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La Stampa Torino, 28 settembre 2017

di Ilaria Dotta

Elena Ferrante, L’amica geniale

“Costruire una storia è come costruire una casa. Uno spazio in cui si può entrare e rientrare più volte, per scoprirlo sempre differente. A cambiare è lo sguardo, la percezione mutevole di chi prende in mano il libro e, dopo un’occhiata veloce alla copertina, si tuffa tra le righe della prima pagina. È come spalancare una porta, accettando di addentrarsi nella struttura costruita, più o meno consciamente, dallo scrittore. Di immergersi nello spazio letterario edificato da qualcun altro. Ma che forma hanno un romanzo di Calvino oppure di Dostoevskij? Una semplice capanna o magari un castello dalle linee sinuose illuminato da mille finestre, o ancora un labirinto dai muri spessi e senza il tetto. Trasformare in palazzi le grandi opere della letteratura è ciò che fa Matteo Pericoli […]”


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https://www.lastampa.it/torino/appuntamenti/2017/09/28/news/matteo-pericoli-l-architetto-letterario-1.34427945

“Gli anni” di Annie Ernaux

Le “strutture architettoniche” del testo rivelano cose che non sapevamo di sapere

di Matteo Pericoli

 

Vi è mai capitato, leggendo un libro, di avere l’impressione di trovarvi all’interno di una struttura costruita, consciamente o inconsciamente, dallo scrittore? Con ciò non intendo il naturale processo di visualizzazione delle ambientazioni descritte nel testo, ma la netta sensazione di sentirsi immersi in uno spazio, uno spazio letterario, costruito da qualcun altro.

Nel descrivere testi letterari si usano spesso metafore architettoniche, a partire dall’architettura del romanzo. Parlare di «costruzione di un testo» rende bene l’idea del laborioso atto di concatenare una parola all’altra. Un grande architetto è capace di farci muovere nello spazio con fluidità o con circospezione; ci fa rallentare per assorbire tutti i dettagli; ci può sorprendere o rassicurare. Un grande scrittore fa lo stesso.

Sono sei anni che con i partecipanti del Laboratorio di Architettura Letteraria cerchiamo di andare a scovare le strutture letterarie dei testi che analizziamo e di costruirne dei plastici architettonici, tangibili, fatti di cartone e colla. Usando lo spazio invece delle parole, cerchiamo di capire insieme come funziona, e di cosa è fatta (se così si può dire), l’architettura di un romanzo o di un racconto, di un saggio o di un qualsiasi tipo di testo letterario. Come in un progetto architettonico – dove si ha a che fare con idee spaziali da articolare, concatenare e trasmettere; strutture di sostegno; sequenze di volumi; sospensioni e sorprese – le questioni in un testo narrativo sembrano simili: come collegare diversi piani narrativi? Come esprimere tensione? Come organizzare la cronologia? Come collegare personaggi o creare un vuoto?

Al laboratorio partiamo dal testo e lavoriamo a ritroso: rimossa la materia di un edificio (muri, divisori, coperture, vetrate, ecc.), quel che resta è puro spazio. E tolte le parole da un romanzo, cosa resta? Cerchiamo un’idea compositiva che sia alla base della forma «costruita», architettonica o letteraria.

Le intuizioni strutturali, ma anche le emozioni e le sensazioni che prova ciascun partecipante durante la lettura, vengono ripensate e tradotte in termini di spazio, proporzioni, luce, ombra, pieni e vuoti. Siamo tutti esperti di architettura, nel senso letterale di esperire lo spazio. Infatti, durante il Laboratorio, anche chi non ha mai pensato o progettato in termini architettonici si trova a produrre idee fatte di spazio compositivo. Scopriamo che usando lo spazio invece delle parole riusciamo a penetrare un testo in modo più profondo. È come se, immersi nel romanzo che stiamo leggendo, potessimo alzare lo sguardo dal libro e vedere la sua architettura che, come per magia, si è andata via via creando attorno a noi; e scoprire che, come mi ha detto una studentessa-scrittrice davanti al suo plastico finito, «so delle cose su questa storia che non sapevo di sapere».

Pezzo pubblicato in occasione della prima uscita della rubrica “Architetture letterarie” su La Stampa (poi proseguita su Pagina99).
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La Stampa, Società & Cultura, 7 novembre 2014

Raccolti in volume gli scorci che cinquanta autori vedono dal loro studio

di Mario Baudino

La finestra di Orhan Pamuk a Istanbul

 

Che cosa vediamo dalla nostra finestra? La risposta di Matteo Pericoli è che spesso vediamo noi stessi. La finestra può essere uno specchio, che soltanto in certe occasioni, magari quando stiamo abbandonandola per sempre, rivela tutta la sua meraviglia, che nella quotidianità ci era sfuggita. Non basta guardarla. Bisogna capirla. Magari con un piccolo aiuto esterno. Pericoli ha disegnato inseguendo il filo di questa convinzione molte finestre di scrittori, cominciando per il New York Times e proseguendo con la Paris Review.

Ha disegnato finestre americane e torinesi (per La Stampa), ha alternato il microcosmo del paesaggio psichico al macrocosmo dei suoi sterminati profili di città, rulli panottici che abbracciano ancora una volta New York, Torino, Londra trasformando col suo tratto continuo, preciso e sottile, la quotidianità in eccezionalità, mettendo a fuoco il senso profondo che vi si cela, la meraviglia, la sorpresa, il viaggio. Ora propone, in un libro appena uscito negli Stati Uniti da Penguin che sarà presentato domani a Torino, Windows of the World, 50 finestre di scrittori sparse per l’intero pianeta, da Città del Messico a Sidney, da Nadine Gordimer a Orhan Pamuk, da Etgar Keret a quella romana di Taiye Selasi.

Si aprono su giardini, piazze, fitti agglomerati urbani, tetti o cortili disadorni, mari e foreste; sono accompagnate da una pagina di commento di ciascun autore, e ci raccontano più che un paesaggio un’interazione. E’ stato un lungo lavoro, un giro del mondo, come dice Pericoli, «virtuale». Per farlo, si è affidato esclusivamente allo sguardo degli altri: ha lavorato, soprattutto da Torino, su una gran quantità di fotografie che gli venivano inviate e, spiega, «ho ricostruito le viste come se fossi lì».

La finestra di Nadine Gordimer a Johannesburg

La finestra è qualcosa di ineludibile, anche se fra i 50 non tutti ne erano convinti. Qualcuno, come Nadine Gordimer, ha chiesto di partecipare dopo l’inizio della serie sul New York Times. Nel commento alla propria finestra nega il principio che lo scrittore abbia bisogno di una «veduta», perché è immerso nelle storie (e quindi nelle vedute) delle persone e dei personaggi. La sua finestra, su una terrazza popolata di grandi piante in vaso dietro le quali l’orizzonte è chiuso d un basso fabbricato, è una conferma. L’israeliano Keret sembra dello stesso parere, perché quando scrive, dice, vede intorno a sé solo il paesaggio della sua storia. Lo fa dunque nel posto più scomodo del suo appartamento di Tel Aviv, «un posto che risulta sopportabile solo a una persona molto impegnata a scrivere». La finestra guarda su una sorta di veranda, piena di cose anzi di «felice disordine». Proprio come le sue storie, aggiunge. Pamuk invece ha uno strepitoso affaccio sul Bosforo. Lo distrae? Neanche per sogno, anzi una parte di lui «è sempre impegnata con una parte del paesaggio» e con il suo instancabile movimento. Non c’è scrittore senza finestra, sia che l’accetti sia che la rifiuti.

In realtà, questa la convinzione di Matteo Pericoli, non c’è essere umano senza finestra, anche quando non lo sa. Ha ideato così, per stamattina, un laboratorio destinato ai bambini di terza elementare. Farà disegnare le finestre di casa loro, perché, spiega, «sono gli osservatori passivi di paesaggi che non hanno scelto ma in cui si sono trovati: un punto di vista ideale per raccontare la città». Ma il percorso tra mondo e città ha ancora una tappa, per l’anno prossimo, cui Pericoli sta lavorando col Comune di Torino: una mostra con gli oltre 70 metri di «skylines» disegnati finora e centinaia di disegni, finestre torinesi, finestre di tutti i Paesi. Per far rimbalzare «nella città che mi ha accolto», una domanda sempre più urgente: «con quanto poco si può dire il massimo?»