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Il nostro punto di contatto col mondo svuotato dal virus

di Matteo Pericoli

La Stampa, 10 maggio 2020

 

La mia prima finestra, New York, 2004

È tutto iniziato nel 2004 a New York quando, a pochi giorni dal trasloco, preso dallo sgomento di abbandonarla dopo setti anni passati con lei, silenziosa e trasparente, sempre al mio fianco decido di disegnarla in fretta e furia, per portarmela via, per non lasciarla indietro, per mantenere vivo quel rapporto così intenso. Mentre la disegno mi accorgo però che, sebbene l’avessi vista per anni, non l’avevo mai osservata a fondo. Noto, infatti, una moltitudine di dettagli che mi erano sfuggiti. Mi rendo conto che avevo dato per scontato la vista dalla mia finestra.

Da allora si potrebbe dire che disegno quasi solo finestre, cerco cioè di restituire in un disegno quello che altre persone vedono dalle loro finestre per poi “raccontarle”. Nella maggior parte dei casi disegno viste di luoghi che non ho avuto la fortuna di visitare e di persone che ho a malapena conosciuto.

È così che ho scoperto Torino quando ci trasferimmo qui dodici anni fa. È così che ho “viaggiato” per il mondo e disegnato finestre di scrittori e scrittrici che vivono in India, Giappone, Islanda, Nigeria o Argentina. È così che, da poco più di un anno, grazie un progetto per Amnesty International, sto imparando a vedere anche quello che vedono i rifugiati quando guardano fuori dalle loro nuove finestre.

In fondo, in tutti questi anni sono stato alla ricerca della conferma, o forse della spiegazione, di quel profondo legame che mi aveva spinto a disegnare la mia, di vista, nel 2004.

Poi, circa due mesi fa, succede l’inimmaginabile: improvvisamente, impreparati, impauriti e senza un attimo di preavviso ci troviamo tutti in casa ad attendere e a sperare. Di colpo lo sguardo dalle nostre finestre si trasforma. Questo strano “oggetto” che io avevo osservato, disegnato, ascoltato per 14 anni diventa la nostra principale inquadratura su un mondo svuotato: il nostro punto di contatto, di separazione, di protezione, e di speranza e unione.

Da questo semplice riquadro, in fondo null’altro che un buco nel muro che avevamo forse trascurato in passato, ora migliaia, milioni di sguardi si intrecciano l’uno con l’altro per ricostruire quella densa trama che era la vita precedente alla quarantena. Di slancio chiedo sulla mia pagina Facebook di approfittare di questo periodo bloccati dietro alle nostre finestre per provare a disegnarle e a raccontarle.

Ho ricevuto una moltitudine di lavori, e tra quelli che ho condiviso è venuto fuori quello che in tutti questi anni avevo sospettato, ovvero che le finestre offrono più livelli di lettura: collocando il nostro sguardo in un preciso punto della nostra vita, possiamo muoverci liberamente nello spazio e nel tempo; il confine tra passato e futuro sembra confondersi; come in uno specchio, la nostalgia e la speranza si riflettono verso di noi. Tutto sembra fondersi in un grande e illimitato potenziale narrativo del quale per anni avevo avuto solo il sentore.

In questa pagina potete vedere solo alcuni esempi tra gli intensi e commoventi lavori che ho ricevuto. Sono grato a tutti coloro che mi hanno mandato le loro finestre. D’ora in poi, ogni mio disegno di una qualsiasi vista da una qualsiasi finestra sarà arricchito da ciò che ho imparato e sentito in questo periodo. Guardare dalla finestre non sarà più come prima, e mi auguro che sia così per tutti.


La Stampa, 10 maggio 2020

Preface

An agglomeration of buildings is not sufficient to constitute a city. And it does not matter how big it is, nor what the architectural quality of the individual buildings or the urban organization of the whole is. What matters is how the agglomeration is perceived by those who live there, how it is told to those who visit it, and how those who visit it in turn will tell the outside world about it. Physical cities exist, of course, but they are cities only insofar as they are perceived. The agglomerations of buildings we call cities are living organisms that feed on perceptions and in return give back stories, emotions, and dreams.

Before coming to Turin, I lived for thirteen years in New York City. I absorbed it and tried to draw it all as one thing. I drew its profile as seen from the rivers surrounding it, then its profile from Central Park. Then, as I was about to move and with the boxes almost ready, I looked out of my window and realized that there was not one city, but millions, as many as the number of its inhabitants. And so I visited a multitude of windows to draw its views and find out how those who live there see the city. When I arrived, I did not know Turin at all. And perhaps I still don’t know it: not a day goes by that I don’t encounter a new glimpse, a corner or a building I have never seen. But after “a year at the window” I feel I have begun to discover it. Instead of approaching it from the outside and slowly trying to get to know it – as normally happens – I dove straight into its heart. I saw how it is perceived by those who live there; from its windows I heard the stories of those who live there and were born there, or those who, like me, came from elsewhere. From the windows I was able to notice time, you can see it in the architecture, and how in recent years it has changed this city.

To those I asked to show me their windows I said that this will be the tale of a Turin as seen from its openings, of the most intimate and truest of cities.

– Matteo Pericoli
May 2011