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La Stampa Torino, 20 marzo 2023

L’artista è tra i protagonisti dell’Hypercritic Poethon alla Scuola Holden

di Diego Molino

«Torino è inconsapevolmente bella. Non sa di esserlo ma questa è la sua forza». È così che definisce la città Matteo Pericoli, architetto, disegnato­re, insegnante e autore. Sarà fra gli ospiti che per una setti­mana, da domani al 27 marzo, parteciperà alla maratona di poesie Hypercritic Poethon (ci saranno anche Margherita Og­gero, Enrica Baricco, Serena Dandini, Igiaba Scego, Marti­no Gozzi, Ilaria Gaspari, Mau­rizio Gancitano, gipeto, Guido Catalano, Andrea Tarabbia, Alessandro Burbank, Yoko Ya­mada, Sara Benedetti, Andrea Tomaselli, Daniele De Cicco, Giorgia Cerruti, Silvia Cannar­sa, Luca Gamberini, Emiliano Poddi). Un viaggio che trarrà ispirazione dai luoghi in cui verranno letti i componimenti di diversi autori: musei, giardi­ni, case di ringhiera e vecchi tram, grazie alla collaborazio­ne con Gtt e Associazione Tori­nese Tram Storici. Tutti appun­tamenti a ingresso libero fino a esaurimento posti, per cui si consiglia la prenotazione su Eventbrite nella sezione dedicata all’evento. Pericoli è pro­tagonista venerdì alle 18,45 al­la Scuola Holden con L’archi­tettura della poesia.

Cosa hanno in comune archi­tettura e poesia?

«La poesia non è altro che ma­nifattura e per saperlo basta guardare alla sua etimologia, poièo in greco antico signifi­ca fare, creare, costruire. La poesia è l’atto più forte e co­struttivo che esista, vuol dire mettere le parole in una se­quenza, una dopo l’altra. L’ar­chitettura a sua volta è model­lazione dello spazio, ha a che fare con relazioni, spazi, vuo­ti e ombre, `tutte cose in comu­ne con la poesia».

Quindi si può dire che siano la stessa cosa?

«Esiste una zona in cui tutte le decisioni, le idee compositive non prendono ancora la forma di una disciplina specifica. È il potenziale creativo a cui appar­tengono architettura, poesia, musica e scrittura. Solo succes­sivamente ciascuno può dare a queste idee e intuizioni una forma ben definita».

Parliamo dell’architettura delle città. Come è possibile scovarne l’anima poetica?

«All’inizio pensavo che le città fossero agglomerati di edifici costruiti molto vicini gli uni agli altri, e che questo fosse esclusivamente per una ragio­ne di utilità. La poesia la trovai per la prima volta vivendo a New York, è stato un po’ come quando ci si innamora di una persona, succede ma non rie­sci a spiegare perché».

A Torino ha trovato la poesia che andava cercando?

«Quando arrivai a Torino trovai un’inaspettata e incredibi­le energia e spirito. In un cer­to senso il luogo più simile a New York è Porta Palazzo: si trova nel centro delta città, vicino a edifici istituzionali im­portanti e aulici, eppure c’è una mescolanza di vita estre­mamente vera, intensa e que­sto mi rassicura. Porta Palaz­zo è uno di quei luoghi che esi­stono senza avere il bisogno di raccontarsi, perché comunicano tanto già così come so­no, proprio come New York».

E qual è il suo segreto?

«Non essere consapevole di se stessa, questo è l’unico modo in cui si manifesta la poesia, altrimenti si perderebbe. Viene detto anche nel film Il postino quando Mario (Massimo Troi­si) e Pablo Neruda (Philippe Noiret) sono seduti in riva al mare e Mario gli ha appena detto di essersi sentito “come una barca sbattuta dalle vo­stre parole”. Neruda dice a Mario che così ha appena crea­to una metafora. “No!” rispon­de Mario arrossendo,“Ma veramente?”. E poi aggiunge: “Vabbè, però non vale perché non la volevo fare”. “Volere non è importante” gli dice Ne­ruda, “le immagini nascono casuali”. Ecco cosa vuol dire essere inconsapevoli».

Ci sono altri luoghi che le ispi­rano lo stesso sentimento a Torino?

«Le passeggiate lungo il Po na­scondono un’idea detta città inusuale, sembra di essere in campagna ma sei in pieno cen­tro. È una fetta di natura che si insinua dentro la città, questo è molto poetico, permette stra­ne intersezioni nella testa. A Torino spesso la poesia è na­scosta dentro cose che non ti aspetti di trovare in una città medio-grande».

Le trasformazioni urbane ri­schiano di far perdere quella poesia?

«È sbagliato pensare che una città debba essere sempre la stessa, è come dire che un bambino non deve crescere mai. La poesia sta nel saper guardare e indirizzare quella crescita, del resto le città sono organismi viventi»

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Il venerdì di Repubblica
17 febbraio 2023
di Arianna Passeri

Molto spesso, durante la lettura, si incontrano espressioni del tipo «lo spazio della narrazione», «le fondamenta di una storia». O magari di un libro la cui «trama non sta in piedi». Quelle che sembrano semplici locuzioni metaforiche sono da intendersi, in realtà, come spie rivelatrici di un legame a doppio filo tra il mondo della progettazione e quello della letteratura.
L’architetto e autore Matteo Pericoli parte da questo assunto per ideare un interessante esercizio creativo: «Se l’architettura di un romanzo fosse davvero un edificio — cioè avesse una struttura fisica, non fatta soltanto di parole — che forma avrebbe?».
Ecco allora che Cuore di tenebra diviene una piramide tronca rovesciata, il cui vertice è a metri di profondità nel terreno, e L’amica geniale si sdoppia in due palazzi che si sostengono e respingono a vicenda.
E diversi ancora sono gli esempi. Quasi per magia, anche il lettore può così “visitare” Il grande museo vivente dell’immaginazione (Il Saggiatore, 166 pagine, 25 euro), e scoprire i segreti dietro la costruzione di un testo (e di un edificio).

Il libro di Matteo Pericoli nasce dal suo “Laboratorio di architettura letteraria”
Da Dostoevskij a Ferrante, il disegno diventa una forma di lettura alternativa

di Mario Baudino

Concepire e disegnare case e palazzi partendo dalla grande letteratura non è un solo gioco, anche se magari lo abbiamo pure fatto, qualche volta, fantasticando su un romanzo o su un racconto: forse però non siamo mai andati oltre su questa strada interpretativa, non lo abbiamo concretizzato. Matteo Pericoli, invece, lavora su questa intuizione ormai da anni. Era partito con un’idea mutuata da Alice Munro, la scrittrice canadese molto ammirata per i suoi racconti, che aveva descritto una volta le ́«storie» non come strade, e cioè non come narrazioni vettoriali, percorsi unidimensionali con un inizio e una fine, ma come ́«case», del tutto tridimensionali – e da abitare, ed è arrivato ora a costruire un libro di testi e architetture fantastiche, Il grande museo vivente dell’immaginazione (Il Saggiatore) libro elegantissimo che riassume idealmente un lungo lavoro di laboratori un po’ in tutto il mondo (e cominciato alla Scuola Holden di Torino) e presenta una vasta scelta di risultati: le storie trasformate in edifici, la lettura come modalità dell’abitare.


Trasfigurazioni che narrano il loro rapporto con il mondo come personaggi vivi


Molti lettori appassionati sanno di aver avuto spesso l’esperienza di ́«cadere» in un libro, e di cambiare dimensione. Gli scrittori, altrettanto spesso, li invitano proprio a questa dislocazione spazio-temporale, quando le architetture urbane narrano il loro rapporto col mondo come fossero personaggi. Gli esempi sono innumerevoli, alcuni memorabili come l’incipit di Ferragus, il primo racconto di Storia dei tredici, dove Balzac dà la parola alle strade parigine, quelle disonorate o nobili, assassine o ́«più ̆vecchie di certe vecchissime dame», rispettabili, pulite o sempre sporche, operaie, lavoratrici, mercantili; perché ́«le vie di Parigi hanno qualità umane, e con la loro fisionomia imprimono in noi certe idee cui ci è difficile sottrarci». Non è il solo, naturalmente. Qualcosa del genere accade in Dickens (leggersi magari Casa desolata, dove una diruta e malfamatissima strada di Londra si comporta come un essere umano).

Matteo Pericoli è andato più in là, ovvero ha deciso invece di far ́parlare le opere di letteratura come fossero nel loro insieme architetture, puntando non, come dice nella prefazione del suo libro, ́«a quell’istinto naturale che abbiamo di immaginare o visualizzare le ambientazioni descritte nel romanzo, ma a quella netta impressione di sentirsi immersi in una specie di costruzione che ha un suo funzionamento e una sua struttura». Disegni, plastici, edifici fantastici, come le città di Calvino, sono a loro volta inseriti in una sovra-architettura, quella appunto del ́«museo-libro» («Questo non è un libro come gli altri – scrive –. È un edificio») che li ospita: senza tentazioni di «realismo» o piatta verisimiglianza. Se prendiamo Cuore di tenebra, il magnifico racconto conradiano, non è certo trasformato o descritto come una capanna nella foresta: l’edificio in cui si trasforma è invece una piramide rovesciata fino a molti metri sotto il suolo. Così per i dodici autori su cui Pericoli ha lavorato: non se ne organizzano presepi, ma trasfigurazioni simboliche.

“Cuore di tenebra» di Joseph Conrad diventa una piramide rovesciata conficcata nel suolo (dal libro di Pericoli)”
“Cuore di tenebra” di Joseph Conrad diventa una piramide rovesciata conficcata nel suolo (dal libro di Pericoli)

Elena Ferrante (L’amica geniale) si sdoppia in due edifici che forse si sostengono a vicenda (e questa rappresentazione, tutto sommato, è forse la più ovvia), Le notti bianche di Dostevskij divengono un grattacielo inclinato sopra una sorta di labirintica scacchiera, La malora di Beppe Fenoglio è una casa tutta radici, un edificio che cresce ́«sotto terra», Il barone rampante di Italo Calvino è qualcosa che contiene il senso di una distanza incolmabile, una casa con un’intercapedine visibile solo dall’alto (perché come dice il padre di Cosimo Piovasco, ́«la ribellione non si misura a metri»). Ci sono anche, rigenerati e dislocati con il lavoro di costruzione spaziale, Annie Ernaux, William Faulkner, Junichirο Tanizaki, Kurt Vonnegut, Friedrich Dürrenmatt, Emmanuel Carrère, Juan José Saer, a testimonianza che il procedimento può funzionare su qualunque racconto, su qualunque ́«storia» – con un occhio all’altra storia, quella dell’architettura, e un altro verso il paradigma possibile dell’«architettare».


“Abbiamo l’istinto naturale di immaginare e visualizzare”


«Queste strutture che incontrerete – scrive Pericoli – prenderanno la forma che vorrete voi… ovvero quella basata sulle vostre reazioni, intuizioni e idee. Ognuna diversa per ognuno di voi, un multiverso di forme». Il risultato è un percorso di lettura molto stimolante – perché poi il museo dell’immaginazione di Pericoli è sì un ́«museo» ma intanto è un libro, non un catalogo ma una storia delle storie, soprattutto se si pensa all’uso talvolta disinvolto e ideologico che si tende a fare nel discorso pubblico dei classici di oggi e di ieri: pessima abitudine perché il rischio diventa allora quello di farne non costruzioni libere e fantastiche, ma tristi e noiosissime prigioni. —

Da undici anni Matteo Pericoli insegna a studenti di tutto il mondo come analizzare la struttura narrativa di una storia e trasformarla con creatività e immaginazione in un edificio. Da questa esperienza è nato “Il grande museo vivente dell’immaginazione” (il Saggiatore), scritto a sua volta come se fosse un museo da esplorare, con tanto di mappa e bookshop

Dickow, Niddam, Porat, Topaz su un racconto di Yonathan Raz Portugali Hebrew University of Jerusalem

Per Ennio Flaiano i grandi libri non sono quelli che sfogliamo con disattenzione, che consumiamo per invidia o emulazione, che finiamo in fretta, con rabbia, per stare al passo con la moda letteraria del momento; ma quelli che rileggiamo così tante volte da abitarli, sentendoli addosso come certi angoli di casa nostra. Li teniamo sul comodino, in borsa o in uno scaffale preciso della libreria per rifugiarci quando ne abbiamo più bisogno. Per cercare risposte a domande che la vita ci pone distrattamente. Alcuni libri hanno la forma di una tenda, altri di un attico, altri ancora di una casa in collina.

Ci voleva però la poliedricità di un architetto, illustratore, docente e scrittore per scoprire come analizzare l’architettura di una storia e trasformarla con creatività e immaginazione in un edificio. Da undici anni Matteo Pericoli guida studenti in tutto il mondo (Stati Uniti, Italia, Israele, Svizzera, Taiwan ed Emirati Arabi Uniti) in un gioco che ormai è diventato un sorprendente esperimento dove non esistono errori, perché non c’è un dogma da seguire: il Laboratorio di Architettura Letteraria. Questo lavoro pluriennale è diventato un libro: “Il grande museo vivente dell’immaginazione” (il Saggiatore), scritto a sua volta come se fosse un museo da esplorare, con tanto di mappa e bookshop.

In questa guida generosa e attenta a seguire il passo del lettore, Pericoli svela i segreti per aprirsi al misterioso ma continuo legame tra fantasia e costruzione. E così Cuore di Tenebra di Joseph Conrad diventa una slanciata piramide inversa il cui vertice si trova a decine di metri sottoterra; L’amica geniale di Elena Ferrante si trasforma in due palazzi che si sostengono e respingono a vicenda. E via costruendo. Questo cantiere culturale non si esaurisce nel libro, ma si espande in un sito bilingue in costante aggiornamento.

«Undici anni fa una fiammella si è accesa in me, innescando una miccia i cui effetti non avevo previsto. Ero appena tornato dagli Stati Uniti e quando mi fu proposto di fare un workshop nella Scuola Holden, all’epoca un piccolo spazio in via Dante a Torino, decisi di approfondire un concetto che mi frullava in testa. Perché si dice che una storia ha una struttura, ha delle fondamenta oppure “non sta in piedi”? Ma mi sono accorto che parlando con gli studenti delle strutture narrative le parole non bastavano. C’era una quantità d’informazioni che mancava. Allora chiesi a loro: “Perché non me lo fate vedere usando cartone, forbici e colla?”. Questa banale domanda mi ha portato a fare una scoperta sorprendente».

Quale?
Tutti noi abbiamo un gigantesco lago sotterraneo di conoscenze inesplorate. Un calderone di energia creativa dato dalla lettura a cui non riusciamo spesso ad accedere perché se andiamo a ricercarlo con le parole ripeschiamo solo gli stessi concetti che avevamo elaborato in passato copiando pensieri altrui. Invece di continuare a usare le parole per spiegare qualche cosa che era fatto di parole, proviamo a dare una forma tangibile ai nostri pensieri sul libro. Così facendo ho notato che le conoscenze si decuplicano. E vale per tutti. Dai liceali che seguono i miei corsi a chi non ha letto tanti libri o non conosce bene l’architettura. Questo fenomeno si ripete a ogni laboratorio. 

Fermiamoci un momento all’ingresso di questo libro-museo in cui inviti il lettore a lasciare nel guardaroba i bagagli ingombranti che impediscono di capire meglio i legami tra storie e architettura. Quali sono gli ostacoli più difficili da abbandonare?
Per esempio pensare che la relazione tra architettura e letteratura sia un insormontabile sforzo intellettuale; non sentirsi all’altezza e dimostrare forzatamente di essere intelligente e preparato prima di leggere un libro. Ma soprattutto lo scetticismo; lo stesso che incontro all’inizio quando propongo questo gioco. Al primo incontro del laboratorio vedo alcune facce sgomente, terrorizzate. Poi il secondo e il terzo giorno vengo travolto da un entusiasmo pazzesco di chi capisce quanto sia bello trovarsi dall’altra parte.

Dall’altra parte rispetto a cosa?
Rispetto ai preconcetti. Al di là delle nostre conoscenze pregresse sullo stile, la narrativa, le etichette che diamo ai libri. Le storie non sono strade puntuali da percorre in base alle indicazioni date da altri, ma edifici da esplorare in libertà, immergendosi in uno spazio letterario. Ovviamente questo spazio è costruito da qualcun altro, lo scrittore, ma alla fine le costruzioni le facciamo quasi totalmente noi, nella nostra mente. La speranza è che una volta iniziato il libro-museo il lettore dica: sai cosa? Questi bagagli ingombranti li lascio lì ed esco più leggero di quando sono entrato. 

Allora entriamo leggeri e facciamo un esempio di costruzione architettonica derivata da una struttura narrativa.
Durante un laboratorio mi ha colpito il modo differente in cui può essere visto il racconto di Ernest Hemingway “Colline come elefanti bianchi”. Per gli architetti il rapporto affettivo tra i due personaggi era squadrato, come un parallelepipedo, mentre per dei ragazzi liceali si trattava di un’opera cilindrica, forse più idealizzata. Queste risposte ti riempiono la mente e il corpo di una sensazione positiva, perché con un testo non sarebbero riusciti ad approfondire così il rapporto tra i due protagonisti. Lo stesso mi è capitato con lo straordinario racconto di Amy Hempel intitolato “Il raccolto”. In undici anni di Laboratorio di Architettura Letteraria non ci sono mai stati due edifici somiglianti. Il punto è che i nostri pensieri  hanno una forma e una sensazione pre verbalizzata, diversa per ognuno, che spesso ignoriamo, saltando subito al passaggio successivo per alimentare il nostro monologo interiore. Il laboratorio esalta ciò che le parole scritte sgonfiano. Ci sono risultati continui perché questo processo è qualcosa di estremamente naturale che viene fuori solo se ci si rilassa.

Questo approccio innovativo potrebbe essere usato nelle scuole per avvicinare i giovani, ma anche i meno giovani, alla lettura?
Certamente. Rendersi conto che la lettura è equiparabile a un’esplorazione di un luogo la cui forma definitiva è incastrata nelle nostre sinapsi potrebbe essere una spinta ad affrontare le storie in una maniera diversa. Ovvero non cercando di replicare quello che altri hanno precedentemente detto o pensato su quel libro. Siccome un’opera ci è stata presentata come bella, brutta, semplice o complessa non dobbiamo cercare nel testo una sensazione che altri hanno già trovato. Sappiamo molto di più di quanto pensiamo di sapere. Andando a ritroso alla fonte delle idee che hanno un peso e una forma, tutti possiamo trovare i nostri spazi, costruendo, decostruendo, abbattendo e ricominciando. E gli errori non esistono più, non ci sono insegnanti e studenti.

Nel libro approfondisci due concetti importanti che accomunano letteratura e architettura: il vuoto e il contesto.
L’architettura è la compagna costante dell’intera esistenza. Passiamo la nostra vita attraversando, trapassando architetture e spazi uno dopo l’altro. Per capirli parliamo di stili e forme, ma trascuriamo spesso l’effetto più potente dell’architettura: ciò che non c’è. Le nostre stanze sono circondate da pareti ma noi viviamo e lavoriamo all’interno dell’unico spazio che non è stato costruito. E così anche nelle storie diamo tanta rilevanza alle pagine, ai paragrafi, alle frasi e alle parole, trascurando quanto sia importante lo spazio all’interno di una storia. Un elemento ineffabile che noi dobbiamo ricostruire nella nostra mente. E come lo facciamo dipende necessariamente dal contesto. Non solo quello all’interno del quale fuoriesce il libro o l’edificio, ma anche il mio contesto: tutto quello che ho imparato, sentito, creduto finora; le mie aspettative e le mie idee che mi fanno approcciare sempre in modo diverso alla storia o allo spazio in base alla mia condizione esistenziale di quel momento. Concentrandosi ogni volta su dettagli e spazi diversi.

Ha parlato di quanta architettura c’è nella letteratura, ma quanta letteratura c’è nell’architettura?
L’architettura è impregnata di narrativa. Ogni scelta compositiva di chi ha progettato gli spazi che viviamo (dalla sequenza dei volumi ai loro collegamenti, da ciò che viene rivelato a ciò che viene celato, dall’impatto della luce al mistero dell’oscurità, e così via) è in realtà una scelta narrativa, alcune volte fatta consapevolmente altre no. L’architettura poi determina la narrazione della nostra giornata. Pensa al momento in cui attraversi la soglia ed esci di casa la mattina: nella tua testa pensi che stia iniziando qualcosa di nuovo ma quel qualcosa in realtà non esiste perché fuori dalla porta nulla è iniziato e nulla è terminato, tutto è sempre esistito. L’architettura è il nostro escamotage per inscatolare la narrazione quotidiana: aprire la finestra per cambiare l’aria la mattina, uscire di casa, ritornare a casa, salire le scale, scendere le scale Questa interazione con l’architettura è inconscia ma profondamente narrativa e determina come incaselliamo il racconto della nostra vita. Ogni nostro movimento è una lettura dello spazio e senza saperlo siamo già in grado di capire la concatenazione delle narrazioni dell’architettura che ci circonda. Perché usciti da un edificio andiamo a destra invece che a sinistra? 

E conoscendo istintivamente gli spazi architettonici siamo in grado di analizzare le strutture narrative?
Sì, ognuno a modo suo dà significato a elementi diversi privilegiando uno rispetto all’altro. La porta ha un potenziale narrativo chiaro, ma per qualcuno può essere importante l’altezza di un soffitto La finestra messa nel posto giusto per qualcuno è una rivelazione. Ma se lo trasmetti a un altro bisogno narrativo non funziona per niente.  Immagina la prima volta che in un edificio architettonico di qualsiasi tipo, primordiale o non, qualcuno con un martello o una mazza ha buttato giù un pezzo di muro e ha visto il mondo fuori senza poterlo oltrepassare. Chissà, forse ogni elemento architettonico ha il suo corrispettivo letterario, in fondo è cosi che nascono le storie.

Castelli di carta | Guida all’architettura letteraria per esplorare in modo innovativo i libri (e sé stessi)

di Andrea Fioravanti, pubblicato su Linkiesta il 26 novembre 2022:
https://www.linkiesta.it/2022/11/museo-vivente-immaginazione-pericoli-saggiatore/

Non mi sembra vero.

Dopo quattro anni di lavoro, quella che all’inizio sembrava una confusa sequenza di stanze è diventata un vero e proprio libro-edificio.

Il grande museo vivente dell’immaginazione. Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria, edito da Il Saggiatore, esce venerdì 25 novembre.

La Stampa Torino, 28 settembre 2017

di Ilaria Dotta

Elena Ferrante, L’amica geniale

“Costruire una storia è come costruire una casa. Uno spazio in cui si può entrare e rientrare più volte, per scoprirlo sempre differente. A cambiare è lo sguardo, la percezione mutevole di chi prende in mano il libro e, dopo un’occhiata veloce alla copertina, si tuffa tra le righe della prima pagina. È come spalancare una porta, accettando di addentrarsi nella struttura costruita, più o meno consciamente, dallo scrittore. Di immergersi nello spazio letterario edificato da qualcun altro. Ma che forma hanno un romanzo di Calvino oppure di Dostoevskij? Una semplice capanna o magari un castello dalle linee sinuose illuminato da mille finestre, o ancora un labirinto dai muri spessi e senza il tetto. Trasformare in palazzi le grandi opere della letteratura è ciò che fa Matteo Pericoli […]”


Continua a leggere sul sito de La Stampa:
https://www.lastampa.it/torino/appuntamenti/2017/09/28/news/matteo-pericoli-l-architetto-letterario-1.34427945

“Gli anni” di Annie Ernaux

Le “strutture architettoniche” del testo rivelano cose che non sapevamo di sapere

di Matteo Pericoli

Vi è mai capitato, leggendo un libro, di avere l’impressione di trovarvi all’interno di una struttura costruita, consciamente o inconsciamente, dallo scrittore? Con ciò non intendo il naturale processo di visualizzazione delle ambientazioni descritte nel testo, ma la netta sensazione di sentirsi immersi in uno spazio, uno spazio letterario, costruito da qualcun altro.

Nel descrivere testi letterari si usano spesso metafore architettoniche, a partire dall’architettura del romanzo. Parlare di «costruzione di un testo» rende bene l’idea del laborioso atto di concatenare una parola all’altra. Un grande architetto è capace di farci muovere nello spazio con fluidità o con circospezione; ci fa rallentare per assorbire tutti i dettagli; ci può sorprendere o rassicurare. Un grande scrittore fa lo stesso.

Sono sei anni che con i partecipanti del Laboratorio di Architettura Letteraria cerchiamo di andare a scovare le strutture letterarie dei testi che analizziamo e di costruirne dei plastici architettonici, tangibili, fatti di cartone e colla. Usando lo spazio invece delle parole, cerchiamo di capire insieme come funziona, e di cosa è fatta (se così si può dire), l’architettura di un romanzo o di un racconto, di un saggio o di un qualsiasi tipo di testo letterario. Come in un progetto architettonico – dove si ha a che fare con idee spaziali da articolare, concatenare e trasmettere; strutture di sostegno; sequenze di volumi; sospensioni e sorprese – le questioni in un testo narrativo sembrano simili: come collegare diversi piani narrativi? Come esprimere tensione? Come organizzare la cronologia? Come collegare personaggi o creare un vuoto?

Al laboratorio partiamo dal testo e lavoriamo a ritroso: rimossa la materia di un edificio (muri, divisori, coperture, vetrate, ecc.), quel che resta è puro spazio. E tolte le parole da un romanzo, cosa resta? Cerchiamo un’idea compositiva che sia alla base della forma «costruita», architettonica o letteraria.

Le intuizioni strutturali, ma anche le emozioni e le sensazioni che prova ciascun partecipante durante la lettura, vengono ripensate e tradotte in termini di spazio, proporzioni, luce, ombra, pieni e vuoti. Siamo tutti esperti di architettura, nel senso letterale di esperire lo spazio. Infatti, durante il Laboratorio, anche chi non ha mai pensato o progettato in termini architettonici si trova a produrre idee fatte di spazio compositivo. Scopriamo che usando lo spazio invece delle parole riusciamo a penetrare un testo in modo più profondo. È come se, immersi nel romanzo che stiamo leggendo, potessimo alzare lo sguardo dal libro e vedere la sua architettura che, come per magia, si è andata via via creando attorno a noi; e scoprire che, come mi ha detto una studentessa-scrittrice davanti al suo plastico finito, «so delle cose su questa storia che non sapevo di sapere».

Pezzo pubblicato in occasione della prima uscita della rubrica “Architetture letterarie” su La Stampa (poi proseguita su Pagina99).
Leggi direttamente dal sito de La Stampa.

di Vincenzo Latronico

Rane – Il Sole 24 Ore – 29 settembre 2015

Tecnicamente sarebbe
un “workshop interdisciplinare”.
In pratica, è uno
strabiliante esperimento
intellettuale in grado di
mettere insieme le forbici
con la punta arrotondata
e i racconti di Kafka

In un torrido pomeriggio di inizio luglio stavo parlando con due amici di un testo di Amy Hempel intitolato Il Raccolto. Racconta la storia di un incidente d’auto capitato all’autrice, e poi la racconta di nuovo: elencando le omissioni e gli aggiustamenti fatti alla prima versione per renderla efficace e brillante, svelando le piccole insicurezze di chi scrive, le bugie e le vergogne. L’effetto è accattivante e straniante allo stesso tempo. Alla fine la prima storia – quella “romanzata” – non sta in piedi.
«Non si regge», ho detto. «La seconda parte gli toglie ogni punto d’appoggio».
«È vero», ha detto Stefania. «Servirebbe un pilastro».
Non era una metafora per riferirsi a una frase efficace. Stefania parlava proprio di un pilastro. La prima parte del racconto della Hempel era un osservatorio a picco su una montagna, scavato all’interno di un salone più grande che era la seconda, e non si reggeva.
Poi abbiamo aggiunto un pilastro, che Andrea ha ritagliato nel cartoncino vegetale, e allora sì.
Eravamo al Laboratorio di Architettura Letteraria, uno strabiliante esperimento intellettuale portato avanti da Matteo Pericoli, architetto e disegnatore. Tecnicamente è un “workshop interdisciplinare”, ma il termine è un po’ urticante e calza male a una situazione in cui sono presenti in egual misura Kafka e forbici con la punta arrotondata.
Per introdurre il tema del laboratorio, Pericoli cita spesso un brano di Alice Munro: «Una storia non è una strada da percorrere (…) è più come una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo come le camere stiano in rapporto col corridoio, come il mondo esterno viene alterato se lo guardi da queste finestre. E anche tu, il visitatore, il lettore, sei alterato dall’essere in questo spazio chiuso, ampio e facile o pieno di svolte e angoli che sia, pieno oppure vuoto di arredamento. [Questa casa] trasmette anche un forte senso di sé, di essere stata costruita per una sua necessità, non solo per fare da riparo o per stupirti».
L’idea di fondo del laboratorio è che questa metafora – che il percorso del lettore in un libro è simile al percorso di una persona in uno spazio – può essere presa sul serio; e che l’architettura può essere usata come strumento concettuale per analizzare e comprendere una storia, disegnandone un progetto strutturale e costruendone letteralmente un modello.

Strutture, vuoti, scale

In passato i corsi si sono tenuti in varie forme alla Columbia University di New York e alla Scuola Holden di Torino, in scuole superiori statunitensi e all’Università di Ferrara; io ho preso parte a un’iterazione che si è svolta all’interno del festival “Architettura in città” dell’Ordine degli Architetti di Torino.
Eravamo in quindici, tutti architetti presenti o futuri a parte me; faceva un caldo brutale fuori dai magazzini OZ, l’associazione che ci ospitava. Dopo una breve introduzione di Pericoli, ci siamo divisi in gruppi in base ai testi che avevamo scelto. Ci siamo seduti a un tavolo, ci siamo presentati rapidamente e abbiamo cominciato a parlare del testo di Hempel. Era come se parlassimo di architettura. Dicevamo tensione, struttura, ritmo, aperture e chiusure, connessioni, passaggi, sequenze, vuoto. Dicevamo scena, che in realtà è il luogo dove le scene narrative si svolgono. Dicevamo climax, che significa scala.
Secondo il grande linguista George Lakoff le metafore non sono casuali: più sono cementate nel nostro linguaggio, più rivelano che l’affinità fra i due campi ha un reale fondamento cognitivo. È celebre l’esempio della matematica, di cui si parla spesso con metafora spaziale (numeri che si seguono, insiemi che contengono); Lakoff ha dimostrato che i processi mentali che attiva nel cervello sono gli stessi usati per orientarsi nel movimento.
Non so se ci sia un qualche fondamento cognitivo nell’idea che una storia è come una casa (ne dubito); quello che so è che parlare di una storia come se fosse una casa è un modo estremamente efficace per comprenderla.
Penso al nostro caso: tre sconosciuti seduti intorno a un tavolo che devono discutere di un testo che hanno letto. Le probabilità che qualcosa vada storto sono altissime: si può finire schiacciati dal silenzio imbarazzato, o smarriti nelle astrazioni sclerotizzate a cui ci abitua la scuola («intenzione dell’autore», «contesto storico»), o bloccati nel pantano del «secondo-me-lei-non-lo-amava-davvero».
A noi non è capitato nulla di tutto questo; la metafora architettonica ci ha indirizzati verso l’essenziale. La Hempel raccontava una storia, e poi l’episodio reale da cui questa era nata: e cioè l’episodio su cui questa si fondava, su cui si basava, che la racchiudeva. Questi sono termini spaziali, e ci è stato chiaro che la struttura del racconto si traduceva in due ambienti fra cui vigeva uno di quei rapporti.

La spirale di Dumas

Mi è venuto immediato estendere questa procedura ad altri testi che conosco e amo.
Democracy di Joan Didion – una storia d’amore raccontata in modo esploso, tornando ciclicamente alla stessa scena madre per poi diramarsi ogni volta in un momento diverso del passato dei due – è un labirinto in cui si ripassa sempre da una stanza centrale, vedendola ogni volta da prospettive diverse.
Il conte di Monte-Cristo di Alexandre Dumas, che racconta di una vendetta preparata per decenni, è una spirale ascendente: visto di fianco, è la storia di un’ascesa vertiginosa, visto da sopra è un percorso che porta esattamente al punto di partenza, e probabilmente finisce in uno strapiombo.
Questo è a tutti gli effetti un modo di visualizzare un’idea astratta, anzi, di toccarla con mano: finito il progetto ci siamo messi a realizzarne un modello. Oltre che essere molto divertente per me che passo la vita al computer (colla! taglierino!), questo ci ha permesso di scoprire aspetti di quell’idea che prima, al solo pensiero, non erano evidenti.
Ad esempio: tutto ciò che non è finito nel nostro progetto – i personaggi, le piccole scene, le battute di dialogo – si rivelava in qualche modo inessenziale; un personaggio poteva essere eliminato, una conversazione allungarsi o svolgersi altrove, ma l’esperienza complessiva del lettore non sarebbe cambiata in maniera cruciale. Questa è una verità che fa rabbrividire critici e teorici, ma che ogni lettore sa bene: in un romanzo, molta della superficie è secondaria o comunque rimpiazzabile, purché lo scheletro, progettato in ogni dettaglio e calibrato al microgrammo, resti inalterato. È quello scheletro che si costruisce nel modello. Vederne una prova sotto i miei occhi è stato sbalorditivo.
Ancora più sbalorditivo è stato rendersi conto che, alla fine del laboratorio, all’esposizione dei modelli, mi trovavo in una stanza con quindici persone che avevano passato tre giorni a discutere di teoria letteraria: ed era stato, inspiegabilmente, divertente e proficuo.

Lettori sudati

Credo che sia qui la rilevanza profonda del laboratorio, che va ben al di là delle sfere ristrette di scrittori e architetti e ha a che fare col modo in cui si comprende e si insegna la letteratura.
Tempo fa, sulle pagine di questo giornale, lamentavo la pesantezza e l’inefficacia del suo insegnamento scolastico, che spesso la fa apparire come una montagna inespugnabile anziché come una fonte di gioia. Sostenevo che era anche per questo che si leggeva poco e male. Di recente mi ha risposto Giusi Marchetta con uno splendido saggio (Lettori si cresce, Einaudi 2015) in cui argomenta che è un bene che gli studenti vedano la letteratura come una montagna, perché la scuola deve opporsi al meccanismo della gratificazione istantanea e insegnare che i premi importanti vanno sudati.
La sua tesi mi ha convinto, eppure restavo – resto – dell’idea che le montagne siano spaventose e inospitali, e che se la letteratura viene mostrata come tale gli studenti continueranno a preferire le spiagge di Instagram e le piscine gonfiabili di Candy Crush.
Al laboratorio – facendo teoria letteraria con cartoncino e matite – ho visto un’altra possibilità. Su quella montagna ci si costruisce una casa.

Leggi sul sito del Sole 24 Ore:
https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-09-28/laboratorio-architettura-letteraria-184136.shtml

Non so come, ma sono finito nella pagina “Forse non tutti sanno che…” della Settimana Enigmistica. Un grande, grandissimo onore! Ecco il testo che accompagna questo disegno (dove il tizio con tanto di giacca, cravatta e nasone suppongo rappresenti me):

“L’architetto italiano Matteo Pericoli ha pubblicato nel 2001 un particolare libro consistente in un unico foglio ripiegato a fisarmonica e suddiviso in 24 pannelli, il quale aperto si estende per 6,7 metri e contiene la riproduzione a disegno dell’intero panorama di Manhattan.”

Se avessero chiesto a me di descrivere Manhattan Unfurled non avrei potuto fare meglio!

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