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Luglio 2024


Architetto, disegnatore e autore, nel 2010 Matteo Pericoli ha avviato un Laboratorio di architettura letteraria che invita i partecipanti a trasformare in architetture racconti e romanzi. Non si tratta di immaginare o dare forma ai luoghi e agli ambienti che la scrittura racconta, bensì di comprendere la struttura stessa del racconto e tradurla in un edificio. Un’operazione di meta-letteratura nella quale la costruzione narrativa dell’autore nelle mani del lettore acquista concretezza in forma di disegni o di modelli. Il libro stesso, che contiene dodici esempi riferiti ad altrettanti romanzi, come Cuore di Tenebra (Conrad), L’avversario (Carrère) o Gli anni di Annie Enraux, elaborati da Pericoli stesso, si presenta come una struttura architettonica, nello specifico un museo nel senso greco del termine di luogo sacro alle Muse, ideale per l’ispirazione e la contemplazione. Le architetture che nascono dal Laboratorio sono per forza di cose soggettive. Ad esempio, davanti al racconto di Amy Hempel Il raccolto, che narra per due volte un incidente stradale del quale la scrittrice stessa è vittima – ma la seconda inizia con le parole spiazzanti “ometto molte cose quando dico la verità” – due gruppi partecipanti al Laboratorio immaginano costruzioni differenti, anche se entrambe dall’aspetto ingannevole come il racconto, con spazi inaspettati, colonne che non reggono alcunché e elementi di arredo – di cemento – che sono invece le vere strutture dell’edificio. Per molti versi sorprendente, Il grande museo vivente dell’immaginazione fa nascere la voglia di provarci da soli, con un racconto amato, carta da disegno, matite colorate, cartoncino, colla e forbici.


Il grande museo vivente dell’immaginazione
Matteo Pericoli
Il Saggiatore, Milano, 2022 166 pp, 25 euro
ISBN 978-88-428-3218-8

“E se questi spazi, che qui chiameremo «architetture letterarie», fossero delle strutture narrative trasformate in strutture architettoniche? Perché allora non prendere, letteralmente, l’architettura di una storia e trasformarla in un edificio?” (M. Pericoli, Il grande museo vivente dell’immaginazione. Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria, Milano, Il Saggiatore, 2022, p. 16)

Sulla soglia

Entrando nel Grande Museo vivente dell’immaginazione avvertiamo la netta impressione che qualcuno ci prenda per mano e ci conduca lungo un percorso con piglio sicuro, ma capace – al contempo – di rispettare i nostri tempi (il nostro passo), di lasciarci muovere liberamente senza, però, perderci mai di vista. La voce che ci guida è quella di Matteo Pericoli,  architetto, disegnatore ed autore che riesce, in questo libro-museo, a coltivare una fertile terra di mezzo, quella dell’Architettura letteraria, dimensione non riconducibile ad una nuova forma di architettura o di letteratura. Il libro, infatti, è germogliato dell’esperienza più che decennale del Laboratorio di Architettura letteraria (Il laboratorio di architettura letteraria (lablitarch.com), un’esperienza di vero e proprio dissodamento di un territorio ancora inesplorato. Scorrendo la prima pagina avvertiamo uno strappo, diventiamo immediatamente lettori che, leggendo, diventano visitatori di uno spazio, immersi in una costruzione “che ha un suo funzionamento e una sua struttura”. Gioco nel gioco, Matteo Pericoli ci conduce a vivere quindi una duplice esperienza: quella di lettori/visitatori che esplorano uno spazio che ospita l’Architettura letteraria e, simultaneamente, quella di chi può sperimentare in prima persona quel che accade quando – grazie alle parole (scritte, ma, soprattutto, lette) – prende forma una struttura architettonica ispirata ad un romanzo o ad un racconto.

La borsa degli attrezzi

Entrando nel libro-edificio possiamo esplorare gli ambienti che compongono un itinerario che gradualmente introduce il lettore/visitatore all’Architettura letteraria. Tra l’ingresso del Museo e l’uscita si dipana una successione di spazi che conduce il lettore attraverso ambienti progressivamente illuminati e illuminanti: se nella prima sezione del testo (Piano Terra e Primo Piano) l’Autore presenta gli elementi teorico-strutturali dell’Architettura letteraria, nella seconda sezione (Secondo Piano), invece, trova spazio un’ampia selezione di architetture letterarie ispirate a romanzi noti o meno noti (ogni architettura viene accompagnata da un breve testo che introduce sia il romanzo in questione che il particolare sguardo interpretativo che ha dato vita proprio a quella architettura). Abbiamo a che fare, dunque, con un libro che fornisce sia la borsa degli attrezzi da utilizzare che, in seguito, alcuni esempi che il lettore potrà leggere/guardare per approssimarsi alla terra di mezzo dell’architettura letteraria.

La dimensione teorica dell’esperimento viene presentata facendo leva sulla pregressa (e attuale) esperienza del lettore che è costantemente sollecitato ad interrogarsi sull’atto della lettura, sulle sue potenzialità, su quanto può accadere a chiunque legga un racconto o un romanzo non solo visualizzando quanto legge, ma avvertendo di situarsi in uno spazio (letterario) che potrà essere tradotto in strutture formali proprio perché costituito esso stesso da elementi architettonici; Matteo Pericoli, infatti,  sostiene che l’architettura letteraria nasca quando sfumano i confini disciplinari e si comincia a percepire l’architettura come narrazione spaziale e, contemporaneamente, il testo letterario come costruzione di uno spazio:

[…] questi pensieri ci capitano quando meno ce lo aspettiamo e soprattutto quando permettiamo alla mente di muoversi libera e in silenzio, senza dare nulla per scontato, senza pregiudizi o alcun particolare obiettivo da raggiungere, e soprattutto senza quella frammentazione di cui sopra… (p.27)

La frammentazione alla quale l’Autore si riferisce riguarda sia la gelosa rivendicazione dei confini disciplinari, sia la contemporanea scomposizione dell’esperienza della lettura in specifiche abilità che vanno a ridurre/depotenziare l’impatto rivoluzionario che la lettura di un testo può provocare nel lettore.

Matteo Pericoli fa leva, quindi, da un lato sulle caratteristiche del testo letterario, dall’altro sulla potenzialità creativa della lettura; l’incontro fecondo tra lettore e testo letterario può dunque aprire la possibilità dell’architettura letteraria come dimensione altra, come realtà mediana, costantemente sospesa tra la parola e l’immagine, una realtà che permette di insinuarsi “tra le parole scritte e sentire con tutto il corpo che dall’altra parte c’è una specie di universo parallelo, un immenso spazio, tutto vostro, dove le storie, le strutture delle storie, le architetture dei romanzi e delle poesie, non sono solo metafore o teorie astratte, ma vere e proprie costruzioni realizzate meticolosamente parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo”.(p. 85)

Il gioco è fatto

La seconda sezione del Libro-Museo – quella dedicata alle dodici architetture letterarie presentate nel grande Salone e scandita dal ritmo binario dato dalle brevi presentazioni dei romanzi e dalle immagini delle architetture letterarie sollecitate dalla lettura di quei testi – permette al lettore di sperimentare direttamente l’effetto straniante provocato alla traduzione di romanzi in forme che si articolano nello spazio: Ernaux, Faulkner, Fenoglio, Tanizaki sono solo alcuni degli scrittori convocati. Qui il lettore sperimenta quanto Matteo Pericoli sostiene fin dall’inizio del suo percorso, ossia che l’architettura è esperienza universale, che esula dal sapere specialistico perché tutti, da sempre, facciamo esperienza delle spazio, lo attraversiamo, lo viviamo, così come tutti – pur non essendo letterati, critici letterari, pur non governando una sapere specifico – siamo lettori che possono scoprire una nuova dimensione della lettura.

Un solo, breve, esempio che può permetterci di intuire alcune delle dinamiche sopra delineate: ci troviamo nel grande Salone e, passeggiando, ci imbattiamo all’improvviso nella struttura – una delle infinite possibilità – che corrisponde al Barone Rampante di Italo Calvino: “La ribellione non si misura a metri. Anche quando pare di poche spanne, un viaggio può restare senza ritorno”; qualcuno ricorderà la celebre replica del Barone di Rondò al figlio Cosimo. Il Rampante, però, mette in atto la sua ribellione (“E io non scenderò più!”) e pone una distanza – poche spanne, ma sono un’intercapedine incolmabile – che sembra essere il cuore pulsante della vicenda.

 Così Matteo Pericoli presenta l’architettura ispirata al Barone:

Laddove la base dell’intero edificio è fatta di muro spesso e portante, il suo sviluppo in altezza si trasforma in vuoto: un’intercapedine che separa due blocchi identici, fatti di vetro e pietra, che si compenetrano senza toccarsi. (…). Visto dall’alto, da una mongolfiera, l’edificio è compatto ed esatto. L’intercapedine, da quassù ben evidente, è lineare solo nella sua parte centrale, mentre agli estremi sembra procedere per tentativi, non certa della direzione da prendere.” (p.97)

Che il lettore sia un fedele amico del Barone o che disgraziatamente non lo abbia ancora incontrato, l’architettura letteraria che si troverà davanti riuscirà a rendere tangibile uno degli aspetti strutturali del romanzo di Italo Calvino e, allora, risulterà difficile resistere al desiderio di rituffarsi nel mondo frondoso di Cosimo o di correre a scoprirlo per la prima volta.

N.B. Si ringrazia Matteo Pericoli per aver concesso e autorizzato l’uso delle immagini del suo libro.

https://laletteraturaenoi.it/2024/05/24/un-libro-edificio-il-museo-di-architettura-letteraria/


Maggio 2024


di Matteo Pericoli

Ricordo ancora nitidamente la sensazione di smarrimento che provai quando, ormai vent’anni fa, mi trovai di fronte alla mia finestra sull’Upper West Side di Manhattan per quella che sarebbe stata una delle ultime volte nella mia vita. Avevo vissuto in quell’appartamento con mia moglie per sette anni ed era arrivato il momento di traslocare. Con gli scatoloni ormai pronti, ecco improvvisamente davanti a me un’altra ‘cosa’ che ci stavamo quasi dimenticando di portare via con noi: la finestra della nostra-camera-da-letto-mio-studio e, incollata ad essa, la vista di una serie di cortili, tetti, comignoli, torri dell’acqua e, in fondo, la punta di Riverside Church che mi avevano fatto compagnia per così tanto tempo.

Pensai di smontare la finestra dal muro e portare con noi sia lei sia la vista. Impossibile. Controllai attentamente per vedere se si potesse scollare dalla finestra un’ipotetica patina di plastica trasparente che avesse miracolosamente trattenuto le immagini sia dell’infisso sia della vista. Impossibile. Provai allora a fotografare il tutto, ma ciò che andavo cercando si rivelò molto più sfuggente di quanto pensassi: le foto sembravano infatti mostrare o il serramento o il paesaggio urbano al di là della finestra e non entrambi. Il problema poteva essere la mia macchina fotografica, oppure la mia mano, oppure più semplicemente la mia inesperienza con la fotografia.

Decisi così di prendere un grosso rotolo di carta da pacchi e disegnarci sopra, in fretta e furia, la finestra quasi in scala 1:1. Fu così che, con mia enorme sorpresa, notai la grande quantità di dettagli che mi erano sfuggiti. «Ma come è possibile?» mi domandai, «questo è il paesaggio urbano di Manhattan che mi è più familiare di ogni altro. Sono stato seduto di fianco a questa finestra per sette anni, mi sono voltato per guardare fuori un numero smisurato di ore e solo adesso noto tutti questi dettagli.» Decisi allora di esplorare più a fondo, usando il disegno, lo strano rapporto di interdipendenza che abbiamo con questo oggetto-non-oggetto architettonico. Spesso si tratta di un forte legame, quasi affetto, a volte c’è invece distacco o addirittura fastidio.

Chiesi a una moltitudine di persone di mostrarmi le loro finestre, di permettermi di disegnarle, di raccontarmele e dirmi della relazione che avevano con questo buco nel muro. Capii che per soddisfare l’irresistibile desiderio che avevo di raccontare la città dove vivevo allora, New York, avrei dovuto osservarla dallo sguardo più intimo di tutti: quello di chi la guarda (attivamente o passivamente) dalla propria finestra. Da allora disegno finestre. Ne ho designate centinaia. Finestre che si affacciano su città, finestre che si affacciano sulla natura, sul mare, su prati, su boschi.

Finestre che ci mostrano il presente, che si affacciano verso il passato, quel passato che, con le sue concatenazioni, ci ha portati in quel preciso punto nel tempo e nello spazio. Sebbene i disegni mostrino sempre lo stesso soggetto — il tangibile (l’infisso) che inquadra l’intangibile (la vista) — la mia attenzione si è andata via via spostando dal fuori al dentro, da ciò che è visto al come e al perché vediamo.

Disegno dopo disegno, il vetro si è trasformato pian piano in uno specchio nel quale, a ogni sguardo, finiamo per vederci riflessi noi e i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre speranze; il passato che si mescola al presente. Tra tutti gli elementi costruttivi, costitutivi e compositivi in architettura, la finestra è indubbiamente quello con il più grande potenziale narrativo.

Finestre sull’altrove è sul Washington Post

14 dicembre 2023

“Il viaggio interiore di un rifugiato non finisce mai. Una finestra nella sua nuova nazione offre uno sguardo sia verso un presente oggettivo sia verso un ricordo immateriale.”

Clicca qui per leggere l’articolo, con i disegni delle viste delle finestre e i testi dei rifugiati:
https://www.washingtonpost.com/opinions/2023/12/14/refugees-windows-art-exile/

Il grande museo vivente dell’immaginazione scritto da Matteo Pericoli ci accompagna nell’esplorazione delle architetture letterarie

di Mario Gerosa

Ogni architettura conserva in sé una storia, racconta qualcosa che sfugge all’evidente idea di funzionalità. Certo, ogni casa, edificio, palazzo o castello prima di tutto assolve alle esigenze abitative di chi ci deve vivere, e nella maggior parte dei casi risponde anche a precisi canoni tipologici. Infine rimanda alle proporzioni legate alle dimensioni dell’uomo, normate dal disegno dell’uomo leonardesco come dal Modulor di Le Corbusier.

Ma ci sono anche architetture immateriali che compongono un poliedrico universo a parte, e c’è anche una voce interiore dell’architettura, sia essa letteraria o costruita in calce e mattoni, che rimanda a una narrazione, spesso sviluppata sulla base delle sedimentazioni e delle stratificazioni delle emozioni provate dai visitatori che vi si sono succeduti.

Ha fatto emergere tutti questi concetti Matteo Pericoli, architetto e disegnatore, che nel 2010 ha fondato il Laboratorio di architettura letteraria (www.lablitarch.com), “un’esplorazione multidisciplinare della narrativa e dello spazio”, un punto di riferimento importante e autorevole per gli studi in quest’ambito presentato in numerose conferenze e workshop in tutto il mondo.

Pericoli ha sistematizzato tutta una serie di pensieri e ragionamenti legati a una visione trasversale dell’arte del costruire ne Il grande museo vivente dell’immaginazione (Il Saggiatore).

Il libro è strutturato come una visita guidata all’interno di una macro-architettura composta da molte costruzioni, a definire un ideale gigantesco complesso. Come se ci trovasse in uno spazio fisico, la trattazione procede attraverso una serie di ambienti in cui il lettore può sentirsi a proprio agio, riconoscendo una sequenza familiare: il museo di architettura letteraria concepito sulla carta da Pericoli comprende tre piani, con un ingresso, cinque sale, un salone e un cortile. Nei primi due piani il ragionamento sugli spazi prende in esame molte architetture del mondo reale, dal Pantheon al Guggenheim Museum, dal Partenone a Villa Savoye, intrecciando e intersecando considerazioni legate anche ad esempi dell’architettura letteraria. Da un confronto che si fa sempre più serrato e avvincente, emergono assonanze e affinità tra l’architettura scritta e quella costruita.

Un passo verso l’oltre

In un altro capitolo, quello del Secondo piano, ci si sposta nel territorio delle architetture letterarie, con singoli esempi dedicati alle invenzioni architettoniche di dodici grandi autori, da Calvino a Dürrenmatt, passando per Vonnegut. Più ci si addentra nella lettura, più sfumano i confini tra i due tipi di architetture, quella costruita, che per comodità, con un termine improprio, si può chiamare “architettura vera” e l’altra, quella letteraria.

L’“architettura vera” è una curiosa espressione, nota Pericoli. “Come se ce ne fosse una “non vera”, e quindi “falsa”? “finta”? “non reale”? “intangibile”?. In fondo l’architettura sta alla costruzione come la scrittura sta alla dattilografia, o all’atto dello scrivere. L’architetto non “serve” per costruire (lo possono e lo fanno in tanti), come lo scrittore o la scrittrice non “servono” per il comporre frasi, parole, testi. C’è quindi forse l’idea —, molto condivisa e forse anche legittima — che da un lato ci sia l’“architettura letteraria”, immateriale, intangibile, forse solo il risultato di un impegno mentale o intellettuale, e dall’altro c’è l’“architettura vera”, ovvero quella costruita, tangibile, ferma, fissa, oggettiva. E che le due cose siano divise, separate. Ecco, io credo invece fortemente che, una volta che ci si abbandona all’idea che una storia è come una casa, una casa da esplorare, da abitare, dalle cui finestre vedere un mondo cambiato, che cambia, come cambiamo noi, ad ogni nuova visita e che quindi è un qualcosa di “reale”, quanto è reale il nostro esperire l’architettura, lo spazio, il movimento, le proporzioni, i cambi di livello, le salite, le discese, le aperture, il buio, la chiarezza, e così via, allora siamo pronti a leggere come la narrazione impregni tutto, sia dappertutto, e sia parte fondante dello spazio architettonico che noi leggiamo e percepiamo quotidianamente, esattamente come immagazziniamo nella mente il funzionamento di una storia o di un testo letterario in generale. Qui dobbiamo fare attenzione al fraintendimento principale: non come percepiamo e leggiamo, e quindi immaginiamo, ciò che una storia ci descrive (i suoi ambienti, i luoghi, i paesaggi, i suoi personaggi, come sono vestiti, ecc.), ma come impariamo a muoverci all’interno di quella costruzione che è il prodotto di come la storia è stata costruita (secondo noi e le nostre inclinazioni) — quindi i suoi materiali, la sua sintassi, la sua voce, la grammatica, il contesto culturale, i riferimenti su cui poggia, e così via. L’architettura letteraria ci può dare quel senso di fiducia nello scoprire con disinvoltura, e magari piacere, il racconto degli spazi architettonici, come si concatenano, come si rivelano a noi — a noi in relazione alla nostra inclinazione e alla nostra lettura — e non (o non solo) la storia di come sono venute a esistere le architetture”.

Tutti questi concetti emergono nel libro, pensato come un’avvincente promenade architetturale tra diversi tipi di costruzioni. Ma quali sono le architetture letterarie che hanno colpito maggiormente l’immaginario di Matteo Pericoli?

Ho visitato un numero enorme di architetture letterarie, edifici costruiti sia dopo aver letto io i testi, e averli quindi “progettati” nella mia mente, sia dopo le letture e progettazioni fatte da altri. Quelle che mi hanno colpito di più sono forse quelle che nascondono delle intuizioni e idee la cui forma non poteva che essere espressa in quel modo, cioè attraverso l’architettura, e non con l’uso delle parole. La bellezza di questo approccio, metodo, o visione che dir si voglia (del Laboratorio di architettura letteraria), è che una volta che ci si trova dall’“altra parte”, la parte al di là delle parole, nel luogo in cui il testo è una serie di forme e spazi architettonici, quindi privo di parole, da manipolare ed esplorare con libertà e disinvoltura, si ha accesso a quello stadio, che di solito non dura che un istante, nel quale le nostre idee hanno una forma prima di avere un contenuto.

Mi viene in mente un progetto di un gruppo di studenti liceali. Stavano lavorando al racconto di Ernest Hemingway Colline come elefanti bianchi e per loro l’elemento cruciale, il fulcro attorno al quale si arrovellavano la storia, il testo, i protagonisti e la loro lettura era il peso della decisione se lei farà o non farà un intervento, una “piccola operazione”, di cui i due protagonisti discutono con fervore senza descriverne i dettagli. L’architettura di questo gruppo di ragazz* è una piazza a un livello inferiore della città, dove siamo spinti a scendere (siamo attratti dal vuoto) e su cui grava, sospeso, un enorme cubo nero, il peso della decisione, a una quota e a una posizione tale che provoca un senso sia di disagio sia di curiosità. L’idea dei due protagonisti non è presente nel progetto, e già questo mi parve bello e forte. Ma la cosa che mi colpì di più, per chiarezza, forza, eleganza e sofisticatezza di pensiero, era che i tiranti che tengono quel cubo in sospensione, tiranti di lunghezze diverse l’una dall’altra per via della posizione decentrata e asimmetrica del volume rispetto al tutto, lavorano (letteralmente lavorano) in modo diverso, alcuni sono più tesi e sottoposti a maggior tensione, altri meno. Quelle diverse tensioni rappresentano i vari momenti di tensione nel dialogo tra i due protagonisti che decisamente non funziona”.

Nel libro appare evidente che nelle architetture letterarie c’è sempre uno spiccato senso del racconto. Viene spontaneo chiedersi se questa dimensione narrativa si ritrovi anche nelle architetture costruite.

Come ogni storia che, dal momento in cui abbandona la penna o il tavolo di chi l’ha scritta e viene lasciata andare, deve necessariamente avere una sua struttura architettonica, così ogni architettura è necessariamente impregnata di narrazione. Che ciò accada in modo consapevole o inconsapevole è irrilevante. C’è chi scrive con una forte propensione verso la progettazione architettonica del testo che sta costruendo, e c’è chi scrive lasciandosi invece guidare dal proprio istinto o mosso da chissà quali altre “forze”. Ma, alla fine, il prodotto è una struttura che dovrà bene o male “stare in piedi” per essere letta. Ribaltando la situazione, gran parte delle decisioni che gli architetti prendono, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, sono assimilabili a quelle che deve prendere chi scrive: come concatenare in modo sensato gli spazi? Come rivelare lo spazio principale? Come utilizzare la chiarezza data dalla luce? Come creare sorprese o aspettative? Come rendere evidente o nascondere la struttura che sorregge il tutto? Come utilizzare, se si vuole, riferimenti linguistici legati al passato? (E a quale passato?). Che forma, e quindi voce, dare al tutto?”.

Resta ancora da capire in quali architetture costruite sia più rilevante la componente narrativa.

In tutte”, afferma Pericoli. “In architettura, la “componente narrativa” è inestricabile da una qualsiasi decisione compositiva. Nel libro-museo, al Primo piano, nella Sala 3, dico: «le scelte che si fanno durante la composizione di strutture architettoniche sono qualitativamente molto simili a quelle che fa chi sta narrando una storia.»

E poi parte questo lungo elenco di (auto)domande e risposte:

«Per esempio: porre un ingresso di lato invece che al centro è una scelta narrativa, no? Sì, perché entrando nello “spazio narrativo” di lato lo percepiamo diversamente, cambia la prospettiva. Ma allora anche alzare o ingrandire una finestra è una scelta narrativa? Sì, perché in qualche modo modifichiamo il rapporto che esiste tra interno ed esterno, come anche la quantità di informazioni che possono essere “lette”. E far passare il visitatore da una stanza quadrata a una rettangolare è una scelta narrativa? Certo, perché chi cammina percepirà o un’espansione o una contrazione dello spazio (a seconda dell’orientamento del rettangolo). E decidere se arretrare o meno il fronte di un edificio rispetto alla strada dove si affaccia è una scelta narrativa? Be’, sì, perché è come se venisse esplicitata la relazione con cui quell’edificio (poi dipende da che edificio sia: una casa, una chiesa, una banca, un museo, un grattacielo) si pone nei confronti del contesto, come e quanto questa relazione la si vuole evidenziare. E la decisione se incorporare o meno un grande albero nella struttura di un edificio? È una scelta narrativa molto forte, racconta in modo chiaro quale si crede debba essere il rapporto tra manufatto e natura. E l’altezza di un muro che divide due ambienti comunicanti è una scelta narrativa? Sì, perché́ l’altezza avrà un effetto diretto su ciò che si potrà leggere o intravedere o immaginare dell’altro ambiente; in più, è un modo chiaro di dirci se si intende far percepire come concatenati o divisi i due ambienti. E l’arretrare un ingresso per far spazio a un portico? Lo si vede al piano terra nella Stanza 1 con il Pantheon; è come arretrare o posporre un inizio, una sorta di introduzione. E illuminare in modo soffuso e decidere se farlo con luce diretta o indiretta sono scelte narrative? La luce, altro materiale tra i tanti stratagemmi narrativi a disposizione di un architetto, proietta chiarezza o può illudere per eccesso o per difetto; è direttamente legata alla chiarezza espositiva. E la ripetizione di elementi strutturali pressoché uguali (come il mio ripetere “è una scelta narrativa”) in mezzo al progredire di una serie di volumi che variano è una scelta narrativa? Certo, se usata con cautela è una sorta di anafora architettonica

https://www.wired.it/article/architettura-letteraria-matteo-pericoli-libro-il-grande-museo-vivente-dell-immaginazione/

Ha conquistato i newyorkesi (e poi il mondo) con i suoi disegni di Manhattan, poi è tornato in Italia, a Torino, dove si occupa di architetture, di storie, e delle loro relazioni. Lo abbiamo incontrato.

di Manuel Orazi

In molti si sono riferiti alla letteratura con la metafora dell’architettura, soprattutto per dare forma alla struttura di un romanzo. In pochi invece hanno fatto l’operazione inversa, immaginando cioè l’architettura come una struttura narrativa. È questa l’originale chiave di lettura di Matteo Pericoli che, abbandonata l’architettura come professione, ci è poi tornato alla rovescia o come si dice in inglese, inside out.

Laureatosi al Politecnico di Milano con Wolfgang Frankl – storico collaboratore di Mario Ridolfi – poco prima della sua scomparsa, è andato a lavorare a New York per Peter Eisenman, una breve parentesi, e quindi da Richard Meier. Nella Grande Mela fra il 1995 e il 2008 è avvenuta la sua metamorfosi, il passaggio cioè da architetto a illustratore, conquistando la città che non dorme mai che ha disegnato per intero prima dall’esterno, e poi dall’interno (in Manhattan svelata e Il cuore di Manhattan).

Se l’architettura di un romanzo fosse davvero un edificio – avesse cioè una struttura fisica, tangibile, fatta non solo di parole, che forma avrebbe?

Annie Ernaux, Gli anni

Paul Goldberger, allora critico del New Yorker, scrisse che Pericoli aveva conquistato i newyorchesi perché è stato il primo a osare di raccogliere in un unico rotolo tutto il profilo urbano dell’isola, disegnando cioè Manhattan come fosse Ascoli Piceno. Dopo tanti anni e molte altre avventure letterarie che lo hanno portato a collaborare con i più grandi quotidiani internazionali, Pericoli è tornato in Italia, ma non nelle Marche delle sue origini familiari, bensì a Torino.

Elena Ferrante, L’amica geniale

Qui ha trovato la Scuola Holden, dove ha proposto un modo completamente nuovo di pensare la letteratura: “le storie hanno bisogno di essere attraversate mentalmente prima ancora di essere scritte”. Quindi le storie sono dei passaggi, delle porte? “Non proprio, una storia non è una strada da percorrere… è più come una casa. Come ha spiegato il premio Nobel Alice Munro, in una storia ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo come le camere stiano in rapporto col corridoio, come il mondo esterno venga alterato se lo guardi da queste finestre. E anche tu, il visitatore, il lettore, sei alterato dall’essere in questo spazio chiuso, ampio e facile o pieno di svolte e angoli, pieno oppure vuoto di arredamento”.

Quindi ci si può anche tornare, “certo, la casa, la storia, offre sempre di più di quando l’hai vista l’ultima volta. Ha una sua vita autonoma, percepisci che non è stata costruita/scritta solo per fare da riparo o per intrattenerti”. Il risultato è una collezione di disegni curiosi, ora raccolti in un libro,, Il grande museo dell’immaginazione, che è forse il suo più ambizioso, a coronamento di questa sua seconda vita italiana. Di certo è il più teorico. 

Kurt Vonnegut, Mattatoio N. 5

Il candore intellettuale di Pericoli rimanda al Gianni Rodari di Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, pubblicato cinquant’anni or sono, l’unico testo teorico dello scrittore piemontese e perciò particolarmente significativo. Scriveva Rodari nella quarta del 1973 “Insisto nel dire che, sebbene il Romanticismo l’abbia circondato di mistero e gli abbia creato attorno una specie di culto, il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti”.

Analogamente Pericoli propone a tutti questo esercizio, cercando di sciogliere alcuni grandi interrogativi astratti senza mai voler apparire come un filosofo o un critico, piuttosto suggerendo soluzioni pratiche, alla portata di chiunque. Per esempio ponendo la domanda: se l’architettura di un romanzo fosse davvero un edificio – avesse cioè una struttura fisica, tangibile, fatta non solo di parole, che forma avrebbe?

È una domanda cui l’autore cerca di rispondere da oltre un decennio insieme ai suoi studenti del Laboratorio di architettura letteraria nato alla Scuola Holden e poi trasmigrato in altre università, “La ricezione crea interpretazioni che si traducono in forme, completamente diverse a seconda dello studente che vi si applica, non ce ne sono mai due uguali”. Le strutture disegnate, spesso bizzarre, sottolineano un fatto fondamentale: la lettura di un testo è tanto creativa (se non di più) della sua scrittura, “le scelte che si fanno durante la composizione di strutture architettoniche sono qualitativamente molto simili a quelle che fa chi sta narrando una storia… Ha più il sapore di una collaborazione tra due fonti attive che di una trasmissione > ricezione monodirezionale”.

https://www.domusweb.it/it/architettura/2023/05/23/architetture-letterarie-il-grande-museo-dellimmaginazione-di-matteo-pericoli-.html

Il saggio di Matteo Pericoli

Architetto, disegnatore e autore, nel suo nuovo libro l’autore propone una vera e propria guida all’esplorazione dell’architettura letteraria

di Lara Crinò

Che l’atto del narrare sia assimilabile, metaforicamente, a quello del progettare un palazzo, un quartiere, financo una città, è qualcosa che tutti sappiamo. Lo sappiamo per averlo esperito, da scrittori dilettanti o professionisti fin da piccoli: non ci viene forse consigliato, quando ci accingiamo a mettere su carta i nostri pensieri, proprio con un’espressione che arriva dall’architettura “fai la scaletta”, come se scrivere fosse mettere pioli per salire più alto? Lo sappiamo, anche, per averlo studiato. Di cosa parlano la teoria letteraria e la semiotica, se non di come si “costruisce”, di nuovo una metafora per così dire edile, il testo?

Nel suo nuovo libro Il grande museo vivente dell’immaginazione (il Saggiatore) Matteo Pericoli, architetto, disegnatore e autore, fa però un passo avanti proponendo, come recita il sottotitolo, una vera e propria Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria.

Scaturito dall’esperienza di un laboratorio con un gruppo di studenti di scrittura creativa della scuola Holden di Torino, questo saggio è un vero esperimento, a partire dal formato. Nelle prime pagine si propone infatti al lettore di affrontare la lettura come se si esplorasse un museo, con tanto di mappa, muovendosi da un «piano terra», che serve a introdurre i propositi del libro, fino a un «primo piano» e a un «secondo piano» in cui questi propositi si squadernano e vengono poi applicati a una serie di opere letterarie. La tesi di fondo proposta da Matteo Pericoli è questa: poiché quando leggiamo siamo sempre, più o meno consapevolmente, visitatori di uno spazio immaginario, allora è possibile attribuire alla nostra impressione di un certo testo una certa forma. Se possiamo esplorarne con la mente le varie parti, allora siamo in grado non solo di descriverle verbalmente ma di creare degli spazi, dei vuoti e dei pieni, che siano l’equivalente architettonico della storia che stiamo leggendo.

Non si tratta più di limitarsi a visualizzare degli scenari: anzi, chiarisce subito Pericoli, non gli interessano «le cosiddette location» di un romanzo, perché «concentrarsi su di loro, significa, in generale, perdere un’occasione». Ciò che l’autore propone è qualcosa di diverso: elaborare un’architettura che rifletta la struttura del testo. Come si fa? Per scoprirlo, bisogna salire prima di tutto fino al primo piano di questo libro museo, dove, con una carrellata storica, Matteo Pericoli spiega come ogni architettura, dalla capanna primitiva al Partenone, dalla cupola di Brunelleschi alla Villa Savoye di Le Corbusier, sia già di per sé un racconto che va interpretato.

Poi, continuando fino al secondo piano, si possono esplorare dodici interpretazioni di architetture letterarie: dodici opere che vengono trasformate in edifici. Il catalogo è variegato e interessante, tanto che a ogni buon lettore verrà voglia di leggere o rileggere i testi di cui si parla: da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad a L’amica geniale di Elena Ferrante, da Il giudice e il suo boia di Friedrich Dürrenmatt a Gli anni di Annie Ernaux, ciascun’opera viene disegnata come se fosse un’installazione o un edificio. C’è anche Italo Calvino, con il suo Il barone rampante.

Sono progetti suggestivi, giochi mentali, palazzi e città ideali che si sovrappongono a quelli reali in cui viviamo e ci muoviamo. Se il gioco vi piace, è questo il messaggio, potete andare avanti da soli, accumulando nuove architetture letterarie. E scoprirete che i libri che amate sono cattedrali, umili cortili, o città invisibili. Forse, i luoghi in cui vi sentirete più a casa.

https://www.repubblica.it/cultura/2023/04/15/news/matteo_pericoli_saggio_museo_vivente_immaginazione-396194958/

La Stampa Torino, 20 marzo 2023

L’artista è tra i protagonisti dell’Hypercritic Poethon alla Scuola Holden

di Diego Molino

«Torino è inconsapevolmente bella. Non sa di esserlo ma questa è la sua forza». È così che definisce la città Matteo Pericoli, architetto, disegnato­re, insegnante e autore. Sarà fra gli ospiti che per una setti­mana, da domani al 27 marzo, parteciperà alla maratona di poesie Hypercritic Poethon (ci saranno anche Margherita Og­gero, Enrica Baricco, Serena Dandini, Igiaba Scego, Marti­no Gozzi, Ilaria Gaspari, Mau­rizio Gancitano, gipeto, Guido Catalano, Andrea Tarabbia, Alessandro Burbank, Yoko Ya­mada, Sara Benedetti, Andrea Tomaselli, Daniele De Cicco, Giorgia Cerruti, Silvia Cannar­sa, Luca Gamberini, Emiliano Poddi). Un viaggio che trarrà ispirazione dai luoghi in cui verranno letti i componimenti di diversi autori: musei, giardi­ni, case di ringhiera e vecchi tram, grazie alla collaborazio­ne con Gtt e Associazione Tori­nese Tram Storici. Tutti appun­tamenti a ingresso libero fino a esaurimento posti, per cui si consiglia la prenotazione su Eventbrite nella sezione dedicata all’evento. Pericoli è pro­tagonista venerdì alle 18,45 al­la Scuola Holden con L’archi­tettura della poesia.

Cosa hanno in comune archi­tettura e poesia?

«La poesia non è altro che ma­nifattura e per saperlo basta guardare alla sua etimologia, poièo in greco antico signifi­ca fare, creare, costruire. La poesia è l’atto più forte e co­struttivo che esista, vuol dire mettere le parole in una se­quenza, una dopo l’altra. L’ar­chitettura a sua volta è model­lazione dello spazio, ha a che fare con relazioni, spazi, vuo­ti e ombre, tutte cose in comu­ne con la poesia».

Quindi si può dire che siano la stessa cosa?

«Esiste una zona in cui tutte le decisioni, le idee compositive non prendono ancora la forma di una disciplina specifica. È il potenziale creativo a cui appar­tengono architettura, poesia, musica e scrittura. Solo succes­sivamente ciascuno può dare a queste idee e intuizioni una forma ben definita».

Parliamo dell’architettura delle città. Come è possibile scovarne l’anima poetica?

«All’inizio pensavo che le città fossero agglomerati di edifici costruiti molto vicini gli uni agli altri, e che questo fosse esclusivamente per una ragio­ne di utilità. La poesia la trovai per la prima volta vivendo a New York, è stato un po’ come quando ci si innamora di una persona, succede ma non rie­sci a spiegare perché».

A Torino ha trovato la poesia che andava cercando?

«Quando arrivai a Torino trovai un’inaspettata e incredibi­le energia e spirito. In un cer­to senso il luogo più simile a New York è Porta Palazzo: si trova nel centro della città, vicino a edifici istituzionali im­portanti e aulici, eppure c’è una mescolanza di vita estre­mamente vera, intensa e que­sto mi rassicura. Porta Palaz­zo è uno di quei luoghi che esi­stono senza avere il bisogno di raccontarsi, perché comunicano tanto già così come so­no, proprio come New York».

E qual è il suo segreto?

«Non essere consapevole di se stessa, questo è l’unico modo in cui si manifesta la poesia, altrimenti si perderebbe. Viene detto anche nel film Il postino quando Mario (Massimo Troi­si) e Pablo Neruda (Philippe Noiret) sono seduti in riva al mare e Mario gli ha appena detto di essersi sentito “come una barca sbattuta dalle vo­stre parole”. Neruda dice a Mario che così ha appena crea­to una metafora. “No!” rispon­de Mario arrossendo, “Ma veramente?”. E poi aggiunge: “Vabbè, però non vale perché non la volevo fare”. “Volere non è importante” gli dice Ne­ruda, “le immagini nascono casuali”. Ecco cosa vuol dire essere inconsapevoli».

Ci sono altri luoghi che le ispi­rano lo stesso sentimento a Torino?

«Le passeggiate lungo il Po na­scondono un’idea della città inusuale, sembra di essere in campagna ma sei in pieno cen­tro. È una fetta di natura che si insinua dentro la città, questo è molto poetico, permette stra­ne intersezioni nella testa. A Torino spesso la poesia è na­scosta dentro cose che non ti aspetti di trovare in una città medio-grande».

Le trasformazioni urbane ri­schiano di far perdere quella poesia?

«È sbagliato pensare che una città debba essere sempre la stessa, è come dire che un bambino non deve crescere mai. La poesia sta nel saper guardare e indirizzare quella crescita, del resto le città sono organismi viventi.»

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Il venerdì di Repubblica
17 febbraio 2023
di Arianna Passeri

Molto spesso, durante la lettura, si incontrano espressioni del tipo «lo spazio della narrazione», «le fondamenta di una storia». O magari di un libro la cui «trama non sta in piedi». Quelle che sembrano semplici locuzioni metaforiche sono da intendersi, in realtà, come spie rivelatrici di un legame a doppio filo tra il mondo della progettazione e quello della letteratura.
L’architetto e autore Matteo Pericoli parte da questo assunto per ideare un interessante esercizio creativo: «Se l’architettura di un romanzo fosse davvero un edificio — cioè avesse una struttura fisica, non fatta soltanto di parole — che forma avrebbe?».
Ecco allora che Cuore di tenebra diviene una piramide tronca rovesciata, il cui vertice è a metri di profondità nel terreno, e L’amica geniale si sdoppia in due palazzi che si sostengono e respingono a vicenda.
E diversi ancora sono gli esempi. Quasi per magia, anche il lettore può così “visitare” Il grande museo vivente dell’immaginazione (Il Saggiatore, 166 pagine, 25 euro), e scoprire i segreti dietro la costruzione di un testo (e di un edificio).

L’Indice dei libri del mese

recensione di Francesco Gallo

Matteo Pericoli
Il grande museo vivente dell’immaginazione
Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria
168 pp, 25 €
Il Saggiatore, Milano 2022

30 gennaio 2023

Chissà dove avrebbe collocato un libro come questo, Italo Calvino: tra i Libri Che Mancano Per Affiancarli Ad Altri Sullo Scaffale, oppure le Novità Il Cui Autore O Argomento Ci Attraggono? Ci piace pensare che l’autore di Se una notte d’inverno un viaggiatore avrebbe messo Il grande museo vivente dell’immaginazione tra i Libri Che Ispirano Una Curiosità Improvvisa, Frenetica E Non Chiaramente Giustificabile.

Più che un libro, infatti, è una guida; una Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria. Ci stanno le Mappe (Piano terra, Primo e Secondo piano), la Legenda degli spazi (Ingresso, Sala 1 e 2 e Cortile interno). E c’è una guida, ovvio: l’autore stesso – che parla con una voce che non è la sua, bensì la nostra (ma questo lo capiremo leggendo…). Una guida che, invece di scortarci lungo una serie di passaggi obbligati, come prima cosa desidera farci sentire liberi; liberi di andare dove ci pare, osservare quel che ci pare, e, soprattutto, immaginare quel che ci pare. Fa presto a ribadire, infatti, che “museo” deriva da “mūseóon”, ovvero il luogo sacro alle figlie di Zeus dove si poteva contemplare e immaginare in piena autonomia.

Ma cos’è l’architettura letteraria? È una scoperta continua. Non solo: un tentativo di accrescere la nostra consapevolezza quando ci rapportiamo con gli spazi (e con il vuoto). Ancora: una serie di laboratori didattici che, negli ultimi dodici anni, l’architetto, disegnatore e autore Matteo Pericoli ha tenuto in giro per il mondo; da Torino (dove tutto ha avuto inizio) a New York, passando per Dubai.

Suggestionato dalla scoperta di un lessico comune tanto all’architettura quando alla letteratura – quante volte abbiamo sentito dire, a proposito di una storia dotata di nessi logici incerti, che “manca di struttura”, “traballa” o “non sta in piedi”? –, Pericoli ha percorso la storia dell’architettura come tentativo di narrazione; dapprima semplice, poi sempre più complesso.

Cos’è lo slancio che unisce la prima capanna – quando l’idea di base era quella di un “tetto-sopra-la-testa-così-non-mi-bagno” – alla prima “casa-con-finestra” – un “elemento architettonico che mette in relazione ciò che è tangibile (la cornice stessa) con l’intangibile (la vista, l’esterno) e quindi il reale con l’immaginario, il quotidiano con l’assoluto” – se non uno slancio narrativo, l’incipit di una vicenda destinata irrimediabilmente a complicarsi?
Scrive Alice Munro: “Una storia non è come una strada da seguire […], è più come una casa. Entri e ci rimani per un po’, la percorri in lungo e in largo e ti metti dove vuoi e scopri il legame tra le stanze e il corridoio, e come il mondo visto da queste finestre appaia diverso.”

Sfrondando l’architettura dai suoi elementi meno rilevanti – lo stile, il nome di chi ha ideato un certo progetto, il suo valore storico –, Pericoli ci mostra il punto dove si annida l’essenziale; quello che “non si può né toccare (lo spazio) né leggere (l’architettura di una storia)”. Eliminando le pareti, i soffitti, le finestre, eccetera, togliendo l’involucro, insomma, cosa resta se non un vuoto, il vuoto? E accantonando le parole, le frasi, la punteggiatura e i paragrafi della scrittura di una storia, cosa resta se non un’essenza che “può essere solamente intuita e dedotta”, come quando ci confrontiamo con la voce fantasmatica di Kurtz nel Cuore di tenebra di Conrad, oppure proviamo a intuire l’argomento del dialogo tra la ragazza e l’americano in Colline come elefanti bianchi di Hemingway.

Approfondite queste riflessioni da un punto di vista teorico – la Sala 3 contiene una illuminante lezione di scrittura creativa; la Sala 4 ribadisce l’importanza della lettura quale attività generatrice di meraviglia –, Pericoli, con la lucidità e il garbo che lo caratterizzano, ci invita a fare un giro nel Salone dove è possibile visionare ben dodici interpretazioni di architetture letterarie. Poi, un attimo prima del bookshop (immancabile: come in ogni museo), ci fornisce le istruzioni per realizzare la nostra architettura letteraria così da esporla nel nostro, personalissimo museo vivente dell’immaginazione. (E ci ricorda, anche, che in architettura ha poco senso distinguere tra persone “esperte” e “non esperte”, dal momento in cui facciamo tutti esperienza del nostro rapporto con lo spazio.) L’unica regola di questo gioco – ché non esistono giochi senza regole – è di mantenere sempre un approccio letterario, mai letterale. Cosa ce ne facciamo del modellino di un faro, se quello che ci emoziona, in realtà, è la fitta rete di rapporti che regola le dinamiche comportamentali della famiglia Ramsay durante una celebre gita sull’Isola di Skye? Perché non provare, quindi? Tra una riflessione e l’altra, riusciremo magari a liberarci “dall’inevitabile peso dato dai preconcetti e preclusioni a causa di giudizi e interpretazioni altrui”, e scopriremo qualcosa di nuovo sul rapporto misterioso che lega l’architettura e la letteratura. E, perché no, su noi stessi.

https://www.lindiceonline.com/letture/matteo-pericoli-il-grande-museo-vivente-dellimmaginazione/

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