gives it back to us as a part of itself.

I have trouble looking at and judging buildings in New York for themselves. Many are not nice, many are truly unpleasant, perhaps, but it would make sense to say so only if they were somewhere else, completely isolated. Here they don’t strike me as ugly. One cannot think of the skyline as simply the sum of its parts. The skyline is not the sum of its buildings against the sky. It is something over and above that—something that transcends the buildings and has a life of its own.

In a few days the park will be filled with green. The birds will be back, and a thick layer of leaves will silence most of the city’s noise and obscure parts of the view. The city will step back. The views in the “green” period of the year show a city far away, more distant and more mysterious.

The other day I was taking pictures from an apartment on the twelfth floor of a building on Fifth Avenue and Ninety-eighth Street. Staggering views, amazing apartments. I have visited more than a dozen of them. It worked like a chain: someone whose apartment I had recently visited would call a friend in another building and so on. Those who welcomed me seemed to share a similar perception of their views. Indeed, there was a sense of pride in the way they led me to the window, that in fact it was their view—not the world outside the window, but an extension of their apartment. An additional room. I could feel the city’s tangible presence in their lives. The photographs from all those apartments are essential to understand and organize the information I gathered from the park.

In addition, from high up I could see the mass of the city pressing onto the park far more clearly than from below. The transition from park to city is sudden and abrupt. There is no in-between. From so high above the tree line, the sea of green and the density of this city’s life come to touch each other yet never overlap, as if an invisible wall were standing there to separate them. Imagine an ancient city protecting itself not from the outside world but from something within itself. Imagine a city that built a rectangular wall, left the inside of the rectangle empty—because that’s the outer world—and built only around that wall. That would be quite an unusual city.

I think that this is the real skyline of Manhattan. From the park all the buildings seem to look at me. When I was working on the skyline along the edge of the island, they were giving their backs to me as if they didn’t care.

I remember when, just a few weeks after I moved to New York City, in December 1995, an enormous snowfall hit the area. Foot upon foot of snow fell within a few days. The city stopped, like a hiker who pauses to catch his breath and brush the snow off his shoulders.

The volumes, the shapes, the size of the constructions in the city were something I still had to get used to. Fresh from Italy, and from my architectural experience and studies over there, walking around buildings higher than ten stories, or underneath floating structures spanning more than fifty yards, required a complete readjustment of my senses. (A place is first grasped with the senses, and later explained or appreciated with heart and mind.) The noise and the smell of the city were just as new. An afternoon walk in midtown for somebody just off a plane is not an easy thing: yellow stains mark the rivers of cars with their color and honking, vapor is exhaled from holes in the ground, sunlight rarely makes it through the density and height of the buildings, whose tops are often invisible, since they are set back and are way too high to see. Construction and transformation are everywhere. Not one thing seems to stand still. All of these sensations overwhelmed my efforts, as a newcomer, to simply see, to understand this place. But luckily, as I said, one day (or, actually, one night) the snow came and with it a layer of silence settled on the city—the way my grandmother used to wave a cloth onto the table with a smooth one-shot motion before setting it for a meal. The snow placed itself uniformly all over the city, and quieted everything. Everything stopped—buses, subways, cars. I could walk anywhere, anytime. I could look up without fear of walking into somebody or being hit by a car. New perspectives opened up. My vision sharpened, like the vision of a driver who lowers the volume of the radio in order to pay attention to the road signs.

That silence was one of the most beautiful gifts the city offered me. That silence helped me. It helped me make all those big volumes, dimensions, proportions a little more mine, to give them a human shape. It helped me relate myself to them. I saw the Empire State Building, the canyons along Sixth Avenue in midtown, the unreachable tops of all those skyscrapers in a way they were never intended to be seen: tamed and quieted by nature, forced, like the rest of us, to wait for the storm to be over before they could resume their usual rhythm and power. There was no difference, in that moment, between them and me. The chaos that soon returned never took that memory away.

A drawing is made of lines, lines are an abstraction of reality, and as such they are fictions. They must be invented time after time. The lines of a drawing are the result of a complex (although intuitive) series of decisions regarding reality, choices about how to show something that does not exist any more than the horizon does. A drawing carries within itself the words “here is what I think” rather than “here is what I see.”

Lines can be drawn in many ways, using many different techniques, yet each one carries a different meaning, an intention. Getting from one point to another seems to be the only purpose of a line. But there is much more to it than that: there is the “how.” The “how” a line is drawn reveals the depth, the knowledge, and the degree of abstraction that one wants to convey. With a line drawing I can accurately show the geometry of the bottle in front of me, but I could also try to do more: I could use my pencil to create a line that “feels” the curve of the bottle’s neck; I could treat differently the line that represents the cylinder versus the one for the mouth of the bottle; and half of the mouth’s round opening will be closer to me, so that line should convey that, too, and so on.

When you look at someone else’s drawing, you can follow the paths of the pen or the pencil, and track either the eye as it searched the world or the mind as it dug into imagination. To draw from life, or to redraw a drawing already made by someone else, engraves in your brain what you are looking at.

As in a text, one can be ambiguous, one can insinuate, or one can use too many lines or too many words to describe something when the same could be done with less, compressing the amount of information to a convincing minimum. Lightness and precision can be expressed by both a line and a sentence (not the precision of a ruler-made line, but the precision that comes from serving a purpose). A line drawn to generate the shape of a building humanizes a view, like a warm and intense description of how the sun hits a building at a certain time of day. Words can make you think, as lines can make you see, what you hadn’t imagined before.

I spent my first days in Manhattan lamenting what most visitors must complain about: my neck ached all the time from trying to see the tops of the buildings, which seemed to have been designed to be observed from their own height, not mine. The most beautiful details were all up there, among the clouds. Before they were erected, each of these buildings once stood on some architect’s drafting table, and since in a drawing the bottom, middle, and top are all visible at the same time, it makes no difference whether your building is a hundred feet high or a thousand; you just change the scale. So from the very beginning I was always more interested in how the buildings here in Manhattan relate to the sky than in how they relate to the ground. Bewildered by the height and the beauty of the tops of these gigantic structures, I didn’t find what happened at their bases as exciting. Where I come from, what counts most is how a building springs from the ground, how it relates to a nearby piazza and to us, human beings. The great exceptions over there are the cupolas, hollow structures built to allow your soul to reach up to the sky and meant to be seen from afar. But in a cupola what counts most is the void inside, not the structure itself. Here, instead, what counts is the question, “What is the building itself going to do when it meets the sky?” It is a new kind of relationship, not between architecture and the city, or architecture and the people, or architecture and space, but between architecture and sky.

This drawing is on a long roll of paper. To look at it, to go along with it, feels like unfolding a story. The beginning and the end belong to two different moments in time. They are far away both physically and chronologically. While I work, I can see neither the beginning (since it’s rolled up on my left) nor, obviously, the end (on my right). An imaginary line marks the progress of the work and separates what’s finished and ready to be printed from what does not yet exist. The scroll, in fact, is a series of finished sessions. After each one, I roll up some more paper and start again from zero: sketch with the pencil, add the colors, then the pastels, and so on. The new portions will be seamlessly connected to the previous ones, but each will be a new drawing for me, a new experience: new buildings to understand, new proportions, new discoveries. They represent the many chapters of a story, unfolding in time and space, leaving behind what’s already been told.

If you want to understand an ancient European city—Rome, for example—you have to first sit down and probably read a few books. You have to start to dig and peel away layers of time to imagine “what it looked like when,” and then put them back, in order, layer after layer of history, destructions, constructions, good ideas, terrible ideas, one on top of the other. This way you’ll have a sense of why you are seeing what you are seeing. A huge challenge, and a beautiful one. In Manhattan, if you take away a few hundred years—just a few hundred years—you are left with nothing, an island in a calm bay of the ocean, with lots of trees and strong rocks sticking out here and there. You can’t start that way, no. Instead you have to use your own senses, absorb all that you can, and retain as much as possible. You have to explain the city to yourself from what you see, not only from what you know. Manhattan is the result of now, not of yesterday or even the day before yesterday. The Venice of the late Middle Ages and Renaissance comes to mind when I think of Manhattan today. Venice was then at the highest point of its development, of its cultural production, and of its loneliness—attached by nothing to the mainland and looking, all alone, toward other worlds.

Manhattan challenged my expectations. While being struck by the scale of some buildings, I was reassured by the gentle design of others; I was amazed by the density of some areas and calmed by the openness of others. When I was thinking of being in the middle of the American city, I suddenly realized another way in which it felt more like being in a medieval town in Europe: this city still has clear borders, demarcations, and thresholds. Today most ancient cities have been swallowed up by their outskirts, suburbs, and peripheries; they have been suffocated by their own growth and thus have completely lost their thresholds. In approaching them—before reaching the oldest part, the center—you have to go through layers and layers of recent, less-recent, quasi-old, old, and older areas until you finally see (and feel) that you are going back in time. Time doesn’t work only vertically in these cases, as in archaeology (up, more recent; down, older), but horizontally, too.

How nice it is instead to know that you are entering a place, or that you are leaving it, or that you have just crossed a river, or jumped into a castle over one of its drawbridges, defensive and welcoming at the same time. This is what you feel when you visit those beautifully preserved medieval cities of Europe (so old and so remote that they look fake, having lost all the practical reasons for maintaining their original fabric). You see one of these cities standing alone in the landscape, you locate it from afar, and you tell yourself, “Ah, there it is!” (which is a very important thing—to recognize something from far away in order to prepare yourself for the encounter). You approach it, it comes closer, you start to notice details, you begin to identify a civil tower and a bell tower, the main church, perhaps a cathedral. An idea of what you may be going to see within its walls starts to build inside your head.

Well, Manhattan turns out to be the same. If you approach it from the mainland you see it from far, very far away. When you get closer, different parts of the city take shape; you recognize some of the buildings, which you use in order to reconstruct your own map of the city. Very little makes sense if it’s the first time. If it’s the fiftieth time, you start to feel you are home again. You know that you have to cross a bridge to get there, or dive under the water to reappear on the other side, and you also know that as the density increases, so will the energy, and—once you are in—the rest of the world will remain behind.

There is another peculiar thing about Manhattan, or actually the peculiar thing: the very center, the geometric center of the island, which in all the big historic European cities is the oldest and most crowded part, in Manhattan is simply empty. It is empty because of an unusual choice made when the expansion and the rush of development were still possible to block. Probably that was the one and only chance this city ever had to carve such an immense rectangle out of its own grid, out of its own money-making body and mechanism, and block any kind of construction at its edges. I can’t imagine a more courageous and more farsighted choice in designing the expansion of a city. Today Central Park is another aspect of Manhattan’s uniqueness: You want to get out of the city? Go in. Walk inward, not outward, and you will find yourself in the country, with the city all around silently looking at you, like a polite dog that waits patiently outside a store for its owner to come back. Yes, that’s what the city does; it stops right there and says, “Sorry, I can’t get in, I’ll wait for you here, just go ahead.” When you walk inside the park, you always feel the presence of the city, its desire to know where you are, and vice versa. There is a sense of mutual and implied trust, a patient city waiting for your return.

From outside the island, either from the surrounding rivers or from the outer boroughs, one can’t imagine such a wide-open space contained within that mass of buildings. And vice versa: from inside the park the outer edge is invisible; it doesn’t exist. The city is like a doughnut, but the only way you can see the hole and the outer edge is if you look from above. They were not made to coexist in one field of perception and yet they complement each other perfectly.

Furthermore, historically the city has always turned its back on the water. The water was never seen as an escape, in fact quite the contrary: a place to escape from. The edge of the island contained services, activities, and a kind of life that were to be left at the margin. (Just think of Tudor City, an entire neighborhood built without windows facing the water, in order to avoid the view of the slaughterhouses along the East River.) For a way out, the city could look in the only other possible direction: toward the true open, the park. Right in its core, in its heart.

I have just finished working on the Guggenheim Museum, meaning that I just passed Eighty-eighth Street and Fifth Avenue, heading south. It is the first major landmark building that I have drawn since I started this project.

Landmark buildings affect us in many ways. We know them because, for one reason or another, they have entered a communal book of images, of memories, like a family photo album. Each culture has its own book of family photographs, but there are some sites that belong to a “universal” book of family photos. New York has many entries in this book, and rightly so—some are singular buildings and others are vistas from a specific point of view. We react when we see one of these places or buildings because we recognize something. But recognizing is quite different from seeing. When we recognize, we grow blind, and our capacity to innocently enjoy what we see practically disappears. Knowing becomes an obstacle, not an advantage. When you look at the Guggenheim you cannot not recognize it. In this drawing my goal is to look at the Guggenheim (or at any other landmark, for that matter) and try not to recognize it—to look at it, and draw it in the same way as I look at and draw, for example, the building that is right across the street from the Guggenheim. That white apartment building is not mentioned in any tourist guidebook to New York (although it shows up in some photos of the museum), but in order to understand the emotions that the Guggenheim stirs, one has to include its surroundings, one has to get an idea of the environment that hosts it.

Halfway into the drawing, I can no longer distinguish one individual session from the other. The amount of work, day after day, is starting to melt into one thing, one single product. The drawing itself is coming alive and it is giving me the freedom to make mistakes.

At the beginning of any project, when all possibilities are in front of you, a wrong turn at the first crossroad will lead you away from your goal. Once, whether by instinct or luck, you begin to choose the right paths (although you don’t know that those are the rights paths until later), the mistakes you make become absorbed and fixed by the mechanism that you have been creating day after day. I was much more anxious, and my hand was less secure, during the very first feet of the drawing, when a big mistake would have produced only a minor loss, since I could easily have started over. You are not fully conscious of this new freedom at first, until you feel as if you are walking along with somebody, and that somebody is your work.

Some years ago I made a motorcycle trip to Tunisia with my friend Stefano. We left Italy planning to go as far south as we could, if possible to reach the Sahara desert. On our way, in the southern part of Tunisia, we came to the immense dried-up salt lake called Shott El Djerid and discussed whether to cross or go around it. The lake is bisected by a single, completely straight, and I mean straight, ninety-mile-long road, clearly drawn on a map with a ruler and built accordingly. We decided, naturally, to go across.

We stopped for gas and some food in a little town at the edge of the dried-up lake and then left it behind in midafternoon. Our minds were accustomed to European roads and distances, to certain changes in landscape, and to feeling that after a stretch of straight road usually comes a curve, a change, usually. Any trip was paced by variety, and not by the feeling that at some point of your journey you start to think, “This must be over sometime soon—it has to be over.” Distance is something subjective, not objective, and “a lot” or “a little” depends on what you are used to. But for hours the lunar landscape that we soon encountered never changed. The first several miles had an interesting taste. The possibility of turning around and going back was there, and it somehow reassured us. But soon minutes began to dilate, while the landscape remained immutable, fixed in front, around, and behind us. What was happening? The road never posed a challenge since, as clearly shown on the map, it had no bends or variations. Our desire to reach the other side became unreasonably pressing too soon, so that our crossing grew first slightly uncomfortable, and then truly difficult. During the early part of the crossing, our sense of place, of speed, of the space around us was very unfamiliar. Later, as more and more miles accumulated, it slowly became part of us. At some point we knew that we were close to or had just passed the halfway mark, so there was no sense in turning back. Instead of pushing ourselves to continue, we were now pulled by the end of the road ahead of us. Weight was replaced by lightness.

All around us was landscape, dusty and salty sand. Our shadows were getting longer and longer. Traveling by motorcycle means that between you and the surroundings there is nothing. You are the surroundings. We melted into the scene. Stefano’s bike, in front of me, was a fixed point of reference, not moving but standing completely still, with that weird waterlike mirror effect caused by the heat rising from the road.

As we neared the other side, the end of the crossing pulled us harder and harder. We wanted to go faster, but, at the same time, we began to wish the journey could last. We began to miss that state of suspended time even before it ended. By the time we reached the other side the daylight was almost gone. In the west, the mountains that surrounded the dried lake were dark blue against the sunset, while the mountains opposite the sinking sun were fiery red.

There is no such thing as a simple ninety-mile-long straight road. It is complex; it has a different flavor for every mile you go; it pushes you, it pulls you, it hypnotizes you, or it repels you.

The only way to stick to my apparently objective plan (“just draw all the buildings that look upon the park”) is to be totally subjective. The perspectives change every few blocks; they move as we move along the perimeter of the park. The only way that two of these perspectives can be connected is by coming up with a little lie: I have to show two opposite sides of two adjacent buildings that one would never be able to see at the same time. Also, every building has a preferred side, a better viewpoint to be seen and understood (in this, buildings are very similar to people).

The series of lies needed to adjust the perspective and its viewpoints works as a mortar for the pieces of the drawing. It keeps them together; it makes them one whole thing.

I am approaching Fifty-ninth Street. So far the viewpoint has traveled along Fifth Avenue, parallel to the façade of buildings that face the park. It has stopped every so often to allow the perspective to be centered on some of the streets, but it has proceeded fairly smoothly. Now, as I get closer to the southeast corner of the park, the viewpoint has to decelerate, then come to a stop and rotate at the same time, to ultimately face Central Park South. If I were to take the four sides of the park and then simply join them, I would ignore the city that I see when looking straight at the corner, and the density directly southeast and southwest of the park would be completely lost.

Once the viewpoint completes its rotation and faces Central Park South, it can progress westbound, toward Columbus Circle.

The buildings on Central Park South, and the buildings behind them, all seem to want to jump into the drawing. It is difficult to decide which ones to draw and which ones to leave out. Because they call out, they wave at me from way back, “Hey! What about me? You don’t want to put me in the drawing? Are you serious?” They are all over the place.

Creating a perspective for this stretch is harder, much harder, than I imagined. The span of Central Park South is not very long, so it doesn’t make sense to keep changing the viewpoint. Doing that would also create too many empty spaces (the vacuums produced by the juncture of two viewpoints), and the impression made by the incredible mass of buildings would be lost. So the one and only viewpoint is placed in the center, between Sixth and Seventh avenues. From there, I will first look east and then west to create a single view of the three long Central Park South blocks.

Architecture doesn’t stand still but moves. Architecture is not something that needs to be looked at in order to be perceived. It is dimly perceived by our senses all the time. When we go about our daily occupations, architecture moves all around us; buildings dance and rotate and bend and blend into one another. We perceive their size and their various sides in motion. We absorb all of this unconsciously, completely unaware that we are the ones standing still in a world of moving masses.

When we look at architecture intentionally, then it stands still. We look at the details, at proportions, colors, and patterns, and we reconstruct all of that in our brain because “we want to understand.” We transform a sensory experience into an intellectual one.

Buildings talk to us. They talk about emotions and memories. They tell us something of the time in which they were designed and built, of the materials that were used, and the choice of details, or absence of details. In New York almost every building we pass speaks its own language. And in the park, from the park, this relationship—the dialogue between our senses and the thousand languages of the city—is surprisingly clear. It is clear because we are just distant enough to hear all those voices blend into a single one.

After the loudness of Central Park South, it is not easy to go back to a more balanced and quiet rhythm. The buildings along Central Park West breathe more; they have plenty of air and room around them. The two-towered buildings (the Century, the Majestic, the San Remo, The Eldorado) are spaced from one another and dominate the skyline. Many Art Deco buildings start calmly until they reach the fourteenth or fifteenth floor, and then (like the one at the corner of Sixty-sixth Street) they explode in a display of details and decorations; they become suddenly oversculpted castles of sand. The Majestic, with its vertical moldings, appears to be springing directly from the bedrock. Others (like the Dakota or The St. Urban) seem to come from other cities and other eras. These buildings don’t give the impression of being pushed by a heavy mass behind their backs. They don’t need to fight in order to be seen, or to enjoy the view; they just stand there, proudly, in front of the park.

The city is to the park what a tornado is to its eye: there is no wind, no energy in the eye of a tornado, only around it. The centrifugal energy of the storm opens its center, the silence feels unreal, the sky is clear, the city stays out.

The grid system is a most welcoming mechanism. When I moved to New York, it took me one day to learn how and how long it would take me to go anywhere. (Except downtown, of course, which made me feel at home in another way because of its narrow and bending streets.) The grid system lets you grasp the whole of Manhattan instantaneously. It allows you to locate point A and point B, then to connect them and estimate the distance, the time, and the physical effort to get from one to the other. The comprehension of a European city, instead, relies upon the knowledge of itineraries. Knowing the location of point A and point B is often not enough to visualize and estimate the actual transfer. You need to know a certain number of set itineraries that connect different areas of the city, so that within those areas you can search for the specific points.

A few weeks just spent in Italy, going back to very familiar smells and views of ancient cities, and to time heavily accumulated on stones, walls, and buildings. A few weeks spent in Ascoli Piceno, my family’s hometown, where the city’s center is an old, dense agglomerate of buildings from Roman, medieval, and Renaissance times, which protect a beautiful piazza, an open space completely clad with the same travertine that every other building is made of. That piazza, called Piazza del Popolo, opens up in front of you while you walk, all of a sudden, and offers you an empty rectangular space, paved and surrounded by porticoes, by the medieval municipal building (Palazzo del Popolo), and by the side (not the front!) of the main basilica (San Francesco). It is spectacular and reassuring at the same time. In Ascoli, my thoughts quickly returned to Manhattan, and to its treasured opening, Central Park, where the paving is grass and the columns around it are trees and magnificent buildings, all different from one another, paced by the streets’ grid rhythm. They vary in height, material, weight, and character, but they all face the park, as if they were respectfully looking at the city’s main piazza.

It seems that all of us who come to New York from somewhere else want to know it, and know it in our own particular way. We want to discover things that nobody has discovered before, or that were somehow overlooked. And we want to understand why it’s so beautiful, and powerful, and where its energy comes from. We (who came from elsewhere) seem to take a while before we adjust to the fact that a place in evolution rarely allows itself to be explained. It simply needs your life—your own energy—that then becomes part of the “energy of the city.”

The city’s complexity and richness are the signs of its continuous transformation: neighborhoods that move around and that change in a matter of a few years, buildings that are replaced and rebuilt constantly, with new ones coming up at every corner. It requires energy to keep up with the change. Forget about understanding why.

It’s early fall. I am in the park. The sun has just gone beyond the horizon, in New Jersey, and its brightness is fading, little by little. During this ephemeral moment, my affection for the city is strongest. It’s during this transition that the city appears humane and vulnerable. The birds in the park are almost completely quiet; the windows of the buildings facing west (along Fifth Avenue) turn bright and shiny in the last seconds of natural light. The lights inside the buildings go on gradually, but you can’t tell if what you see is coming from artificial light or reflections, since the reflections, in this very instant, appear as bright as the lights inside. It’s as if the last sparks of natural light get trapped inside the buildings.

I turn toward the other side (Central Park West) and look at the buildings that face east: the sun behind them is gone, and all the colors of the sunset paint the contrast of their silhouette. The buildings seem engraved against the sky, completely volume-less . At the same time the interior lights are turned on, gradually, sparsely and randomly, but they don’t look as brilliant, because of the glaring effect of the background. These lights restore depth to the buildings.

A fresh wind rises from the park, and that fresh wind seems to be the breathing of all the volumes reacting to the approaching darkness by expanding and contracting.

The radio warned us this morning that the snowstorm that is about to hit New York today is a very big one: it will cover one third of the United States. Its size is unusual for early December. A phenomenon of this kind usually occurs later, in January or February.

I was in the park earlier this morning enjoying the sight of the falling snow and listening to the sound—tic, tic, tic—that it makes when it hits the few remaining, hardened leaves. In the middle of the North Meadow, along its northern edge, I spot a guy walking in the bushes. After seeing me, he rushes out and asks me in a heavy accent (I think from either Australia or New Zealand, I am not sure): “Where is south?” To such a plain and simple question, I reply by sticking my arm out in the right direction, toward the stretch of Central Park South, slightly tilted toward the Plaza hotel. The guy thanks me and starts to walk, but after a couple of steps he stops and asks me (and this time the accent is so heavy that I have to ask him, with my accented English, to repeat what he has just said): “How do you get out of here? I mean, do you have to know every path of this place or is there another way?” I couldn’t believe that he was putting his finger on one of the things I had been pondering for the last months. I was ready to have a long philosophical discussion on the idea of actually being out of the city, instead of “trapped inside” as he had implied. His question clarified the paradox of how the park relates to the city: he had expected to enter a very famous park, whereas on the contrary he found himself outside of the city, and lost, as in a fairy tale. Especially today, when the only thing that could be seen of Manhattan was a vague gray outline of buildings against a milky-white sky and ground, all the same color. I liked that he was asking me how to “get out” of there when in reality he was hoping, clearly anxiously, to get “back into” the city. Instead of boring him with all of this, I simply told him that, yes, one way is to learn all the paths, but that the other way, easier in my opinion, is to always use the buildings around the park as a reference for your position.

That scientific aspect that I wanted so much to avoid—well, I really avoided it. The tree line has gradually wandered toward the bottom of the paper, a fact that I notice only now that I have come to draw the second of the two towers that stand at the corner of Central Park West and Central Park North. I drew the one on the north side of the street at the very beginning of the drawing, and now I have to draw the one on the south side at the end. I wanted to make sure that this last building is placed on the paper at the same elevation. I unrolled the drawing to the beginning and took a piece of sketch paper to trace the first foot of the drawing. Then I rolled back the entire drawing to the end and overlapped it onto the sketch. Well, they don’t match. The end of the drawing is considerably lower than the beginning. I don’t have much room to fix it (five or six blocks), but luckily up here in the park there is the Great Hill. The Great Hill is quite high and obstructs most of the view of the lower town houses along Central Park West and 107th, 108th, and 109th streets. Using the hill, I can elevate the green base and place the last building, “Towers on the Park” (South), more or less where it should be, facing its twin brother across the street. 

I am a few inches away; the end of the drawing has arrived. I have looked forward to this for so long, but now I don’t really want to see it end. I can smell the wood of the right spool. On my left there is a thick roll of paper. It looks older now. It’s filled with colors, lines, details of all the buildings I have drawn.   

In order to draw the last corner, Central Park West and Central Park North, I need to use the very first pictures taken a year ago. I am looking at the same corner 32 feet, at least 620 buildings, and more than 35,800 windows later. As I unroll the drawing, buildings pass by. I see the many sessions that are now one, the seamless seams. I recall the many choices, such as which face of a building to show, how to turn a corner, or where to place a perspective. The end has brought me back to the beginning, but this last seam—the seam of time—will not be invisible. This corner is not the same place to me anymore.

 

March 1, 2002 – February 24, 2003