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Ha conquistato i newyorkesi (e poi il mondo) con i suoi disegni di Manhattan, poi è tornato in Italia, a Torino, dove si occupa di architetture, di storie, e delle loro relazioni. Lo abbiamo incontrato.

di Manuel Orazi

In molti si sono riferiti alla letteratura con la metafora dell’architettura, soprattutto per dare forma alla struttura di un romanzo. In pochi invece hanno fatto l’operazione inversa, immaginando cioè l’architettura come una struttura narrativa. È questa l’originale chiave di lettura di Matteo Pericoli che, abbandonata l’architettura come professione, ci è poi tornato alla rovescia o come si dice in inglese, inside out.

Laureatosi al Politecnico di Milano con Wolfgang Frankl – storico collaboratore di Mario Ridolfi – poco prima della sua scomparsa, è andato a lavorare a New York per Peter Eisenman, una breve parentesi, e quindi da Richard Meier. Nella Grande Mela fra il 1995 e il 2008 è avvenuta la sua metamorfosi, il passaggio cioè da architetto a illustratore, conquistando la città che non dorme mai che ha disegnato per intero prima dall’esterno, e poi dall’interno (in Manhattan svelata e Il cuore di Manhattan).

Se l’architettura di un romanzo fosse davvero un edificio – avesse cioè una struttura fisica, tangibile, fatta non solo di parole, che forma avrebbe?

Annie Ernaux, Gli anni

Paul Goldberger, allora critico del New Yorker, scrisse che Pericoli aveva conquistato i newyorchesi perché è stato il primo a osare di raccogliere in un unico rotolo tutto il profilo urbano dell’isola, disegnando cioè Manhattan come fosse Ascoli Piceno. Dopo tanti anni e molte altre avventure letterarie che lo hanno portato a collaborare con i più grandi quotidiani internazionali, Pericoli è tornato in Italia, ma non nelle Marche delle sue origini familiari, bensì a Torino.

Elena Ferrante, L’amica geniale

Qui ha trovato la Scuola Holden, dove ha proposto un modo completamente nuovo di pensare la letteratura: “le storie hanno bisogno di essere attraversate mentalmente prima ancora di essere scritte”. Quindi le storie sono dei passaggi, delle porte? “Non proprio, una storia non è una strada da percorrere… è più come una casa. Come ha spiegato il premio Nobel Alice Munro, in una storia ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo come le camere stiano in rapporto col corridoio, come il mondo esterno venga alterato se lo guardi da queste finestre. E anche tu, il visitatore, il lettore, sei alterato dall’essere in questo spazio chiuso, ampio e facile o pieno di svolte e angoli, pieno oppure vuoto di arredamento”.

Quindi ci si può anche tornare, “certo, la casa, la storia, offre sempre di più di quando l’hai vista l’ultima volta. Ha una sua vita autonoma, percepisci che non è stata costruita/scritta solo per fare da riparo o per intrattenerti”. Il risultato è una collezione di disegni curiosi, ora raccolti in un libro,, Il grande museo dell’immaginazione, che è forse il suo più ambizioso, a coronamento di questa sua seconda vita italiana. Di certo è il più teorico. 

Kurt Vonnegut, Mattatoio N. 5

Il candore intellettuale di Pericoli rimanda al Gianni Rodari di Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, pubblicato cinquant’anni or sono, l’unico testo teorico dello scrittore piemontese e perciò particolarmente significativo. Scriveva Rodari nella quarta del 1973 “Insisto nel dire che, sebbene il Romanticismo l’abbia circondato di mistero e gli abbia creato attorno una specie di culto, il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti”.

Analogamente Pericoli propone a tutti questo esercizio, cercando di sciogliere alcuni grandi interrogativi astratti senza mai voler apparire come un filosofo o un critico, piuttosto suggerendo soluzioni pratiche, alla portata di chiunque. Per esempio ponendo la domanda: se l’architettura di un romanzo fosse davvero un edificio – avesse cioè una struttura fisica, tangibile, fatta non solo di parole, che forma avrebbe?

È una domanda cui l’autore cerca di rispondere da oltre un decennio insieme ai suoi studenti del Laboratorio di architettura letteraria nato alla Scuola Holden e poi trasmigrato in altre università, “La ricezione crea interpretazioni che si traducono in forme, completamente diverse a seconda dello studente che vi si applica, non ce ne sono mai due uguali”. Le strutture disegnate, spesso bizzarre, sottolineano un fatto fondamentale: la lettura di un testo è tanto creativa (se non di più) della sua scrittura, “le scelte che si fanno durante la composizione di strutture architettoniche sono qualitativamente molto simili a quelle che fa chi sta narrando una storia… Ha più il sapore di una collaborazione tra due fonti attive che di una trasmissione > ricezione monodirezionale”.

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