Il saggio di Matteo Pericoli

Architetto, disegnatore e autore, nel suo nuovo libro l’autore propone una vera e propria guida all’esplorazione dell’architettura letteraria

di Lara Crinò

Che l’atto del narrare sia assimilabile, metaforicamente, a quello del progettare un palazzo, un quartiere, financo una città, è qualcosa che tutti sappiamo. Lo sappiamo per averlo esperito, da scrittori dilettanti o professionisti fin da piccoli: non ci viene forse consigliato, quando ci accingiamo a mettere su carta i nostri pensieri, proprio con un’espressione che arriva dall’architettura “fai la scaletta”, come se scrivere fosse mettere pioli per salire più alto? Lo sappiamo, anche, per averlo studiato. Di cosa parlano la teoria letteraria e la semiotica, se non di come si “costruisce”, di nuovo una metafora per così dire edile, il testo?

Nel suo nuovo libro Il grande museo vivente dell’immaginazione (il Saggiatore) Matteo Pericoli, architetto, disegnatore e autore, fa però un passo avanti proponendo, come recita il sottotitolo, una vera e propria Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria.

Scaturito dall’esperienza di un laboratorio con un gruppo di studenti di scrittura creativa della scuola Holden di Torino, questo saggio è un vero esperimento, a partire dal formato. Nelle prime pagine si propone infatti al lettore di affrontare la lettura come se si esplorasse un museo, con tanto di mappa, muovendosi da un «piano terra», che serve a introdurre i propositi del libro, fino a un «primo piano» e a un «secondo piano» in cui questi propositi si squadernano e vengono poi applicati a una serie di opere letterarie. La tesi di fondo proposta da Matteo Pericoli è questa: poiché quando leggiamo siamo sempre, più o meno consapevolmente, visitatori di uno spazio immaginario, allora è possibile attribuire alla nostra impressione di un certo testo una certa forma. Se possiamo esplorarne con la mente le varie parti, allora siamo in grado non solo di descriverle verbalmente ma di creare degli spazi, dei vuoti e dei pieni, che siano l’equivalente architettonico della storia che stiamo leggendo.

Non si tratta più di limitarsi a visualizzare degli scenari: anzi, chiarisce subito Pericoli, non gli interessano «le cosiddette location» di un romanzo, perché «concentrarsi su di loro, significa, in generale, perdere un’occasione». Ciò che l’autore propone è qualcosa di diverso: elaborare un’architettura che rifletta la struttura del testo. Come si fa? Per scoprirlo, bisogna salire prima di tutto fino al primo piano di questo libro museo, dove, con una carrellata storica, Matteo Pericoli spiega come ogni architettura, dalla capanna primitiva al Partenone, dalla cupola di Brunelleschi alla Villa Savoye di Le Corbusier, sia già di per sé un racconto che va interpretato.

Poi, continuando fino al secondo piano, si possono esplorare dodici interpretazioni di architetture letterarie: dodici opere che vengono trasformate in edifici. Il catalogo è variegato e interessante, tanto che a ogni buon lettore verrà voglia di leggere o rileggere i testi di cui si parla: da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad a L’amica geniale di Elena Ferrante, da Il giudice e il suo boia di Friedrich Dürrenmatt a Gli anni di Annie Ernaux, ciascun’opera viene disegnata come se fosse un’installazione o un edificio. C’è anche Italo Calvino, con il suo Il barone rampante.

Sono progetti suggestivi, giochi mentali, palazzi e città ideali che si sovrappongono a quelli reali in cui viviamo e ci muoviamo. Se il gioco vi piace, è questo il messaggio, potete andare avanti da soli, accumulando nuove architetture letterarie. E scoprirete che i libri che amate sono cattedrali, umili cortili, o città invisibili. Forse, i luoghi in cui vi sentirete più a casa.

https://www.repubblica.it/cultura/2023/04/15/news/matteo_pericoli_saggio_museo_vivente_immaginazione-396194958/

La Stampa Torino, 20 marzo 2023

L’artista è tra i protagonisti dell’Hypercritic Poethon alla Scuola Holden

di Diego Molino

«Torino è inconsapevolmente bella. Non sa di esserlo ma questa è la sua forza». È così che definisce la città Matteo Pericoli, architetto, disegnato­re, insegnante e autore. Sarà fra gli ospiti che per una setti­mana, da domani al 27 marzo, parteciperà alla maratona di poesie Hypercritic Poethon (ci saranno anche Margherita Og­gero, Enrica Baricco, Serena Dandini, Igiaba Scego, Marti­no Gozzi, Ilaria Gaspari, Mau­rizio Gancitano, gipeto, Guido Catalano, Andrea Tarabbia, Alessandro Burbank, Yoko Ya­mada, Sara Benedetti, Andrea Tomaselli, Daniele De Cicco, Giorgia Cerruti, Silvia Cannar­sa, Luca Gamberini, Emiliano Poddi). Un viaggio che trarrà ispirazione dai luoghi in cui verranno letti i componimenti di diversi autori: musei, giardi­ni, case di ringhiera e vecchi tram, grazie alla collaborazio­ne con Gtt e Associazione Tori­nese Tram Storici. Tutti appun­tamenti a ingresso libero fino a esaurimento posti, per cui si consiglia la prenotazione su Eventbrite nella sezione dedicata all’evento. Pericoli è pro­tagonista venerdì alle 18,45 al­la Scuola Holden con L’archi­tettura della poesia.

Cosa hanno in comune archi­tettura e poesia?

«La poesia non è altro che ma­nifattura e per saperlo basta guardare alla sua etimologia, poièo in greco antico signifi­ca fare, creare, costruire. La poesia è l’atto più forte e co­struttivo che esista, vuol dire mettere le parole in una se­quenza, una dopo l’altra. L’ar­chitettura a sua volta è model­lazione dello spazio, ha a che fare con relazioni, spazi, vuo­ti e ombre, tutte cose in comu­ne con la poesia».

Quindi si può dire che siano la stessa cosa?

«Esiste una zona in cui tutte le decisioni, le idee compositive non prendono ancora la forma di una disciplina specifica. È il potenziale creativo a cui appar­tengono architettura, poesia, musica e scrittura. Solo succes­sivamente ciascuno può dare a queste idee e intuizioni una forma ben definita».

Parliamo dell’architettura delle città. Come è possibile scovarne l’anima poetica?

«All’inizio pensavo che le città fossero agglomerati di edifici costruiti molto vicini gli uni agli altri, e che questo fosse esclusivamente per una ragio­ne di utilità. La poesia la trovai per la prima volta vivendo a New York, è stato un po’ come quando ci si innamora di una persona, succede ma non rie­sci a spiegare perché».

A Torino ha trovato la poesia che andava cercando?

«Quando arrivai a Torino trovai un’inaspettata e incredibi­le energia e spirito. In un cer­to senso il luogo più simile a New York è Porta Palazzo: si trova nel centro della città, vicino a edifici istituzionali im­portanti e aulici, eppure c’è una mescolanza di vita estre­mamente vera, intensa e que­sto mi rassicura. Porta Palaz­zo è uno di quei luoghi che esi­stono senza avere il bisogno di raccontarsi, perché comunicano tanto già così come so­no, proprio come New York».

E qual è il suo segreto?

«Non essere consapevole di se stessa, questo è l’unico modo in cui si manifesta la poesia, altrimenti si perderebbe. Viene detto anche nel film Il postino quando Mario (Massimo Troi­si) e Pablo Neruda (Philippe Noiret) sono seduti in riva al mare e Mario gli ha appena detto di essersi sentito “come una barca sbattuta dalle vo­stre parole”. Neruda dice a Mario che così ha appena crea­to una metafora. “No!” rispon­de Mario arrossendo, “Ma veramente?”. E poi aggiunge: “Vabbè, però non vale perché non la volevo fare”. “Volere non è importante” gli dice Ne­ruda, “le immagini nascono casuali”. Ecco cosa vuol dire essere inconsapevoli».

Ci sono altri luoghi che le ispi­rano lo stesso sentimento a Torino?

«Le passeggiate lungo il Po na­scondono un’idea della città inusuale, sembra di essere in campagna ma sei in pieno cen­tro. È una fetta di natura che si insinua dentro la città, questo è molto poetico, permette stra­ne intersezioni nella testa. A Torino spesso la poesia è na­scosta dentro cose che non ti aspetti di trovare in una città medio-grande».

Le trasformazioni urbane ri­schiano di far perdere quella poesia?

«È sbagliato pensare che una città debba essere sempre la stessa, è come dire che un bambino non deve crescere mai. La poesia sta nel saper guardare e indirizzare quella crescita, del resto le città sono organismi viventi.»

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https://www.lastampa.it/torino/2023/03/20/news/matteo_pericoli_porta_palazzo_torino_new_york_mescolanza_vita-12703557/

Il venerdì di Repubblica
17 febbraio 2023
di Arianna Passeri

Molto spesso, durante la lettura, si incontrano espressioni del tipo «lo spazio della narrazione», «le fondamenta di una storia». O magari di un libro la cui «trama non sta in piedi». Quelle che sembrano semplici locuzioni metaforiche sono da intendersi, in realtà, come spie rivelatrici di un legame a doppio filo tra il mondo della progettazione e quello della letteratura.
L’architetto e autore Matteo Pericoli parte da questo assunto per ideare un interessante esercizio creativo: «Se l’architettura di un romanzo fosse davvero un edificio — cioè avesse una struttura fisica, non fatta soltanto di parole — che forma avrebbe?».
Ecco allora che Cuore di tenebra diviene una piramide tronca rovesciata, il cui vertice è a metri di profondità nel terreno, e L’amica geniale si sdoppia in due palazzi che si sostengono e respingono a vicenda.
E diversi ancora sono gli esempi. Quasi per magia, anche il lettore può così “visitare” Il grande museo vivente dell’immaginazione (Il Saggiatore, 166 pagine, 25 euro), e scoprire i segreti dietro la costruzione di un testo (e di un edificio).

Matteo Pericoli
IL GRANDE MUSEO VIVENTE DELL’IMMAGINAZIONE
Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria
pp. 166, € 25, il Saggiatore, Milano 2022

di Luigi Marfè

“Se l’architettura di un romanzo fosse un edificio”, chiede Matteo Pericoli in Il grande museo vivente dell’immaginazione, “che forma avrebbe?”. Dopo Finestre su New York (il Saggiatore, 2019) e Finestre sull’altrove (il Saggiatore, 2021), in questo nuovo libro l’autore si interroga, attraverso l’esplorazione di una serie di metafore spaziali, sulle forme visibili della creatività narrativa: quella “netta impressione”, mentre leggiamo, “di sentirci immersi in una specie di costruzione che ha un suo funzionamento e una sua struttura”. Del resto, le teorie letterarie si sono spesso servite di immagini architettoniche per descrivere i processi compositivi, dalla tecnica dei loci della retorica classica alle funzioni costruttive del formalismo. “La casa della narrativa ha molte finestre, ma solo due o tre porte”, ha scritto più di recente James Wood in Come funzionano i romanzi (2008). Architetto, scrittore e disegnatore, Pericoli è convinto che metafore come questa non siano soltanto delle formulazioni astratte, ma che al contrario colgano elementi profondi dei processi cognitivi con cui la mente immagina gli universi narrativi. Ogni storia, a suo parere, può essere intesa come una specie di spazio da esplorare: “non esistono storie che non possono essere abitate e ispezionate al loro interno”.

Il grande museo vivente dell'immaginazioneIl grande museo vivente dell’immaginazione è pensato come un attraversamento, la visita a un ideale museo sulla creatività degli architetti e degli scrittori. “Questo non è un libro come gli altri. È un edificio”, scrive l’autore: al posto delle diverse sezioni ci sono dei piani, al posto dei capitoli altrettante sale. Arricchito di immagini, mappe e fotografie, il libro è un iconotesto, che mira a riabituare lo sguardo di chi legge all’osservazione di spazi fisici e mentali. Pericoli riflette sul rapporto tra la composizione narrativa e la progettazione architettonica, dà una lettura visiva di alcuni classici della narrativa, e propone degli esercizi di creatività narrativa. Come l’immaginazione degli scrittori, anche quella degli architetti, pare suggerire, non segue regole oggettive, ma è frutto di percezioni e intuizioni soggettive. Se ci sono “storie-che-sono-spazi”, ci sono anche “spazi-che-sono-storie”, e orientarsi nel mondo significa provare a sfogliarne le pagine: passeggiando per una città, “leggiamo intuitivamente percorsi, siamo attratti da improvvisi e ampi spazi vuoti, o dalla luce che penetra dal soffitto, o da un’enorme vetrata”. La leggibilità dello spazio è ciò che permette all’architetto di dargli una forma, componendo la superficie narrativa su cui esercitare la sua progettualità: “L’involucro dello spazio non è altro che l’insieme di tutte quelle parole, paragrafi e capitoli, espressi con il linguaggio dell’architettura e usati per articolare idee, concetti, storie e aspirazioni”.

Ogni architetto “racconta una storia”. Diversamente da quelle degli scrittori, tuttavia, non si configura come una “concatenazione di vicende”, ma di “spazi”: si tratta quindi di una “trama architettonica”, di una “narrazione spaziale”. Se gli architetti da sempre si nutrono dell’immaginario degli scrittori, al contrario questi ultimi hanno cercato nell’architettura il modo di dare visibilità ai propri racconti. Leggendo Il grande museo vivente dell’immaginazione torna in mente la poetica dello spazio di Gaston Bachelard, per cui le parole si potrebbero considerare come “piccole case” che lo scrittore si trova ad abitare, esplorare, arredare: “salire le scale della casa della parola significa, di gradino in gradino, astrarre”, scriveva Bachelard, “Scendere nella cantina, significa sognare, perdersi nei remoti corridoi di un’incerta etimologia, significa cercare nelle parole tesori introvabili”.

Le “architetture letterarie” delineate da Pericoli riguardano opere di Calvino, Ernaux, Vonnegut, Dürrenmatt, Conrad, Carrère, Saer, Ferrante, Tanizaki, Dostoevskij, Faulkner, Fenoglio. Il suo libro si presenta come un esercizio di “archi-critica”, se così si può dire, che in ogni testo cerca la forma visibile che meglio la descrive. Pericoli è convinto che l’immaginazione narrativa non si nutra soltanto di parole: “Esistono infatti altri pensieri – chiamiamoli intuizioni – spesso fatti di immaginazione o visualizzazioni che non sono né verbali né prodotti in modo causale dai ragionamenti che facciamo”. Le metafore visive possono essere una porta per accedere a questa diversa dimensione della creatività: “molto spesso questi pensieri o associazioni sono innescati da metafore che, se funzionano in quanto tali, sono dei veri e propri motori di immaginazione e creatività che, letteralmente, ci trasportano altrove”.

Luigi Marfè insegna critica letteraria e letterature comparate all’Università di Padova

L’Indice dei libri del mese

recensione di Francesco Gallo

Matteo Pericoli
Il grande museo vivente dell’immaginazione
Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria
168 pp, 25 €
Il Saggiatore, Milano 2022

30 gennaio 2023

Chissà dove avrebbe collocato un libro come questo, Italo Calvino: tra i Libri Che Mancano Per Affiancarli Ad Altri Sullo Scaffale, oppure le Novità Il Cui Autore O Argomento Ci Attraggono? Ci piace pensare che l’autore di Se una notte d’inverno un viaggiatore avrebbe messo Il grande museo vivente dell’immaginazione tra i Libri Che Ispirano Una Curiosità Improvvisa, Frenetica E Non Chiaramente Giustificabile.

Più che un libro, infatti, è una guida; una Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria. Ci stanno le Mappe (Piano terra, Primo e Secondo piano), la Legenda degli spazi (Ingresso, Sala 1 e 2 e Cortile interno). E c’è una guida, ovvio: l’autore stesso – che parla con una voce che non è la sua, bensì la nostra (ma questo lo capiremo leggendo…). Una guida che, invece di scortarci lungo una serie di passaggi obbligati, come prima cosa desidera farci sentire liberi; liberi di andare dove ci pare, osservare quel che ci pare, e, soprattutto, immaginare quel che ci pare. Fa presto a ribadire, infatti, che “museo” deriva da “mūseóon”, ovvero il luogo sacro alle figlie di Zeus dove si poteva contemplare e immaginare in piena autonomia.

Ma cos’è l’architettura letteraria? È una scoperta continua. Non solo: un tentativo di accrescere la nostra consapevolezza quando ci rapportiamo con gli spazi (e con il vuoto). Ancora: una serie di laboratori didattici che, negli ultimi dodici anni, l’architetto, disegnatore e autore Matteo Pericoli ha tenuto in giro per il mondo; da Torino (dove tutto ha avuto inizio) a New York, passando per Dubai.

Suggestionato dalla scoperta di un lessico comune tanto all’architettura quando alla letteratura – quante volte abbiamo sentito dire, a proposito di una storia dotata di nessi logici incerti, che “manca di struttura”, “traballa” o “non sta in piedi”? –, Pericoli ha percorso la storia dell’architettura come tentativo di narrazione; dapprima semplice, poi sempre più complesso.

Cos’è lo slancio che unisce la prima capanna – quando l’idea di base era quella di un “tetto-sopra-la-testa-così-non-mi-bagno” – alla prima “casa-con-finestra” – un “elemento architettonico che mette in relazione ciò che è tangibile (la cornice stessa) con l’intangibile (la vista, l’esterno) e quindi il reale con l’immaginario, il quotidiano con l’assoluto” – se non uno slancio narrativo, l’incipit di una vicenda destinata irrimediabilmente a complicarsi?
Scrive Alice Munro: “Una storia non è come una strada da seguire […], è più come una casa. Entri e ci rimani per un po’, la percorri in lungo e in largo e ti metti dove vuoi e scopri il legame tra le stanze e il corridoio, e come il mondo visto da queste finestre appaia diverso.”

Sfrondando l’architettura dai suoi elementi meno rilevanti – lo stile, il nome di chi ha ideato un certo progetto, il suo valore storico –, Pericoli ci mostra il punto dove si annida l’essenziale; quello che “non si può né toccare (lo spazio) né leggere (l’architettura di una storia)”. Eliminando le pareti, i soffitti, le finestre, eccetera, togliendo l’involucro, insomma, cosa resta se non un vuoto, il vuoto? E accantonando le parole, le frasi, la punteggiatura e i paragrafi della scrittura di una storia, cosa resta se non un’essenza che “può essere solamente intuita e dedotta”, come quando ci confrontiamo con la voce fantasmatica di Kurtz nel Cuore di tenebra di Conrad, oppure proviamo a intuire l’argomento del dialogo tra la ragazza e l’americano in Colline come elefanti bianchi di Hemingway.

Approfondite queste riflessioni da un punto di vista teorico – la Sala 3 contiene una illuminante lezione di scrittura creativa; la Sala 4 ribadisce l’importanza della lettura quale attività generatrice di meraviglia –, Pericoli, con la lucidità e il garbo che lo caratterizzano, ci invita a fare un giro nel Salone dove è possibile visionare ben dodici interpretazioni di architetture letterarie. Poi, un attimo prima del bookshop (immancabile: come in ogni museo), ci fornisce le istruzioni per realizzare la nostra architettura letteraria così da esporla nel nostro, personalissimo museo vivente dell’immaginazione. (E ci ricorda, anche, che in architettura ha poco senso distinguere tra persone “esperte” e “non esperte”, dal momento in cui facciamo tutti esperienza del nostro rapporto con lo spazio.) L’unica regola di questo gioco – ché non esistono giochi senza regole – è di mantenere sempre un approccio letterario, mai letterale. Cosa ce ne facciamo del modellino di un faro, se quello che ci emoziona, in realtà, è la fitta rete di rapporti che regola le dinamiche comportamentali della famiglia Ramsay durante una celebre gita sull’Isola di Skye? Perché non provare, quindi? Tra una riflessione e l’altra, riusciremo magari a liberarci “dall’inevitabile peso dato dai preconcetti e preclusioni a causa di giudizi e interpretazioni altrui”, e scopriremo qualcosa di nuovo sul rapporto misterioso che lega l’architettura e la letteratura. E, perché no, su noi stessi.

https://www.lindiceonline.com/letture/matteo-pericoli-il-grande-museo-vivente-dellimmaginazione/

Il libro di Matteo Pericoli nasce dal suo “Laboratorio di architettura letteraria”
Da Dostoevskij a Ferrante, il disegno diventa una forma di lettura alternativa

di Mario Baudino

Concepire e disegnare case e palazzi partendo dalla grande letteratura non è un solo gioco, anche se magari lo abbiamo pure fatto, qualche volta, fantasticando su un romanzo o su un racconto: forse però non siamo mai andati oltre su questa strada interpretativa, non lo abbiamo concretizzato. Matteo Pericoli, invece, lavora su questa intuizione ormai da anni. Era partito con un’idea mutuata da Alice Munro, la scrittrice canadese molto ammirata per i suoi racconti, che aveva descritto una volta le ́«storie» non come strade, e cioè non come narrazioni vettoriali, percorsi unidimensionali con un inizio e una fine, ma come ́«case», del tutto tridimensionali – e da abitare, ed è arrivato ora a costruire un libro di testi e architetture fantastiche, Il grande museo vivente dell’immaginazione (Il Saggiatore) libro elegantissimo che riassume idealmente un lungo lavoro di laboratori un po’ in tutto il mondo (e cominciato alla Scuola Holden di Torino) e presenta una vasta scelta di risultati: le storie trasformate in edifici, la lettura come modalità dell’abitare.


Trasfigurazioni che narrano il loro rapporto con il mondo come personaggi vivi


Molti lettori appassionati sanno di aver avuto spesso l’esperienza di «cadere» in un libro, e di cambiare dimensione. Gli scrittori, altrettanto spesso, li invitano proprio a questa dislocazione spazio-temporale, quando le architetture urbane narrano il loro rapporto col mondo come fossero personaggi. Gli esempi sono innumerevoli, alcuni memorabili come l’incipit di Ferragus, il primo racconto di Storia dei tredici, dove Balzac dà la parola alle strade parigine, quelle disonorate o nobili, assassine o «più vecchie di certe vecchissime dame», rispettabili, pulite o sempre sporche, operaie, lavoratrici, mercantili; perché «le vie di Parigi hanno qualità umane, e con la loro fisionomia imprimono in noi certe idee cui ci è difficile sottrarci». Non è il solo, naturalmente. Qualcosa del genere accade in Dickens (leggersi magari Casa desolata, dove una diruta e malfamatissima strada di Londra si comporta come un essere umano).

Matteo Pericoli è andato più in là, ovvero ha deciso invece di far parlare le opere di letteratura come fossero nel loro insieme architetture, puntando non, come dice nella prefazione del suo libro, «a quell’istinto naturale che abbiamo di immaginare o visualizzare le ambientazioni descritte nel romanzo, ma a quella netta impressione di sentirsi immersi in una specie di costruzione che ha un suo funzionamento e una sua struttura». Disegni, plastici, edifici fantastici, come le città di Calvino, sono a loro volta inseriti in una sovra-architettura, quella appunto del «museo-libro» («Questo non è un libro come gli altri – scrive –. È un edificio») che li ospita: senza tentazioni di «realismo» o piatta verisimiglianza. Se prendiamo Cuore di tenebra, il magnifico racconto conradiano, non è certo trasformato o descritto come una capanna nella foresta: l’edificio in cui si trasforma è invece una piramide rovesciata fino a molti metri sotto il suolo. Così per i dodici autori su cui Pericoli ha lavorato: non se ne organizzano presepi, ma trasfigurazioni simboliche.

“Cuore di tenebra» di Joseph Conrad diventa una piramide rovesciata conficcata nel suolo (dal libro di Pericoli)”
“Cuore di tenebra” di Joseph Conrad diventa una piramide rovesciata conficcata nel suolo (dal libro di Pericoli)

Elena Ferrante (L’amica geniale) si sdoppia in due edifici che forse si sostengono a vicenda (e questa rappresentazione, tutto sommato, è forse la più ovvia), Le notti bianche di Dostevskij divengono un grattacielo inclinato sopra una sorta di labirintica scacchiera, La malora di Beppe Fenoglio è una casa tutta radici, un edificio che cresce ́«sotto terra», Il barone rampante di Italo Calvino è qualcosa che contiene il senso di una distanza incolmabile, una casa con un’intercapedine visibile solo dall’alto (perché come dice il padre di Cosimo Piovasco, «la ribellione non si misura a metri»). Ci sono anche, rigenerati e dislocati con il lavoro di costruzione spaziale, Annie Ernaux, William Faulkner, Junichirο Tanizaki, Kurt Vonnegut, Friedrich Dürrenmatt, Emmanuel Carrère, Juan José Saer, a testimonianza che il procedimento può funzionare su qualunque racconto, su qualunque «storia» – con un occhio all’altra storia, quella dell’architettura, e un altro verso il paradigma possibile dell’«architettare».


“Abbiamo l’istinto naturale di immaginare e visualizzare”


«Queste strutture che incontrerete – scrive Pericoli – prenderanno la forma che vorrete voi… ovvero quella basata sulle vostre reazioni, intuizioni e idee. Ognuna diversa per ognuno di voi, un multiverso di forme». Il risultato è un percorso di lettura molto stimolante – perché poi il museo dell’immaginazione di Pericoli è sì un «museo» ma intanto è un libro, non un catalogo ma una storia delle storie, soprattutto se si pensa all’uso talvolta disinvolto e ideologico che si tende a fare nel discorso pubblico dei classici di oggi e di ieri: pessima abitudine perché il rischio diventa allora quello di farne non costruzioni libere e fantastiche, ma tristi e noiosissime prigioni. —

“Nel libro Il grande museo vivente dell’immaginazione (Il Saggiatore, 2022) l’architetto e disegnatore Matteo Pericoli esplora i legami tra letteratura e architettura, tra fantasia e costruzione.” Matteo Pericoli intervistato di Enrico Bianda
Andato in onda il 30 novembre 2022
https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/alphaville/Alphaville-15827212.html

Da undici anni Matteo Pericoli insegna a studenti di tutto il mondo come analizzare la struttura narrativa di una storia e trasformarla con creatività e immaginazione in un edificio. Da questa esperienza è nato “Il grande museo vivente dell’immaginazione” (il Saggiatore), scritto a sua volta come se fosse un museo da esplorare, con tanto di mappa e bookshop

Dickow, Niddam, Porat, Topaz su un racconto di Yonathan Raz Portugali Hebrew University of Jerusalem

Per Ennio Flaiano i grandi libri non sono quelli che sfogliamo con disattenzione, che consumiamo per invidia o emulazione, che finiamo in fretta, con rabbia, per stare al passo con la moda letteraria del momento; ma quelli che rileggiamo così tante volte da abitarli, sentendoli addosso come certi angoli di casa nostra. Li teniamo sul comodino, in borsa o in uno scaffale preciso della libreria per rifugiarci quando ne abbiamo più bisogno. Per cercare risposte a domande che la vita ci pone distrattamente. Alcuni libri hanno la forma di una tenda, altri di un attico, altri ancora di una casa in collina.

Ci voleva però la poliedricità di un architetto, illustratore, docente e scrittore per scoprire come analizzare l’architettura di una storia e trasformarla con creatività e immaginazione in un edificio. Da undici anni Matteo Pericoli guida studenti in tutto il mondo (Stati Uniti, Italia, Israele, Svizzera, Taiwan ed Emirati Arabi Uniti) in un gioco che ormai è diventato un sorprendente esperimento dove non esistono errori, perché non c’è un dogma da seguire: il Laboratorio di Architettura Letteraria. Questo lavoro pluriennale è diventato un libro: “Il grande museo vivente dell’immaginazione” (il Saggiatore), scritto a sua volta come se fosse un museo da esplorare, con tanto di mappa e bookshop.

In questa guida generosa e attenta a seguire il passo del lettore, Pericoli svela i segreti per aprirsi al misterioso ma continuo legame tra fantasia e costruzione. E così Cuore di Tenebra di Joseph Conrad diventa una slanciata piramide inversa il cui vertice si trova a decine di metri sottoterra; L’amica geniale di Elena Ferrante si trasforma in due palazzi che si sostengono e respingono a vicenda. E via costruendo. Questo cantiere culturale non si esaurisce nel libro, ma si espande in un sito bilingue in costante aggiornamento.

«Undici anni fa una fiammella si è accesa in me, innescando una miccia i cui effetti non avevo previsto. Ero appena tornato dagli Stati Uniti e quando mi fu proposto di fare un workshop nella Scuola Holden, all’epoca un piccolo spazio in via Dante a Torino, decisi di approfondire un concetto che mi frullava in testa. Perché si dice che una storia ha una struttura, ha delle fondamenta oppure “non sta in piedi”? Ma mi sono accorto che parlando con gli studenti delle strutture narrative le parole non bastavano. C’era una quantità d’informazioni che mancava. Allora chiesi a loro: “Perché non me lo fate vedere usando cartone, forbici e colla?”. Questa banale domanda mi ha portato a fare una scoperta sorprendente».

Quale?
Tutti noi abbiamo un gigantesco lago sotterraneo di conoscenze inesplorate. Un calderone di energia creativa dato dalla lettura a cui non riusciamo spesso ad accedere perché se andiamo a ricercarlo con le parole ripeschiamo solo gli stessi concetti che avevamo elaborato in passato copiando pensieri altrui. Invece di continuare a usare le parole per spiegare qualche cosa che era fatto di parole, proviamo a dare una forma tangibile ai nostri pensieri sul libro. Così facendo ho notato che le conoscenze si decuplicano. E vale per tutti. Dai liceali che seguono i miei corsi a chi non ha letto tanti libri o non conosce bene l’architettura. Questo fenomeno si ripete a ogni laboratorio. 

Fermiamoci un momento all’ingresso di questo libro-museo in cui inviti il lettore a lasciare nel guardaroba i bagagli ingombranti che impediscono di capire meglio i legami tra storie e architettura. Quali sono gli ostacoli più difficili da abbandonare?
Per esempio pensare che la relazione tra architettura e letteratura sia un insormontabile sforzo intellettuale; non sentirsi all’altezza e dimostrare forzatamente di essere intelligente e preparato prima di leggere un libro. Ma soprattutto lo scetticismo; lo stesso che incontro all’inizio quando propongo questo gioco. Al primo incontro del laboratorio vedo alcune facce sgomente, terrorizzate. Poi il secondo e il terzo giorno vengo travolto da un entusiasmo pazzesco di chi capisce quanto sia bello trovarsi dall’altra parte.

Dall’altra parte rispetto a cosa?
Rispetto ai preconcetti. Al di là delle nostre conoscenze pregresse sullo stile, la narrativa, le etichette che diamo ai libri. Le storie non sono strade puntuali da percorre in base alle indicazioni date da altri, ma edifici da esplorare in libertà, immergendosi in uno spazio letterario. Ovviamente questo spazio è costruito da qualcun altro, lo scrittore, ma alla fine le costruzioni le facciamo quasi totalmente noi, nella nostra mente. La speranza è che una volta iniziato il libro-museo il lettore dica: sai cosa? Questi bagagli ingombranti li lascio lì ed esco più leggero di quando sono entrato. 

Allora entriamo leggeri e facciamo un esempio di costruzione architettonica derivata da una struttura narrativa.
Durante un laboratorio mi ha colpito il modo differente in cui può essere visto il racconto di Ernest Hemingway “Colline come elefanti bianchi”. Per gli architetti il rapporto affettivo tra i due personaggi era squadrato, come un parallelepipedo, mentre per dei ragazzi liceali si trattava di un’opera cilindrica, forse più idealizzata. Queste risposte ti riempiono la mente e il corpo di una sensazione positiva, perché con un testo non sarebbero riusciti ad approfondire così il rapporto tra i due protagonisti. Lo stesso mi è capitato con lo straordinario racconto di Amy Hempel intitolato “Il raccolto”. In undici anni di Laboratorio di Architettura Letteraria non ci sono mai stati due edifici somiglianti. Il punto è che i nostri pensieri  hanno una forma e una sensazione pre verbalizzata, diversa per ognuno, che spesso ignoriamo, saltando subito al passaggio successivo per alimentare il nostro monologo interiore. Il laboratorio esalta ciò che le parole scritte sgonfiano. Ci sono risultati continui perché questo processo è qualcosa di estremamente naturale che viene fuori solo se ci si rilassa.

Questo approccio innovativo potrebbe essere usato nelle scuole per avvicinare i giovani, ma anche i meno giovani, alla lettura?
Certamente. Rendersi conto che la lettura è equiparabile a un’esplorazione di un luogo la cui forma definitiva è incastrata nelle nostre sinapsi potrebbe essere una spinta ad affrontare le storie in una maniera diversa. Ovvero non cercando di replicare quello che altri hanno precedentemente detto o pensato su quel libro. Siccome un’opera ci è stata presentata come bella, brutta, semplice o complessa non dobbiamo cercare nel testo una sensazione che altri hanno già trovato. Sappiamo molto di più di quanto pensiamo di sapere. Andando a ritroso alla fonte delle idee che hanno un peso e una forma, tutti possiamo trovare i nostri spazi, costruendo, decostruendo, abbattendo e ricominciando. E gli errori non esistono più, non ci sono insegnanti e studenti.

Nel libro approfondisci due concetti importanti che accomunano letteratura e architettura: il vuoto e il contesto.
L’architettura è la compagna costante dell’intera esistenza. Passiamo la nostra vita attraversando, trapassando architetture e spazi uno dopo l’altro. Per capirli parliamo di stili e forme, ma trascuriamo spesso l’effetto più potente dell’architettura: ciò che non c’è. Le nostre stanze sono circondate da pareti ma noi viviamo e lavoriamo all’interno dell’unico spazio che non è stato costruito. E così anche nelle storie diamo tanta rilevanza alle pagine, ai paragrafi, alle frasi e alle parole, trascurando quanto sia importante lo spazio all’interno di una storia. Un elemento ineffabile che noi dobbiamo ricostruire nella nostra mente. E come lo facciamo dipende necessariamente dal contesto. Non solo quello all’interno del quale fuoriesce il libro o l’edificio, ma anche il mio contesto: tutto quello che ho imparato, sentito, creduto finora; le mie aspettative e le mie idee che mi fanno approcciare sempre in modo diverso alla storia o allo spazio in base alla mia condizione esistenziale di quel momento. Concentrandosi ogni volta su dettagli e spazi diversi.

Ha parlato di quanta architettura c’è nella letteratura, ma quanta letteratura c’è nell’architettura?
L’architettura è impregnata di narrativa. Ogni scelta compositiva di chi ha progettato gli spazi che viviamo (dalla sequenza dei volumi ai loro collegamenti, da ciò che viene rivelato a ciò che viene celato, dall’impatto della luce al mistero dell’oscurità, e così via) è in realtà una scelta narrativa, alcune volte fatta consapevolmente altre no. L’architettura poi determina la narrazione della nostra giornata. Pensa al momento in cui attraversi la soglia ed esci di casa la mattina: nella tua testa pensi che stia iniziando qualcosa di nuovo ma quel qualcosa in realtà non esiste perché fuori dalla porta nulla è iniziato e nulla è terminato, tutto è sempre esistito. L’architettura è il nostro escamotage per inscatolare la narrazione quotidiana: aprire la finestra per cambiare l’aria la mattina, uscire di casa, ritornare a casa, salire le scale, scendere le scale Questa interazione con l’architettura è inconscia ma profondamente narrativa e determina come incaselliamo il racconto della nostra vita. Ogni nostro movimento è una lettura dello spazio e senza saperlo siamo già in grado di capire la concatenazione delle narrazioni dell’architettura che ci circonda. Perché usciti da un edificio andiamo a destra invece che a sinistra? 

E conoscendo istintivamente gli spazi architettonici siamo in grado di analizzare le strutture narrative?
Sì, ognuno a modo suo dà significato a elementi diversi privilegiando uno rispetto all’altro. La porta ha un potenziale narrativo chiaro, ma per qualcuno può essere importante l’altezza di un soffitto La finestra messa nel posto giusto per qualcuno è una rivelazione. Ma se lo trasmetti a un altro bisogno narrativo non funziona per niente.  Immagina la prima volta che in un edificio architettonico di qualsiasi tipo, primordiale o non, qualcuno con un martello o una mazza ha buttato giù un pezzo di muro e ha visto il mondo fuori senza poterlo oltrepassare. Chissà, forse ogni elemento architettonico ha il suo corrispettivo letterario, in fondo è cosi che nascono le storie.

Castelli di carta | Guida all’architettura letteraria per esplorare in modo innovativo i libri (e sé stessi)

di Andrea Fioravanti, pubblicato su Linkiesta il 26 novembre 2022:
https://www.linkiesta.it/2022/11/museo-vivente-immaginazione-pericoli-saggiatore/

Non mi sembra vero.

Dopo quattro anni di lavoro, quella che all’inizio sembrava una confusa sequenza di stanze è diventata un vero e proprio libro-edificio.

Il grande museo vivente dell’immaginazione. Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria, edito da Il Saggiatore, esce venerdì 25 novembre.

Saul Steinberg: il lascito di un genio del Novecento

di Matteo Pericoli

 
Pubblicato nel numero di Marzo 2022 de L’Indice dei libri del mese

Saul Steinberg 1978. Foto di Evelyn Hofer

Una delle maggiori difficoltà che si incontrano nel cercare di avvicinarsi al lavoro di Saul Steinberg è quella di identificare l’angolo d’approccio corretto. L’errore tipico che si fa è tentare di definirlo: è un illustratore? no, o forse sì; è un fumettista? certo! anzi no, certo che no; un disegnatore? sì, disegnatore di sicuro, o no? è forse più semplicemente, o più genericamente, un “artista”? beh, quello di sicuro. Nell’accostarci con attenzione alla complessa figura di Saul Steinberg, sentiamo però che nemmeno l’onnicomprensiva parola “artista” sembra funzionare. Non è solo un artista, è qualcosa di più. Ma cosa?

Steinberg nasce in Romania nel 1914 da una famiglia ebrea. Vive a Bucarest fino al 1933 quando si trasferisce in Italia, a Milano, dove studia architettura al Regio Politecnico. Nel giro di qualche anno inizia a pubblicare disegni in varie riviste e a godere di un certo successo, ma la sua situazione si complica a causa delle leggi razziali tanto che all’ingresso in guerra dell’Italia decide di emigrare negli Stati Uniti. Scoperto, viene arrestato e passa un periodo di alcuni mesi di internamento in Abruzzo. Nell’estate del 1942 riesce finalmente ad arrivare a New York.

Il lavoro di Steinberg a quel punto era già noto negli Stati Uniti. Grazie ad alcune conoscenze, infatti, durante il periodo d’attesa prima di entrare nel paese aveva già pubblicato vari disegni su riviste statunitensi quali Harper’s Bazaar e Life. Al suo arrivo a New York, Steinberg inizia praticamente da subito a collaborare con la rivista The New Yorker contribuendo con copertine, illustrazioni, disegni vari, vignette e così via; cosa che continuerà a fare, con successo e libertà finora senza pari e forse ineguagliabili, per il resto della sua vita.

Molti indizi sulle difficoltà che si hanno nel descriverlo si trovano in citazioni di Steinberg stesso. Di sé, ad esempio, dice: «Sono nato in un paese complicato, bisognava aprirsi una strada tra diverse verità contraddittorie, una magnifica scuola per un romanziere. Gli unici personaggi che rispettavo, gli unici con cui potevo conversare, erano i personaggi da romanzo. Credevo che i libri fossero di origine divina, e quando ho capito che erano scritti da persone qualunque (che dunque erano sconosciuti prima di diventare famosi), sono rimasto talmente colpito che mi son detto: “Ma allora anch’io posso farlo!”.» (Riga, pag. 111)

Tuttavia, il rapporto conflittuale con la Romania, la «patria infernale» (Lettere a Aldo Buzzi, p. 278), il tradimento dell’Italia e delle sue leggi razziali, il suo essere un immigrato, sebbene naturalizzato, negli Stati Uniti, fanno sì che a Steinberg manchi una lingua con la quale potersi esprimere in totale disinvoltura e con la dimestichezza dei romanzi che adorava.

In una incessante ricerca di sé, della propria identità e di un proprio linguaggio attraverso il suo lavoro, Steinberg cerca da un lato di definirsi, di ritrovarsi, di conoscersi e di farsi conoscere, dall’altro invece crea e simultaneamente cancella le proprie tracce e l’idea che ci si può fare di lui.

Lui stesso racconta come in mezzo a questa accanita ricerca finisce per inventare «un linguaggio che non esisteva prima in quanto linguaggio». Sceglie una «materia prima», il disegno, e la usa «per esprimere idee poetiche o filosofiche» (Riga, p. 106). Non è il disegno che proviene dalla tradizione del disegno dal vero, perché, dice sempre Steinberg, «il disegno dal vero rivela troppo di me […] divento una specie di servo, personaggio di secondo ordine» e nel quale «vedo […] i miei difetti». Nei disegni «fatti con la fantasia», invece, Steinberg può nascondersi, può introdurre molteplici livelli di lettura e interpretazione: «mostro me e il mio mondo nel modo che scelgo». (Riflessi e ombre, p. 59)

E così noi lettori, tramite i suoi lavori, non abbiamo accesso, come di solito accade, a ciò che Steinberg “vede” mentre disegna; siamo piuttosto davanti a una finestra aperta sulla sua mente e sui suoi pensieri, come in un testo letterario o un saggio o un trattato.

In tutto ciò credo che l’architettura abbia avuto un ruolo molto importante, sebbene indiretto. Steinberg ci dice che lo studio dell’architettura è stato per lui «meraviglioso per tutto tranne che per l’architettura. Lo spaventoso pensiero che quello che disegni può trasformarsi in un palazzo ti fa propendere per tratti perfettamente ragionati». (Riga, pag. 38) Le sue linee quindi, così ragionate, precise e con un intento cristallino, sono le impronte visibili delle sue intuizioni, dei suoi pensieri e dei suoi ragionamenti.

Ma non solo, Steinberg sembra addirittura sapere quello che noi, a nostra volta, pensiamo o sappiamo, proprio come i migliori architetti. Infatti, un qualsiasi disegno di Steinberg mi fa pensare al Partenone di Atene. Nel voler trasmettere un senso di armonia, proporzioni e chiarezza, i costruttori del Partenone sapevano che la nostra mente corregge, modifica e vede in modo distorto. Ad esempio, sapevano che le colonne alle estremità andavano un po’ ingrandite e un po’ avvicinate alle altre altrimenti sarebbero apparse più lontane e più piccole delle altre; oppure che la base del timpano andava leggermente curvata all’ingiù altrimenti le sue estremità si sarebbero sollevate invece di apparire orizzontali. Il rapporto che si instaura quindi tra chi costruisce e chi assorbe (in questo caso uno spazio architettonico) è una sorta di interconnessione o collaborazione tra due fonti creative: quella di chi compone e quella di chi legge.

Non è un caso che i filosofi Roberto Casati e Achille Varzi scrivano che «commentare un disegno di Steinberg è […] come commentare il lavoro di un collega» (Riga p. 398). Steinberg voleva e sapeva parlare a tutti; e voleva essere ascoltato da tutti.

Per avvicinarci al suo lavoro, quindi, non ci resta che indugiare davanti a un suo disegno, resistere al desiderio di classificarlo, far sì che le sue linee si insinuino nella nostra mente e atterrare così nel suo mondo fantastico.

— Marzo 2022


Libri menzionati:

Riga 24, Saul Steinberg, Marcos y Marcos, 2005
Saul Steinberg, Lettere a Aldo Buzzi 1945-1999, Adelphi, 2002
Saul Steinberg con Aldo Buzzi, Riflessi e ombre, Adelphi, 2001