“E se questi spazi, che qui chiameremo «architetture letterarie», fossero delle strutture narrative trasformate in strutture architettoniche? Perché allora non prendere, letteralmente, l’architettura di una storia e trasformarla in un edificio?” (M. Pericoli, Il grande museo vivente dell’immaginazione. Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria, Milano, Il Saggiatore, 2022, p. 16)

Sulla soglia

Entrando nel Grande Museo vivente dell’immaginazione avvertiamo la netta impressione che qualcuno ci prenda per mano e ci conduca lungo un percorso con piglio sicuro, ma capace – al contempo – di rispettare i nostri tempi (il nostro passo), di lasciarci muovere liberamente senza, però, perderci mai di vista. La voce che ci guida è quella di Matteo Pericoli,  architetto, disegnatore ed autore che riesce, in questo libro-museo, a coltivare una fertile terra di mezzo, quella dell’Architettura letteraria, dimensione non riconducibile ad una nuova forma di architettura o di letteratura. Il libro, infatti, è germogliato dell’esperienza più che decennale del Laboratorio di Architettura letteraria (Il laboratorio di architettura letteraria (lablitarch.com), un’esperienza di vero e proprio dissodamento di un territorio ancora inesplorato. Scorrendo la prima pagina avvertiamo uno strappo, diventiamo immediatamente lettori che, leggendo, diventano visitatori di uno spazio, immersi in una costruzione “che ha un suo funzionamento e una sua struttura”. Gioco nel gioco, Matteo Pericoli ci conduce a vivere quindi una duplice esperienza: quella di lettori/visitatori che esplorano uno spazio che ospita l’Architettura letteraria e, simultaneamente, quella di chi può sperimentare in prima persona quel che accade quando – grazie alle parole (scritte, ma, soprattutto, lette) – prende forma una struttura architettonica ispirata ad un romanzo o ad un racconto.

La borsa degli attrezzi

Entrando nel libro-edificio possiamo esplorare gli ambienti che compongono un itinerario che gradualmente introduce il lettore/visitatore all’Architettura letteraria. Tra l’ingresso del Museo e l’uscita si dipana una successione di spazi che conduce il lettore attraverso ambienti progressivamente illuminati e illuminanti: se nella prima sezione del testo (Piano Terra e Primo Piano) l’Autore presenta gli elementi teorico-strutturali dell’Architettura letteraria, nella seconda sezione (Secondo Piano), invece, trova spazio un’ampia selezione di architetture letterarie ispirate a romanzi noti o meno noti (ogni architettura viene accompagnata da un breve testo che introduce sia il romanzo in questione che il particolare sguardo interpretativo che ha dato vita proprio a quella architettura). Abbiamo a che fare, dunque, con un libro che fornisce sia la borsa degli attrezzi da utilizzare che, in seguito, alcuni esempi che il lettore potrà leggere/guardare per approssimarsi alla terra di mezzo dell’architettura letteraria.

La dimensione teorica dell’esperimento viene presentata facendo leva sulla pregressa (e attuale) esperienza del lettore che è costantemente sollecitato ad interrogarsi sull’atto della lettura, sulle sue potenzialità, su quanto può accadere a chiunque legga un racconto o un romanzo non solo visualizzando quanto legge, ma avvertendo di situarsi in uno spazio (letterario) che potrà essere tradotto in strutture formali proprio perché costituito esso stesso da elementi architettonici; Matteo Pericoli, infatti,  sostiene che l’architettura letteraria nasca quando sfumano i confini disciplinari e si comincia a percepire l’architettura come narrazione spaziale e, contemporaneamente, il testo letterario come costruzione di uno spazio:

[…] questi pensieri ci capitano quando meno ce lo aspettiamo e soprattutto quando permettiamo alla mente di muoversi libera e in silenzio, senza dare nulla per scontato, senza pregiudizi o alcun particolare obiettivo da raggiungere, e soprattutto senza quella frammentazione di cui sopra… (p.27)

La frammentazione alla quale l’Autore si riferisce riguarda sia la gelosa rivendicazione dei confini disciplinari, sia la contemporanea scomposizione dell’esperienza della lettura in specifiche abilità che vanno a ridurre/depotenziare l’impatto rivoluzionario che la lettura di un testo può provocare nel lettore.

Matteo Pericoli fa leva, quindi, da un lato sulle caratteristiche del testo letterario, dall’altro sulla potenzialità creativa della lettura; l’incontro fecondo tra lettore e testo letterario può dunque aprire la possibilità dell’architettura letteraria come dimensione altra, come realtà mediana, costantemente sospesa tra la parola e l’immagine, una realtà che permette di insinuarsi “tra le parole scritte e sentire con tutto il corpo che dall’altra parte c’è una specie di universo parallelo, un immenso spazio, tutto vostro, dove le storie, le strutture delle storie, le architetture dei romanzi e delle poesie, non sono solo metafore o teorie astratte, ma vere e proprie costruzioni realizzate meticolosamente parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo”.(p. 85)

Il gioco è fatto

La seconda sezione del Libro-Museo – quella dedicata alle dodici architetture letterarie presentate nel grande Salone e scandita dal ritmo binario dato dalle brevi presentazioni dei romanzi e dalle immagini delle architetture letterarie sollecitate dalla lettura di quei testi – permette al lettore di sperimentare direttamente l’effetto straniante provocato alla traduzione di romanzi in forme che si articolano nello spazio: Ernaux, Faulkner, Fenoglio, Tanizaki sono solo alcuni degli scrittori convocati. Qui il lettore sperimenta quanto Matteo Pericoli sostiene fin dall’inizio del suo percorso, ossia che l’architettura è esperienza universale, che esula dal sapere specialistico perché tutti, da sempre, facciamo esperienza delle spazio, lo attraversiamo, lo viviamo, così come tutti – pur non essendo letterati, critici letterari, pur non governando una sapere specifico – siamo lettori che possono scoprire una nuova dimensione della lettura.

Un solo, breve, esempio che può permetterci di intuire alcune delle dinamiche sopra delineate: ci troviamo nel grande Salone e, passeggiando, ci imbattiamo all’improvviso nella struttura – una delle infinite possibilità – che corrisponde al Barone Rampante di Italo Calvino: “La ribellione non si misura a metri. Anche quando pare di poche spanne, un viaggio può restare senza ritorno”; qualcuno ricorderà la celebre replica del Barone di Rondò al figlio Cosimo. Il Rampante, però, mette in atto la sua ribellione (“E io non scenderò più!”) e pone una distanza – poche spanne, ma sono un’intercapedine incolmabile – che sembra essere il cuore pulsante della vicenda.

 Così Matteo Pericoli presenta l’architettura ispirata al Barone:

Laddove la base dell’intero edificio è fatta di muro spesso e portante, il suo sviluppo in altezza si trasforma in vuoto: un’intercapedine che separa due blocchi identici, fatti di vetro e pietra, che si compenetrano senza toccarsi. (…). Visto dall’alto, da una mongolfiera, l’edificio è compatto ed esatto. L’intercapedine, da quassù ben evidente, è lineare solo nella sua parte centrale, mentre agli estremi sembra procedere per tentativi, non certa della direzione da prendere.” (p.97)

Che il lettore sia un fedele amico del Barone o che disgraziatamente non lo abbia ancora incontrato, l’architettura letteraria che si troverà davanti riuscirà a rendere tangibile uno degli aspetti strutturali del romanzo di Italo Calvino e, allora, risulterà difficile resistere al desiderio di rituffarsi nel mondo frondoso di Cosimo o di correre a scoprirlo per la prima volta.

N.B. Si ringrazia Matteo Pericoli per aver concesso e autorizzato l’uso delle immagini del suo libro.

https://laletteraturaenoi.it/2024/05/24/un-libro-edificio-il-museo-di-architettura-letteraria/


Maggio 2024


di Matteo Pericoli

Ricordo ancora nitidamente la sensazione di smarrimento che provai quando, ormai vent’anni fa, mi trovai di fronte alla mia finestra sull’Upper West Side di Manhattan per quella che sarebbe stata una delle ultime volte nella mia vita. Avevo vissuto in quell’appartamento con mia moglie per sette anni ed era arrivato il momento di traslocare. Con gli scatoloni ormai pronti, ecco improvvisamente davanti a me un’altra ‘cosa’ che ci stavamo quasi dimenticando di portare via con noi: la finestra della nostra-camera-da-letto-mio-studio e, incollata ad essa, la vista di una serie di cortili, tetti, comignoli, torri dell’acqua e, in fondo, la punta di Riverside Church che mi avevano fatto compagnia per così tanto tempo.

Pensai di smontare la finestra dal muro e portare con noi sia lei sia la vista. Impossibile. Controllai attentamente per vedere se si potesse scollare dalla finestra un’ipotetica patina di plastica trasparente che avesse miracolosamente trattenuto le immagini sia dell’infisso sia della vista. Impossibile. Provai allora a fotografare il tutto, ma ciò che andavo cercando si rivelò molto più sfuggente di quanto pensassi: le foto sembravano infatti mostrare o il serramento o il paesaggio urbano al di là della finestra e non entrambi. Il problema poteva essere la mia macchina fotografica, oppure la mia mano, oppure più semplicemente la mia inesperienza con la fotografia.

Decisi così di prendere un grosso rotolo di carta da pacchi e disegnarci sopra, in fretta e furia, la finestra quasi in scala 1:1. Fu così che, con mia enorme sorpresa, notai la grande quantità di dettagli che mi erano sfuggiti. «Ma come è possibile?» mi domandai, «questo è il paesaggio urbano di Manhattan che mi è più familiare di ogni altro. Sono stato seduto di fianco a questa finestra per sette anni, mi sono voltato per guardare fuori un numero smisurato di ore e solo adesso noto tutti questi dettagli.» Decisi allora di esplorare più a fondo, usando il disegno, lo strano rapporto di interdipendenza che abbiamo con questo oggetto-non-oggetto architettonico. Spesso si tratta di un forte legame, quasi affetto, a volte c’è invece distacco o addirittura fastidio.

Chiesi a una moltitudine di persone di mostrarmi le loro finestre, di permettermi di disegnarle, di raccontarmele e dirmi della relazione che avevano con questo buco nel muro. Capii che per soddisfare l’irresistibile desiderio che avevo di raccontare la città dove vivevo allora, New York, avrei dovuto osservarla dallo sguardo più intimo di tutti: quello di chi la guarda (attivamente o passivamente) dalla propria finestra. Da allora disegno finestre. Ne ho designate centinaia. Finestre che si affacciano su città, finestre che si affacciano sulla natura, sul mare, su prati, su boschi.

Finestre che ci mostrano il presente, che si affacciano verso il passato, quel passato che, con le sue concatenazioni, ci ha portati in quel preciso punto nel tempo e nello spazio. Sebbene i disegni mostrino sempre lo stesso soggetto — il tangibile (l’infisso) che inquadra l’intangibile (la vista) — la mia attenzione si è andata via via spostando dal fuori al dentro, da ciò che è visto al come e al perché vediamo.

Disegno dopo disegno, il vetro si è trasformato pian piano in uno specchio nel quale, a ogni sguardo, finiamo per vederci riflessi noi e i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre speranze; il passato che si mescola al presente. Tra tutti gli elementi costruttivi, costitutivi e compositivi in architettura, la finestra è indubbiamente quello con il più grande potenziale narrativo.