Architetto, disegnatore e autore, nel 2010 Matteo Pericoli ha avviato un Laboratorio di architettura letteraria che invita i partecipanti a trasformare in architetture racconti e romanzi. Non si tratta di immaginare o dare forma ai luoghi e agli ambienti che la scrittura racconta, bensì di comprendere la struttura stessa del racconto e tradurla in un edificio. Un’operazione di meta-letteratura nella quale la costruzione narrativa dell’autore nelle mani del lettore acquista concretezza in forma di disegni o di modelli. Il libro stesso, che contiene dodici esempi riferiti ad altrettanti romanzi, come Cuore di Tenebra (Conrad), L’avversario (Carrère) o Gli anni di Annie Enraux, elaborati da Pericoli stesso, si presenta come una struttura architettonica, nello specifico un museo nel senso greco del termine di luogo sacro alle Muse, ideale per l’ispirazione e la contemplazione. Le architetture che nascono dal Laboratorio sono per forza di cose soggettive. Ad esempio, davanti al racconto di Amy Hempel Il raccolto, che narra per due volte un incidente stradale del quale la scrittrice stessa è vittima – ma la seconda inizia con le parole spiazzanti “ometto molte cose quando dico la verità” – due gruppi partecipanti al Laboratorio immaginano costruzioni differenti, anche se entrambe dall’aspetto ingannevole come il racconto, con spazi inaspettati, colonne che non reggono alcunché e elementi di arredo – di cemento – che sono invece le vere strutture dell’edificio. Per molti versi sorprendente, Il grande museo vivente dell’immaginazione fa nascere la voglia di provarci da soli, con un racconto amato, carta da disegno, matite colorate, cartoncino, colla e forbici.
Il grande museo vivente dell’immaginazione Matteo Pericoli Il Saggiatore, Milano, 2022 166 pp, 25 euro ISBN 978-88-428-3218-8
“E se questi spazi, che qui chiameremo «architetture letterarie», fossero delle strutture narrative trasformate in strutture architettoniche? Perché allora non prendere, letteralmente, l’architettura di una storia e trasformarla in un edificio?” (M. Pericoli, Il grande museo vivente dell’immaginazione. Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria, Milano, Il Saggiatore, 2022, p. 16)
Sulla soglia
Entrando nel Grande Museo vivente dell’immaginazione avvertiamo la netta impressione che qualcuno ci prenda per mano e ci conduca lungo un percorso con piglio sicuro, ma capace – al contempo – di rispettare i nostri tempi (il nostro passo), di lasciarci muovere liberamente senza, però, perderci mai di vista. La voce che ci guida è quella di Matteo Pericoli, architetto, disegnatore ed autore che riesce, in questo libro-museo, a coltivare una fertile terra di mezzo, quella dell’Architettura letteraria, dimensione non riconducibile ad una nuova forma di architettura o di letteratura. Il libro, infatti, è germogliato dell’esperienza più che decennale del Laboratorio di Architettura letteraria (Il laboratorio di architettura letteraria (lablitarch.com), un’esperienza di vero e proprio dissodamento di un territorio ancora inesplorato. Scorrendo la prima pagina avvertiamo uno strappo, diventiamo immediatamente lettori che, leggendo, diventano visitatori di uno spazio, immersi in una costruzione “che ha un suo funzionamento e una sua struttura”. Gioco nel gioco, Matteo Pericoli ci conduce a vivere quindi una duplice esperienza: quella di lettori/visitatori che esplorano uno spazio che ospita l’Architettura letteraria e, simultaneamente, quella di chi può sperimentare in prima persona quel che accade quando – grazie alle parole (scritte, ma, soprattutto, lette) – prende forma una struttura architettonica ispirata ad un romanzo o ad un racconto.
La borsa degli attrezzi
Entrando nel libro-edificio possiamo esplorare gli ambienti che compongono un itinerario che gradualmente introduce il lettore/visitatore all’Architettura letteraria. Tra l’ingresso del Museo e l’uscita si dipana una successione di spazi che conduce il lettore attraverso ambienti progressivamente illuminati e illuminanti: se nella prima sezione del testo (Piano Terra e Primo Piano) l’Autore presenta gli elementi teorico-strutturali dell’Architettura letteraria, nella seconda sezione (Secondo Piano), invece, trova spazio un’ampia selezione di architetture letterarie ispirate a romanzi noti o meno noti (ogni architettura viene accompagnata da un breve testo che introduce sia il romanzo in questione che il particolare sguardo interpretativo che ha dato vita proprio a quella architettura). Abbiamo a che fare, dunque, con un libro che fornisce sia la borsa degli attrezzi da utilizzare che, in seguito, alcuni esempi che il lettore potrà leggere/guardare per approssimarsi alla terra di mezzo dell’architettura letteraria.
La dimensione teorica dell’esperimento viene presentata facendo leva sulla pregressa (e attuale) esperienza del lettore che è costantemente sollecitato ad interrogarsi sull’atto della lettura, sulle sue potenzialità, su quanto può accadere a chiunque legga un racconto o un romanzo non solo visualizzando quanto legge, ma avvertendo di situarsi in uno spazio (letterario) che potrà essere tradotto in strutture formali proprio perché costituito esso stesso da elementi architettonici; Matteo Pericoli, infatti, sostiene che l’architettura letteraria nasca quando sfumano i confini disciplinari e si comincia a percepire l’architettura come narrazione spaziale e, contemporaneamente, il testo letterario come costruzione di uno spazio:
[…] questi pensieri ci capitano quando meno ce lo aspettiamo e soprattutto quando permettiamo alla mente di muoversi libera e in silenzio, senza dare nulla per scontato, senza pregiudizi o alcun particolare obiettivo da raggiungere, e soprattutto senza quella frammentazione di cui sopra… (p.27)
La frammentazione alla quale l’Autore si riferisce riguarda sia la gelosa rivendicazione dei confini disciplinari, sia la contemporanea scomposizione dell’esperienza della lettura in specifiche abilità che vanno a ridurre/depotenziare l’impatto rivoluzionario che la lettura di un testo può provocare nel lettore.
Matteo Pericoli fa leva, quindi, da un lato sulle caratteristiche del testo letterario, dall’altro sulla potenzialità creativa della lettura; l’incontro fecondo tra lettore e testo letterario può dunque aprire la possibilità dell’architettura letteraria come dimensione altra, come realtà mediana, costantemente sospesa tra la parola e l’immagine, una realtà che permette di insinuarsi “tra le parole scritte e sentire con tutto il corpo che dall’altra parte c’è una specie di universo parallelo, un immenso spazio, tutto vostro, dove le storie, le strutture delle storie, le architetture dei romanzi e delle poesie, non sono solo metafore o teorie astratte, ma vere e proprie costruzioni realizzate meticolosamente parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo”.(p. 85)
Il gioco è fatto
La seconda sezione del Libro-Museo – quella dedicata alle dodici architetture letterarie presentate nel grande Salone e scandita dal ritmo binario dato dalle brevi presentazioni dei romanzi e dalle immagini delle architetture letterarie sollecitate dalla lettura di quei testi – permette al lettore di sperimentare direttamente l’effetto straniante provocato alla traduzione di romanzi in forme che si articolano nello spazio: Ernaux, Faulkner, Fenoglio, Tanizaki sono solo alcuni degli scrittori convocati. Qui il lettore sperimenta quanto Matteo Pericoli sostiene fin dall’inizio del suo percorso, ossia che l’architettura è esperienza universale, che esula dal sapere specialistico perché tutti, da sempre, facciamo esperienza delle spazio, lo attraversiamo, lo viviamo, così come tutti – pur non essendo letterati, critici letterari, pur non governando una sapere specifico – siamo lettori che possono scoprire una nuova dimensione della lettura.
Un solo, breve, esempio che può permetterci di intuire alcune delle dinamiche sopra delineate: ci troviamo nel grande Salone e, passeggiando, ci imbattiamo all’improvviso nella struttura – una delle infinite possibilità – che corrisponde al Barone Rampante di Italo Calvino: “La ribellione non si misura a metri. Anche quando pare di poche spanne, un viaggio può restare senza ritorno”; qualcuno ricorderà la celebre replica del Barone di Rondò al figlio Cosimo. Il Rampante, però, mette in atto la sua ribellione (“E io non scenderò più!”) e pone una distanza – poche spanne, ma sono un’intercapedine incolmabile – che sembra essere il cuore pulsante della vicenda.
Così Matteo Pericoli presenta l’architettura ispirata al Barone:
Laddove la base dell’intero edificio è fatta di muro spesso e portante, il suo sviluppo in altezza si trasforma in vuoto: un’intercapedine che separa due blocchi identici, fatti di vetro e pietra, che si compenetrano senza toccarsi. (…). Visto dall’alto, da una mongolfiera, l’edificio è compatto ed esatto. L’intercapedine, da quassù ben evidente, è lineare solo nella sua parte centrale, mentre agli estremi sembra procedere per tentativi, non certa della direzione da prendere.” (p.97)
Che il lettore sia un fedele amico del Barone o che disgraziatamente non lo abbia ancora incontrato, l’architettura letteraria che si troverà davanti riuscirà a rendere tangibile uno degli aspetti strutturali del romanzo di Italo Calvino e, allora, risulterà difficile resistere al desiderio di rituffarsi nel mondo frondoso di Cosimo o di correre a scoprirlo per la prima volta.
N.B. Si ringrazia Matteo Pericoli per aver concesso e autorizzato l’uso delle immagini del suo libro.
https://matteopericoli.com/wp-content/uploads/2025/02/laletteraturaenoi.png2161028Matteo Pericolihttp://matteopericoli.com/wp-content/uploads/2017/12/Matteo-Pericoli-70-300x138.pngMatteo Pericoli2024-05-21 10:28:002025-02-21 10:36:13Un Libro-Edificio: il Museo di Architettura Letteraria
Il grande museo vivente dell’immaginazione scritto da Matteo Pericoli ci accompagna nell’esplorazione delle architetture letterarie
di Mario Gerosa
Ogni architettura conserva in sé una storia, racconta qualcosa che sfugge all’evidente idea di funzionalità. Certo, ogni casa, edificio, palazzo o castello prima di tutto assolve alle esigenze abitative di chi ci deve vivere, e nella maggior parte dei casi risponde anche a precisi canoni tipologici. Infine rimanda alle proporzioni legate alle dimensioni dell’uomo, normate dal disegno dell’uomo leonardesco come dal Modulor di Le Corbusier.
Ma ci sono anche architetture immateriali che compongono un poliedrico universo a parte, e c’è anche una voce interiore dell’architettura, sia essa letteraria o costruita in calce e mattoni, che rimanda a una narrazione, spesso sviluppata sulla base delle sedimentazioni e delle stratificazioni delle emozioni provate dai visitatori che vi si sono succeduti.
Ha fatto emergere tutti questi concetti Matteo Pericoli, architetto e disegnatore, che nel 2010 ha fondato il Laboratorio di architettura letteraria (www.lablitarch.com), “un’esplorazione multidisciplinare della narrativa e dello spazio”, un punto di riferimento importante e autorevole per gli studi in quest’ambito presentato in numerose conferenze e workshop in tutto il mondo.
Pericoli ha sistematizzato tutta una serie di pensieri e ragionamenti legati a una visione trasversale dell’arte del costruire ne Il grande museo vivente dell’immaginazione (Il Saggiatore).
Il libro è strutturato come una visita guidata all’interno di una macro-architettura composta da molte costruzioni, a definire un ideale gigantesco complesso. Come se ci trovasse in uno spazio fisico, la trattazione procede attraverso una serie di ambienti in cui il lettore può sentirsi a proprio agio, riconoscendo una sequenza familiare: il museo di architettura letteraria concepito sulla carta da Pericoli comprende tre piani, con un ingresso, cinque sale, un salone e un cortile. Nei primi due piani il ragionamento sugli spazi prende in esame molte architetture del mondo reale, dal Pantheon al Guggenheim Museum, dal Partenone a Villa Savoye, intrecciando e intersecando considerazioni legate anche ad esempi dell’architettura letteraria. Da un confronto che si fa sempre più serrato e avvincente, emergono assonanze e affinità tra l’architettura scritta e quella costruita.
Un passo verso l’oltre
In un altro capitolo, quello del Secondo piano, ci si sposta nel territorio delle architetture letterarie, con singoli esempi dedicati alle invenzioni architettoniche di dodici grandi autori, da Calvino a Dürrenmatt, passando per Vonnegut. Più ci si addentra nella lettura, più sfumano i confini tra i due tipi di architetture, quella costruita, che per comodità, con un termine improprio, si può chiamare “architettura vera” e l’altra, quella letteraria.
“L’“architettura vera” è una curiosa espressione, nota Pericoli. “Come se ce ne fosse una “non vera”, e quindi “falsa”? “finta”? “non reale”? “intangibile”?. In fondo l’architettura sta alla costruzione come la scrittura sta alla dattilografia, o all’atto dello scrivere. L’architetto non “serve” per costruire (lo possono e lo fanno in tanti), come lo scrittore o la scrittrice non “servono” per il comporre frasi, parole, testi. C’è quindi forse l’idea —, molto condivisa e forse anche legittima — che da un lato ci sia l’“architettura letteraria”, immateriale, intangibile, forse solo il risultato di un impegno mentale o intellettuale, e dall’altro c’è l’“architettura vera”, ovvero quella costruita, tangibile, ferma, fissa, oggettiva. E che le due cose siano divise, separate. Ecco, io credo invece fortemente che, una volta che ci si abbandona all’idea che una storia è come una casa, una casa da esplorare, da abitare, dalle cui finestre vedere un mondo cambiato, che cambia, come cambiamo noi, ad ogni nuova visita e che quindi è un qualcosa di “reale”, quanto è reale il nostro esperire l’architettura, lo spazio, il movimento, le proporzioni, i cambi di livello, le salite, le discese, le aperture, il buio, la chiarezza, e così via, allora siamo pronti a leggere come la narrazione impregni tutto, sia dappertutto, e sia parte fondante dello spazio architettonico che noi leggiamo e percepiamo quotidianamente, esattamente come immagazziniamo nella mente il funzionamento di una storia o di un testo letterario in generale. Qui dobbiamo fare attenzione al fraintendimento principale: non come percepiamo e leggiamo, e quindi immaginiamo, ciò che una storia ci descrive (i suoi ambienti, i luoghi, i paesaggi, i suoi personaggi, come sono vestiti, ecc.), ma come impariamo a muoverci all’interno di quella costruzione che è il prodotto di come la storia è stata costruita (secondo noi e le nostre inclinazioni) — quindi i suoi materiali, la sua sintassi, la sua voce, la grammatica, il contesto culturale, i riferimenti su cui poggia, e così via. L’architettura letteraria ci può dare quel senso di fiducia nello scoprire con disinvoltura, e magari piacere, il racconto degli spazi architettonici, come si concatenano, come si rivelano a noi — a noi in relazione alla nostra inclinazione e alla nostra lettura — e non (o non solo) la storia di come sono venute a esistere le architetture”.
Tutti questi concetti emergono nel libro, pensato come un’avvincente promenade architetturale tra diversi tipi di costruzioni. Ma quali sono le architetture letterarie che hanno colpito maggiormente l’immaginario di Matteo Pericoli?
“Ho visitato un numero enorme di architetture letterarie, edifici costruiti sia dopo aver letto io i testi, e averli quindi “progettati” nella mia mente, sia dopo le letture e progettazioni fatte da altri. Quelle che mi hanno colpito di più sono forse quelle che nascondono delle intuizioni e idee la cui forma non poteva che essere espressa in quel modo, cioè attraverso l’architettura, e non con l’uso delle parole. La bellezza di questo approccio, metodo, o visione che dir si voglia (del Laboratorio di architettura letteraria), è che una volta che ci si trova dall’“altra parte”, la parte al di là delle parole, nel luogo in cui il testo è una serie di forme e spazi architettonici, quindi privo di parole, da manipolare ed esplorare con libertà e disinvoltura, si ha accesso a quello stadio, che di solito non dura che un istante, nel quale le nostre idee hanno una forma prima di avere un contenuto.
Mi viene in mente un progetto di un gruppo di studenti liceali. Stavano lavorando al racconto di Ernest Hemingway Colline come elefanti bianchi e per loro l’elemento cruciale, il fulcro attorno al quale si arrovellavano la storia, il testo, i protagonisti e la loro lettura era il peso della decisione se lei farà o non farà un intervento, una “piccola operazione”, di cui i due protagonisti discutono con fervore senza descriverne i dettagli. L’architettura di questo gruppo di ragazz* è una piazza a un livello inferiore della città, dove siamo spinti a scendere (siamo attratti dal vuoto) e su cui grava, sospeso, un enorme cubo nero, il peso della decisione, a una quota e a una posizione tale che provoca un senso sia di disagio sia di curiosità. L’idea dei due protagonisti non è presente nel progetto, e già questo mi parve bello e forte. Ma la cosa che mi colpì di più, per chiarezza, forza, eleganza e sofisticatezza di pensiero, era che i tiranti che tengono quel cubo in sospensione, tiranti di lunghezze diverse l’una dall’altra per via della posizione decentrata e asimmetrica del volume rispetto al tutto, lavorano (letteralmente lavorano) in modo diverso, alcuni sono più tesi e sottoposti a maggior tensione, altri meno. Quelle diverse tensioni rappresentano i vari momenti di tensione nel dialogo tra i due protagonisti che decisamente non funziona”.
Nel libro appare evidente che nelle architetture letterarie c’è sempre uno spiccato senso del racconto. Viene spontaneo chiedersi se questa dimensione narrativa si ritrovi anche nelle architetture costruite.
“Come ogni storia che, dal momento in cui abbandona la penna o il tavolo di chi l’ha scritta e viene lasciata andare, deve necessariamente avere una sua struttura architettonica, così ogni architettura è necessariamente impregnata di narrazione. Che ciò accada in modo consapevole o inconsapevole è irrilevante. C’è chi scrive con una forte propensione verso la progettazione architettonica del testo che sta costruendo, e c’è chi scrive lasciandosi invece guidare dal proprio istinto o mosso da chissà quali altre “forze”. Ma, alla fine, il prodotto è una struttura che dovrà bene o male “stare in piedi” per essere letta. Ribaltando la situazione, gran parte delle decisioni che gli architetti prendono, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, sono assimilabili a quelle che deve prendere chi scrive: come concatenare in modo sensato gli spazi? Come rivelare lo spazio principale? Come utilizzare la chiarezza data dalla luce? Come creare sorprese o aspettative? Come rendere evidente o nascondere la struttura che sorregge il tutto? Come utilizzare, se si vuole, riferimenti linguistici legati al passato? (E a quale passato?). Che forma, e quindi voce, dare al tutto?”.
Resta ancora da capire in quali architetture costruite sia più rilevante la componente narrativa.
“In tutte”, afferma Pericoli. “In architettura, la “componente narrativa” è inestricabile da una qualsiasi decisione compositiva. Nel libro-museo, al Primo piano, nella Sala 3, dico: «le scelte che si fanno durante la composizione di strutture architettoniche sono qualitativamente molto simili a quelle che fa chi sta narrando una storia.»
E poi parte questo lungo elenco di (auto)domande e risposte:
«Per esempio: porre un ingresso di lato invece che al centro è una scelta narrativa, no? Sì, perché entrando nello “spazio narrativo” di lato lo percepiamo diversamente, cambia la prospettiva. Ma allora anche alzare o ingrandire una finestra è una scelta narrativa? Sì, perché in qualche modo modifichiamo il rapporto che esiste tra interno ed esterno, come anche la quantità di informazioni che possono essere “lette”. E far passare il visitatore da una stanza quadrata a una rettangolare è una scelta narrativa? Certo, perché chi cammina percepirà o un’espansione o una contrazione dello spazio (a seconda dell’orientamento del rettangolo). E decidere se arretrare o meno il fronte di un edificio rispetto alla strada dove si affaccia è una scelta narrativa? Be’, sì, perché è come se venisse esplicitata la relazione con cui quell’edificio (poi dipende da che edificio sia: una casa, una chiesa, una banca, un museo, un grattacielo) si pone nei confronti del contesto, come e quanto questa relazione la si vuole evidenziare. E la decisione se incorporare o meno un grande albero nella struttura di un edificio? È una scelta narrativa molto forte, racconta in modo chiaro quale si crede debba essere il rapporto tra manufatto e natura. E l’altezza di un muro che divide due ambienti comunicanti è una scelta narrativa? Sì, perché́ l’altezza avrà un effetto diretto su ciò che si potrà leggere o intravedere o immaginare dell’altro ambiente; in più, è un modo chiaro di dirci se si intende far percepire come concatenati o divisi i due ambienti. E l’arretrare un ingresso per far spazio a un portico? Lo si vede al piano terra nella Stanza 1 con il Pantheon; è come arretrare o posporre un inizio, una sorta di introduzione. E illuminare in modo soffuso e decidere se farlo con luce diretta o indiretta sono scelte narrative? La luce, altro materiale tra i tanti stratagemmi narrativi a disposizione di un architetto, proietta chiarezza o può illudere per eccesso o per difetto; è direttamente legata alla chiarezza espositiva. E la ripetizione di elementi strutturali pressoché uguali (come il mio ripetere “è una scelta narrativa”) in mezzo al progredire di una serie di volumi che variano è una scelta narrativa? Certo, se usata con cautela è una sorta di anafora architettonica.»
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