Italo Calvino
As cidades invisíveis com ilustrações de Matteo Pericoli Companhia Das Letras
Matteo Pericoli
Su Le città invisibili
Se si studia architettura, ma non solo, prima o poi si finisce per dover leggere Le città invisibili di Italo Calvino. Quando è capitato a me di leggerlo, ho provato un senso di liberazione – come quando, dopo ore passate al chiuso in un affollato ristorante, esci per strada e respiri. Ah, finalmente.
Finalmente architettura e città vive, libere da tendenze, mode e stili. Finalmente architettura che, sebbene «solo» narrata, trasmette l’idea che i luoghi fisici necessitano di una loro essenza narrativa.
Al senso di liberazione si è poi affiancata una sorta di tristezza. Perché – mi domandavo mentre cercavano di insegnarmela – sento invece la disciplina dell’architettura così distante? Così rigida e soprattutto così difficile da «capire»? C’è voluto parecchio tempo perché potessi iniziare a chiarirmi quel senso di liberazione che ha accompagnato la lettura de Le città invisibili.
Da sette anni insegno il Laboratorio di architettura letteraria, un workshop durante il quale con gli studenti cerchiamo di dare una forma architettonica alla struttura intrinseca di racconti, romanzi o poesie. Sono tutti testi letterari, senza nulla di esplicitamente «architettonico». Non rappresentiamo cioè i luoghi descritti nei testi, ma costruiamo plastici che rappresentano il funzionamento di una storia, le sensazioni che ci fa provare, il perché sta in piedi, e come.
Per gli studenti di architettura è un’opportunità per avvicinarsi alla narrazione. Quando i partecipanti sono non architetti (ma scrittori, letterati, liceali o semplici lettori), passato lo sgomento iniziale di fronte all’architettura-disciplina-solo-per-«esperti», quello che accade è che le loro intuizioni architettoniche sono sorprendentemente ricche e libere. Rivelano quanto siamo tutti abituati a percepire e comprendere il funzionamento di un romanzo e di quanto, allo stesso modo, siamo esperti (nel senso di experiri) «lettori» degli spazi che ci circondano.
Durante le presentazioni dei progetti ho risentito quella sensazione di immediatezza che non sentivo dai tempi della prima lettura de Le città invisibili. A un certo punto del processo creativo, la narrativa spaziale e quella letteraria possiedono una simile forma di pensiero, fatta non di mattoni o parole, ma di pure idee compositive.
Nei corsi di architettura, Le città invisibili viene soprattutto studiato in modo letterale, cioè in chiave architettonica. Non sarebbe bello se questo libro straordinario offrisse anche lo spunto per tuffarsi nella narrativa e scoprire come lo sforzo di costruire una storia assomigli a quello di progettare un edificio?
Alice Munro, premio Nobel per la letteratura, dice che una storia non è un percorso, è più come una casa. Una casa da esplorare che, a seconda della forma, delle proporzioni, delle stanze e delle finestre, altera il lettore/visitatore e ne altera il modo di vedere il mondo. E ogni volta ci sembrerà un po’ diversa. È un edificio, conclude, costruito per una sua propria necessità di essere.
Da sempre la scrittura è servita per descrivere ed analizzare l’architettura. Anche l’architettura può a sua volta servire come strumento analitico per addentrarsi nelle storie e scoprirne aspetti che con le sole parole potrebbero rimanere irraggiungibili.
Leggi l’articolo su La Stampa:
https://www.lastampa.it/cultura/2017/06/07/news/costruire-una-storia-come-una-casa-ecco-la-lezione-delle-span-class-corsivo-citta-invisibili-span-1.34608333