Tag Archivio per: disegno

Poems Selected by Shakespeare and Company

Paris in Our View è una raccolta di 55 poesie che esprimono il punto di vista di Shakespeare and Company sulla capitale francese: un punto di vista formato sia dai libri presenti sui nostri scaffali sia dai lettori e dagli scrittori che ogni giorno varcano le nostre porte.

Matteo Pericoli, acclamato illustratore italiano, ha realizzato gli splendidi disegni al tratto che ritraggono le vedute delle finestre dei poeti che, una volta o l’altra, hanno vissuto a Parigi. Tra questi, le vedute di Arthur Rimbaud, Gertrude Stein e Alice B. Toklas, Charles Baudelaire, Julio Cortázar, Aimé Césaire, Aja Monet, César Vallejo, Victor Hugo, Natalie Clifford Barney e Oscar Wilde, oltre a quelle del Beat Hotel e di Shakespeare and Company, la cui finestra sulla cattedrale di Notre-Dame e sull’Hôtel-Dieu è riportata sulla copertina del libro.

di Matteo Pericoli

Il 4 marzo scorso è apparsa su FiveThirtyEight – il sito dello scrittore e studioso di statistica Nate Silver, noto per aver predetto accuratamente i risultati delle elezioni americane dal 2008 in avanti – un’interessante recensione di Draftback, un’applicazione che «tratta la scrittura come dati». Nella versione attuale, Draftback è un’estensione del browser Google Chrome che, sostanzialmente, registra in tempo reale non solo tutti i tasti che vengono premuti sulla tastiera durante la compilazione di un documento scritto (e quindi tutte le lettere, gli spazi, gli accapo, le cancellazioni, i ctrl+Z, i copia e incolla, ecc.), ma anche gli intervalli di tempo tra una battuta e l’altra. Alla fine, Draftback ci restituisce tutto ciò con una sorta di animazione dell’atto dello scrivere, riproducibile a noiosissima velocità normale, cioè esattamente seguendo i tempi della produzione del testo, oppure a velocità accelerata.

Prima di arrivare a Draftback, il programmatore (e scrittore) James Somers aveva passato anni a cercare di sviluppare un programma che facesse quello che Google Docs aveva sempre fatto: memorizzare e archiviare tutte le battute di tutti i documenti prodotti e salvati sui propri server. Gli è bastato quindi accedere al codice di Google Docs per poter rivedere le animazioni di tutti i suoi testi.

L’idea di un’applicazione che mostri la scia che l’atto dello scrivere lascia durante il suo faticoso percorso è significativa.

Da un lato, c’è l’effetto del progresso: per chi ancora usa normalmente carta e penna, o è a conoscenza dell’esistenza della macchina per scrivere, il fatto di poter rivedere il passaggio da una bozza all’altra, da un’idea all’altra, tra errori e passi falsi, è la norma, nulla di nuovo. Per molti, invece, la tecnologia significa un inesorabile distacco da esperienze cognitive e percettive che fino a poco tempo fa erano comuni. E quindi sorge, a un certo punto, il curioso desiderio di voler colmare, sempre tramite la tecnologia, il divario creatosi tra l’esperienza analogica e quella digitale.

Dall’altro lato, c’è il piacere, comune a molti, di poter spiare il processo creativo di altri, forse nella speranza di trarne qualche indicazione. A questo riguardo, tuttavia, l’argomento di fondo del creatore di Draftback nasconde un fraintendimento cruciale. Il programmatore dice al recensore: sappiamo come migliorare un violinista, ma non sappiamo come migliorare uno scrittore. L’idea è che, vedendo l’animazione di un testo mentre viene scritto, si possa capire meglio la tecnica con cui è stato creato, e quindi correggerla o imitarla.

Ma scrivere, come anche disegnare, non è una disciplina esecutiva come lo sono suonare il violino o danzare; è una disciplina compositiva. A differenza dell’esecuzione di una danza o di un brano musicale, nella composizione di un testo è soltanto davanti al lavoro in stato avanzato che se ne può parlare. È solo davanti a una frase o a un paragrafo completo che un ipotetico insegnante può intervenire per migliorarlo.

Alla fine, più banalmente, riguardando la scrittura animata di Draftback finiremo forse per sentirci un po’ rassicurati dagli altrui errori, ripensamenti, cancellature, tentennamenti e indecisioni. È proprio vero che, quando siamo soli davanti a uno schermo o a un foglio di carta bianco, ci troviamo un po’ tutti a ondeggiare sulla stessa fragile barca ed è futile cercare soccorso altrove.

Link all’articolo: https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-04-29/la-storia-miei-filedoc-181300.shtml


Il World Trade Center risulta più alto della Willis Tower di Chicago
I rivali attaccano: “Antenna camuffata da guglia”. A novembre il verdetto

di Matteo Pericoli

La Stampa, Cultura & Spettacoli, 8 ottobre 2013

Perché un primato sia veramente tale, deve essere innanzitutto verificato e in qualche modo certificato. Dopo sette anni dall’inizio dei lavori, il 2 maggio scorso viene finalmente issata l’ultima porzione di un enorme pinnacolo alto 124 metri in cima al nuovo grattacielo del World Trade Center (inizialmente noto come Freedom Tower, ma ribattezzato One World Trade Center nel 2009). Quando, nel giro di poche ore, la Port Authority of New York & New Jersey (vale a dire la proprietà dell’intero complesso) dichiara in un comunicato stampa, con un pizzico di arroganza, che «una volta completato, con i suoi 1776 piedi di altezza (541 metri) One WTC sarà l’edificio più alto dell’emisfero ovest», la reazione da parte di chi tali primati non li prende alla leggera non è di unanime accordo.

Perché? Per motivi linguistici e architettonici. Nel comunicato stampa si parla di «edificio» («building»), mentre in realtà si sarebbe dovuto usare, preventivamente, il termine meno specifico di «struttura». Infatti, i primati aggiudicati alle strutture alte sono suddivisi in tre categorie: 1) altezza architettonica (quella comunemente accettata per la definizione di «edificio»), cioè dalla base fuori terra fino alla punta architettonica, vale a dire incluso un eventuale pinnacolo (che abbia funzioni principalmente estetiche), ma non un’eventuale antenna, o ripetitore, o asta per bandiera, e così via; 2) altezza di utilizzo, cioè dalla base fino all’ultima quota abitata all’interno della struttura; e 3) altezza massima, cioè dalla base fino al punto più alto della struttura, qualsiasi esso sia (antenne e aste incluse).

Per districarci da questi pasticci linguistico-architettonici si riunirà a inizio novembre il «Council on Tall Buildings and Urban Habitat» di Chicago, fondato nel 1969 per stilare, una volta per tutte e senza dubbi, la classifica degli edifici più alti del mondo. Ma riusciranno a rimanere imparziali? Infatti, il «Council of Tall Buildings» ha sede a Chicago, la città della Willis Tower (fino a poco tempo fa nota come Sears Tower), nonché l’attuale detentrice del titolo di «edificio più alto dell’emisfero ovest» con i suoi 442 m di altezza architettonica, 413 m di altezza di utilizzo e 527 m di altezza massima.

La voglia di costruire sempre più in alto ha radici e tradizioni antiche. Senza andare troppo indietro nel tempo, nella stessa New York ci fu l’avvincente e, visti i tempi (erano gli anni 1929-1930), entusiasmante corsa al primato di altezza tra i grattacieli 40 Wall Street e Chrysler Building. La gara si consumò durante la costruzione, pressoché simultanea, dei due grattacieli. E finì con un colpo di coda, una mossa di furbizia ingegneristica, quando il famoso pinnacolo di completamento del Chrysler Building venne prima trasportato (di nascosto e rimpicciolito come un palo telescopico chiuso) in cima al cantiere, poi issato e infine, in poche ore, esteso a mo’ di canna da pesca per sorpassare l’ormai finito 40 Wall Street e regalare così il primato, durato poi solo un anno, al Chrysler Building.

E, senza andare troppo lontano, anche Torino ha dovuto di recente confrontarsi con la complessa questione se sconfiggere o meno un primato d’altezza. Infatti, il nuovo grattacielo della Compagnia di San Paolo alla fine non ce l’ha fatta a sorpassare la Mole Antonelliana e rimarrà più basso, anche se solo di una manciata di centimetri.

Dopo il comunicato stampa di maggio, in cui la «Port Authority of NY & NJ» si vantava che il One WTC fosse l’«edificio» più alto dell’emisfero ovest, è sorto un terribile dubbio. In un articolo in prima pagina del 10 settembre scorso, il Chicago Tribune si domanda se quel pinnacolo non sia forse un’antenna camuffata, abbassando quindi la quota dell’edificio vero e proprio, e lasciando così il titolo alla Willis Tower di Chicago. È vero che alla fine, per la città con l’edificio certificato più alto, c’è un premio che va oltre la questione di vanità; e cioè: più turisti, più prodotti da commercializzare e vendere, più diritti (legali, certificati) di vantarsene, affitti più alti, insomma un po’ più di tutto.

Intanto, in attesa della deliberazione del «Council on Tall Buildings» a inizio novembre, bisognerebbe forse soffermarsi a ripensare a questa ossessione così marcatamente fallica per gli edifici che a tutti i costi devono ergersi più alti degli altri, quando la vera magia dell’architettura è l’esatto opposto, cioè lo spazio pensato per essere percepito dal di dentro e che solo raramente possiamo cogliere nella sua interezza.

Ma, attenzione, una vittoria di New York e del One WTC potrebbe nascondere un’ironica sconfitta. Quattro anni fa, il «Council on Tall Buildings» ha cambiato le regole su come si misura l’altezza di un edificio: la base deve essere calcolata dal punto più basso di accesso pedonale. One WTD ha un ingresso secondario sulla facciata nord, che è più basso di cinque piedi rispetto a quello principale, sulla facciata sud. Dai fatidici 1776 piedi, numero che evoca l’anno della dichiarazione d’indipendenza statunitense, si passerebbe a un’altezza di 1781 piedi, e quindi a una data che, volendo, potrebbe ricordare, a vostra scelta: la scoperta del pianeta Urano, la fondazione di Los Angeles, o la pubblicazione della Critica della ragion pura di Kant.


La Stampa, 8 ottobre 2013

Prefazione

Un agglomerato di edifici non è sufficiente per costituire una città. E non ha importanza quanto sia grande, né quale sia la qualità architettonica dei singoli edifici o dell’organizzazione urbanistica del tutto. Ciò che importa è come l’agglomerato viene percepito da chi ci vive, come viene raccontato a chi lo visita, e come chi lo visita a sua volta lo racconterà al mondo esterno. Le città fisiche esistono, ovviamente, ma sono città solo in quanto vengono percepite. Gli agglomerati di edifici che chiamiamo città sono degli organismi viventi che si nutrono di percezioni e in cambio restituiscono storie, emozioni e sogni.

Prima di venire a Torino ho vissuto per tredici anni a New York. L’ho assorbita e ho cercato di disegnarla tutta, come fosse una cosa sola. Ne ho disegnato il profilo visto dai fiumi che la circondano, poi quello da Central Park. Poi, mentre stavo per cambiare casa e a trasloco quasi pronto, mi sono affacciato dalla mia finestra e ho capito che di città non ce n’era una, ma milioni, tante quante il numero dei suoi abitanti. E così ho visitato una moltitudine di finestre per disegnarne le viste e scoprire come vedono la città quelli che la abitano. Quando sono arrivato, Torino non la conoscevo per nulla. E forse ancora non la conosco: non passa un giorno che non incontri uno scorcio nuovo, un angolo o un palazzo mai visti. Ma dopo «un anno alla finestra» sento di avere iniziato a scoprirla. Invece di avvicinarmi dal di fuori e cercare lentamente di conoscerla – come capita normalmente – mi sono tuffato direttamente nel suo cuore. Ho visto come viene percepita da chi la abita; dalle sue finestre ho sentito i racconti di chi ci vive e ci è nato, o di chi, come me, è venuto da altrove. Dalle finestre ho potuto notare il tempo, lo si vede nelle architetture, e come in questi ultimi anni abbia cambiato questa città.

A chi chiedevo di mostrarmi la sua finestra dicevo che questo sarà un racconto di Torino vista dai suoi buchi, della più intima e più vera delle città.

– Matteo Pericoli
Maggio 2011

Tag Archivio per: disegno