“Gli anni” di Annie Ernaux

Le “strutture architettoniche” del testo rivelano cose che non sapevamo di sapere

di Matteo Pericoli

Vi è mai capitato, leggendo un libro, di avere l’impressione di trovarvi all’interno di una struttura costruita, consciamente o inconsciamente, dallo scrittore? Con ciò non intendo il naturale processo di visualizzazione delle ambientazioni descritte nel testo, ma la netta sensazione di sentirsi immersi in uno spazio, uno spazio letterario, costruito da qualcun altro.

Nel descrivere testi letterari si usano spesso metafore architettoniche, a partire dall’architettura del romanzo. Parlare di «costruzione di un testo» rende bene l’idea del laborioso atto di concatenare una parola all’altra. Un grande architetto è capace di farci muovere nello spazio con fluidità o con circospezione; ci fa rallentare per assorbire tutti i dettagli; ci può sorprendere o rassicurare. Un grande scrittore fa lo stesso.

Sono sei anni che con i partecipanti del Laboratorio di Architettura Letteraria cerchiamo di andare a scovare le strutture letterarie dei testi che analizziamo e di costruirne dei plastici architettonici, tangibili, fatti di cartone e colla. Usando lo spazio invece delle parole, cerchiamo di capire insieme come funziona, e di cosa è fatta (se così si può dire), l’architettura di un romanzo o di un racconto, di un saggio o di un qualsiasi tipo di testo letterario. Come in un progetto architettonico – dove si ha a che fare con idee spaziali da articolare, concatenare e trasmettere; strutture di sostegno; sequenze di volumi; sospensioni e sorprese – le questioni in un testo narrativo sembrano simili: come collegare diversi piani narrativi? Come esprimere tensione? Come organizzare la cronologia? Come collegare personaggi o creare un vuoto?

Al laboratorio partiamo dal testo e lavoriamo a ritroso: rimossa la materia di un edificio (muri, divisori, coperture, vetrate, ecc.), quel che resta è puro spazio. E tolte le parole da un romanzo, cosa resta? Cerchiamo un’idea compositiva che sia alla base della forma «costruita», architettonica o letteraria.

Le intuizioni strutturali, ma anche le emozioni e le sensazioni che prova ciascun partecipante durante la lettura, vengono ripensate e tradotte in termini di spazio, proporzioni, luce, ombra, pieni e vuoti. Siamo tutti esperti di architettura, nel senso letterale di esperire lo spazio. Infatti, durante il Laboratorio, anche chi non ha mai pensato o progettato in termini architettonici si trova a produrre idee fatte di spazio compositivo. Scopriamo che usando lo spazio invece delle parole riusciamo a penetrare un testo in modo più profondo. È come se, immersi nel romanzo che stiamo leggendo, potessimo alzare lo sguardo dal libro e vedere la sua architettura che, come per magia, si è andata via via creando attorno a noi; e scoprire che, come mi ha detto una studentessa-scrittrice davanti al suo plastico finito, «so delle cose su questa storia che non sapevo di sapere».

Pezzo pubblicato in occasione della prima uscita della rubrica “Architetture letterarie” su La Stampa (poi proseguita su Pagina99).
Leggi direttamente dal sito de La Stampa.

Matteo-Pericoli-Divine Comedy

Il disegno della cosmologia dantesca
di Matteo Pericoli

Le difficoltà nel realizzare un disegno dell’intera cosmologia dantesca possono dividersi in due gruppi: il primo comprende quelle legate al contesto, doversi cioè confrontare con una mastodontica e secolare mole iconografica; l’altro contiene questioni tecniche, cioè il tentativo di risolvere problemi pratici legati alla rappresentazione di nodi narrativi apparentemente impossibili da mostrare in un unico disegno.
Del primo gruppo vale forse solamente la pena dire che un anno di ricerche è servito a identificare quelli che sarebbero poi diventati i problemi pratici da affrontare, quelli cioè del secondo gruppo.
Delle tre cantiche, come molti sanno, l’Inferno è quella descritta meglio dal punto di vista strutturale. Se chiudiamo gli occhi, possiamo immaginare un disegno a imbuto con i cerchi che vanno restringendosi dall’alto verso il basso, dove Gerusalemme è in cima e Lucifero al centro della Terra. In pratica, stiamo visualizzando una sezione trasversale di mezza sfera terrestre, nella quale Gerusalemme, appunto, sta in alto, Gibilterra a sinistra (occidente) e il Gange a destra (oriente).
Ma se la norma è di rappresentare tutto ciò in sezione, come mostrare nello stesso disegno la prosecuzione del viaggio dei due protagonisti che dai piedi di Lucifero al centro della Terra, ruotando di 180 gradi, si snoderà poi verso il Purgatorio, cioè sulla superficie della Terra, senza mostrare anche il Purgatorio in sezione? E sulla porta di accesso all’Inferno, come far notare la transizione tra mondo “reale”, quello superiore (dove si trova la selva), e mondo inferiore? Se si mostra la transizione, si deve per forza mostrare anche il mondo superiore.
E, proseguendo, come mostrare il viaggio di Dante e Beatrice attraverso i cieli, le stelle fisse e il primo mobile, per poi “atterrare” sull’ulteriore dimensione celeste (slegata e indipendente dalle tre dimensioni dei mondi finora attraversati) della rosa candida, delle gerarchie angeliche e di Dio?
Queste sono alcune delle tante e tormentate domande che inevitabilmente ci si trova ad affrontare nel tentativo di far stare un gigantesco “tutto” in un unico disegno. Domande alle quali ho cercato di dare delle risposte con omissioni, tratteggi, sezioni, piccoli trucchi e bugie narrative (fatti di prospettive che cambiano, angoli nascosti, vedute non possibili) che fortunatamente il disegno permette di raccontare. Anzi, bugie che forse il disegno spinge a raccontare quando ci si butta in un’avventura ben più grande di noi.

Matteo Pericoli a Roma

di Luca Arnaudo

GUARDARE FUORI, VEDERE DENTRO
A tanti, tra i banchi di una scuola elementare, sarà capitato di ritrovarsi a lottare con il classico tema dal titolo “Guardo dalla finestra e vedo”. Ad alcuni, nelle situazioni più diverse, sarà poi occorso di sperimentare quello che, in una bella poesia di Paola Loreto, suona così: “Guardo fuori e vedo dentro”.
[…]
Nelle sue chine, raffinate e semplici, i contorni definiscono al tempo stesso oggetti riconoscibili, domestici e confortevoli, e vuoti suggestivi, a disposizione della rêverie, anche grazie a un intelligente accorgimento compositivo adottato con costanza dall’autore. Se, infatti, il mirare pensoso da una ventana oscilla tra il topos e il cliché – dal Romanticismo fino agli ultimi baluardi della figurazione novecentesca – la scelta di Pericoli di eliminare dall’immagine qualsiasi riferimento a figure rende ogni osservatore soggetto attivo dell’azione: le finestre, insomma, si aprono per noi, su mondi interni ed esterni che sono d’altri e nostri insieme.

Tricromia Art Gallery, Roma – fino al 20 febbraio 2016. Una collezione di finestre su mondi letterari, tracciate con una levità misurata e sognante. Al confine tra scrittura e immagine.

Continua a leggere qui:
https://www.artribune.com/report/2016/02/mostra-matteo-pericoli-galleria-tricromia-roma/

di Vincenzo Latronico

Rane – Il Sole 24 Ore – 29 settembre 2015

Tecnicamente sarebbe
un “workshop interdisciplinare”.
In pratica, è uno
strabiliante esperimento
intellettuale in grado di
mettere insieme le forbici
con la punta arrotondata
e i racconti di Kafka

In un torrido pomeriggio di inizio luglio stavo parlando con due amici di un testo di Amy Hempel intitolato Il Raccolto. Racconta la storia di un incidente d’auto capitato all’autrice, e poi la racconta di nuovo: elencando le omissioni e gli aggiustamenti fatti alla prima versione per renderla efficace e brillante, svelando le piccole insicurezze di chi scrive, le bugie e le vergogne. L’effetto è accattivante e straniante allo stesso tempo. Alla fine la prima storia – quella “romanzata” – non sta in piedi.
«Non si regge», ho detto. «La seconda parte gli toglie ogni punto d’appoggio».
«È vero», ha detto Stefania. «Servirebbe un pilastro».
Non era una metafora per riferirsi a una frase efficace. Stefania parlava proprio di un pilastro. La prima parte del racconto della Hempel era un osservatorio a picco su una montagna, scavato all’interno di un salone più grande che era la seconda, e non si reggeva.
Poi abbiamo aggiunto un pilastro, che Andrea ha ritagliato nel cartoncino vegetale, e allora sì.
Eravamo al Laboratorio di Architettura Letteraria, uno strabiliante esperimento intellettuale portato avanti da Matteo Pericoli, architetto e disegnatore. Tecnicamente è un “workshop interdisciplinare”, ma il termine è un po’ urticante e calza male a una situazione in cui sono presenti in egual misura Kafka e forbici con la punta arrotondata.
Per introdurre il tema del laboratorio, Pericoli cita spesso un brano di Alice Munro: «Una storia non è una strada da percorrere (…) è più come una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo come le camere stiano in rapporto col corridoio, come il mondo esterno viene alterato se lo guardi da queste finestre. E anche tu, il visitatore, il lettore, sei alterato dall’essere in questo spazio chiuso, ampio e facile o pieno di svolte e angoli che sia, pieno oppure vuoto di arredamento. [Questa casa] trasmette anche un forte senso di sé, di essere stata costruita per una sua necessità, non solo per fare da riparo o per stupirti».
L’idea di fondo del laboratorio è che questa metafora – che il percorso del lettore in un libro è simile al percorso di una persona in uno spazio – può essere presa sul serio; e che l’architettura può essere usata come strumento concettuale per analizzare e comprendere una storia, disegnandone un progetto strutturale e costruendone letteralmente un modello.

Strutture, vuoti, scale

In passato i corsi si sono tenuti in varie forme alla Columbia University di New York e alla Scuola Holden di Torino, in scuole superiori statunitensi e all’Università di Ferrara; io ho preso parte a un’iterazione che si è svolta all’interno del festival “Architettura in città” dell’Ordine degli Architetti di Torino.
Eravamo in quindici, tutti architetti presenti o futuri a parte me; faceva un caldo brutale fuori dai magazzini OZ, l’associazione che ci ospitava. Dopo una breve introduzione di Pericoli, ci siamo divisi in gruppi in base ai testi che avevamo scelto. Ci siamo seduti a un tavolo, ci siamo presentati rapidamente e abbiamo cominciato a parlare del testo di Hempel. Era come se parlassimo di architettura. Dicevamo tensione, struttura, ritmo, aperture e chiusure, connessioni, passaggi, sequenze, vuoto. Dicevamo scena, che in realtà è il luogo dove le scene narrative si svolgono. Dicevamo climax, che significa scala.
Secondo il grande linguista George Lakoff le metafore non sono casuali: più sono cementate nel nostro linguaggio, più rivelano che l’affinità fra i due campi ha un reale fondamento cognitivo. È celebre l’esempio della matematica, di cui si parla spesso con metafora spaziale (numeri che si seguono, insiemi che contengono); Lakoff ha dimostrato che i processi mentali che attiva nel cervello sono gli stessi usati per orientarsi nel movimento.
Non so se ci sia un qualche fondamento cognitivo nell’idea che una storia è come una casa (ne dubito); quello che so è che parlare di una storia come se fosse una casa è un modo estremamente efficace per comprenderla.
Penso al nostro caso: tre sconosciuti seduti intorno a un tavolo che devono discutere di un testo che hanno letto. Le probabilità che qualcosa vada storto sono altissime: si può finire schiacciati dal silenzio imbarazzato, o smarriti nelle astrazioni sclerotizzate a cui ci abitua la scuola («intenzione dell’autore», «contesto storico»), o bloccati nel pantano del «secondo-me-lei-non-lo-amava-davvero».
A noi non è capitato nulla di tutto questo; la metafora architettonica ci ha indirizzati verso l’essenziale. La Hempel raccontava una storia, e poi l’episodio reale da cui questa era nata: e cioè l’episodio su cui questa si fondava, su cui si basava, che la racchiudeva. Questi sono termini spaziali, e ci è stato chiaro che la struttura del racconto si traduceva in due ambienti fra cui vigeva uno di quei rapporti.

La spirale di Dumas

Mi è venuto immediato estendere questa procedura ad altri testi che conosco e amo.
Democracy di Joan Didion – una storia d’amore raccontata in modo esploso, tornando ciclicamente alla stessa scena madre per poi diramarsi ogni volta in un momento diverso del passato dei due – è un labirinto in cui si ripassa sempre da una stanza centrale, vedendola ogni volta da prospettive diverse.
Il conte di Monte-Cristo di Alexandre Dumas, che racconta di una vendetta preparata per decenni, è una spirale ascendente: visto di fianco, è la storia di un’ascesa vertiginosa, visto da sopra è un percorso che porta esattamente al punto di partenza, e probabilmente finisce in uno strapiombo.
Questo è a tutti gli effetti un modo di visualizzare un’idea astratta, anzi, di toccarla con mano: finito il progetto ci siamo messi a realizzarne un modello. Oltre che essere molto divertente per me che passo la vita al computer (colla! taglierino!), questo ci ha permesso di scoprire aspetti di quell’idea che prima, al solo pensiero, non erano evidenti.
Ad esempio: tutto ciò che non è finito nel nostro progetto – i personaggi, le piccole scene, le battute di dialogo – si rivelava in qualche modo inessenziale; un personaggio poteva essere eliminato, una conversazione allungarsi o svolgersi altrove, ma l’esperienza complessiva del lettore non sarebbe cambiata in maniera cruciale. Questa è una verità che fa rabbrividire critici e teorici, ma che ogni lettore sa bene: in un romanzo, molta della superficie è secondaria o comunque rimpiazzabile, purché lo scheletro, progettato in ogni dettaglio e calibrato al microgrammo, resti inalterato. È quello scheletro che si costruisce nel modello. Vederne una prova sotto i miei occhi è stato sbalorditivo.
Ancora più sbalorditivo è stato rendersi conto che, alla fine del laboratorio, all’esposizione dei modelli, mi trovavo in una stanza con quindici persone che avevano passato tre giorni a discutere di teoria letteraria: ed era stato, inspiegabilmente, divertente e proficuo.

Lettori sudati

Credo che sia qui la rilevanza profonda del laboratorio, che va ben al di là delle sfere ristrette di scrittori e architetti e ha a che fare col modo in cui si comprende e si insegna la letteratura.
Tempo fa, sulle pagine di questo giornale, lamentavo la pesantezza e l’inefficacia del suo insegnamento scolastico, che spesso la fa apparire come una montagna inespugnabile anziché come una fonte di gioia. Sostenevo che era anche per questo che si leggeva poco e male. Di recente mi ha risposto Giusi Marchetta con uno splendido saggio (Lettori si cresce, Einaudi 2015) in cui argomenta che è un bene che gli studenti vedano la letteratura come una montagna, perché la scuola deve opporsi al meccanismo della gratificazione istantanea e insegnare che i premi importanti vanno sudati.
La sua tesi mi ha convinto, eppure restavo – resto – dell’idea che le montagne siano spaventose e inospitali, e che se la letteratura viene mostrata come tale gli studenti continueranno a preferire le spiagge di Instagram e le piscine gonfiabili di Candy Crush.
Al laboratorio – facendo teoria letteraria con cartoncino e matite – ho visto un’altra possibilità. Su quella montagna ci si costruisce una casa.

Leggi sul sito del Sole 24 Ore:
https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-09-28/laboratorio-architettura-letteraria-184136.shtml

di Matteo Pericoli
La Stampa Esteri, 10 maggio 2015

La settimana scorsa si è riunito il consiglio municipale della città di New York per discutere una proposta di legge, sostenuta dall’amministrazione del sindaco Bill de Blasio, che ha l’obiettivo di diminuire l’impatto ambientale di New York. La legge obbligherebbe, infatti, migliaia di edifici commerciali a ridurre in certe ore della notte l’illuminazione sia interna che esterna — in sostanza, a spegnere le luci quando si va via. La proposta, in linea con la promessa di Bill de Blasio di fare di New York una città più verde, ha, com’era prevedibile, sollevato animate reazioni da parte dei cittadini: da un lato, tra i favorevoli, gli ambientalisti e amanti della natura, che temono per le migrazioni notturne di uccelli e sognano notti più stellate; dall’altro, tra i contrari, quelli che associano la luce a un’idea di prosperità, di ostentata bellezza, di attrattiva turistica e, in qualche modo, a un senso di sicurezza.

Negli ultimi anni il mercato immobiliare di New York è esploso, sia dal punto di vista finanziario – risale al dicembre scorso la prima volta nella storia della città che un’unità residenziale non indipendente viene venduta a più di 100 milioni di dollari – che fisico: si stanno infatti moltiplicando gli edifici residenziali e commerciali che regolarmente battono record di altezza o volumetria. Dal nuovo grattacielo del World Trade Center all’ultima torre residenziale per straricchi, 432 Park Avenue, in una sorta di gara cacofonico-luminosa ognuno di questi edifici viene illuminato di notte perché sia più visibile del vicino.

Consapevoli forse che l’effetto dell’illuminazione scenica, cioè fine a se stessa e non utilitaristica, sia un elemento ormai parte del paesaggio urbano di New York, la proposta di legge include una piccola ma quasi diabolica eccezione: potranno illuminarsi per bellezza quegli edifici che sono “parte significativa dello skyline della città”. Ciò vuol dire che alcuni amministratori comunali si troveranno in pratica ad avere il “mandato di curare” (nel senso di curare una mostra) “lo skyline della città”, come dice il direttore della Landmarks Preservation Commission, a decidere cioè chi merita l’illuminazione teatrale notturna e chi no.

Dopo aver passato diversi anni a disegnare il profilo di Manhattan nella sua interezza – sia dall’esterno, come si vede circumnavigando l’isola, sia dall’interno, come lo si vede da Central Park – mi domando se i consiglieri comunali abbiano trovato delle risposte alla domande che mi hanno assillato a lungo: che cos’è lo skyline di una città? È una cosa fisica, tangibile, reale? O è solo un’idea, una percezione collettiva di un organismo in evoluzione che si trasforma nel tempo? E, soprattutto, può essere progettata o, addirittura, curata?

Lo skyline
Mi sono convinto nel tempo che lo skyline di una città, cioè il risultato di decenni di politiche territoriali e di sviluppo urbano, è un organismo con una sua energia e vitalità proprie. L’idea di controllarlo, di ulteriormente abbellirlo illuminandolo come fosse un singolo oggetto, va contro la sua natura. Poiché, come ho scoperto disegnandolo, è il contesto che rende lo skyline leggibile e, non potendo dire esattamente dove inizia e dove finisce, cosa vi appartiene con certezza e cosa non, dovremmo essere in grado di assorbirlo nella sua totalità e vedere la città accendersi e spegnersi seguendo i suoi ritmi naturali. Se New York è veramente la città che non dorme mai, allora non abbiamo bisogno di luci che lo accentuino, basta guardarla.

Una delle cose che impressiona di più, quando si arriva a New York la prima volta, è vederla respirare con le luci proprie: abituati agli scuri che di sera scendono nelle nostre città, Manhattan sembra svegliarsi al crepuscolo e cambiare d’abito. Gli uffici emanano la loro omogenea luce lavorativa ancora per un po’, poi il bagliore si trasferisce altrove. Forse si abbassa, e in certi punti può anche finire per spegnersi, ma non per questo si perde il fascino di un luogo vivo con i suoi cicli naturali. In questi momenti di passaggio la bellezza di Manhattan è ancor più struggente perché, incontrollata e incontrollabile, sembra inconsapevole e umana.

Leggi dal sito de La Stampa:
https://www.lastampa.it/esteri/2015/05/10/news/de-blasio-vuole-spegnere-le-mille-luci-di-new-york-1.35260453

di Matteo Pericoli

Il 4 marzo scorso è apparsa su FiveThirtyEight – il sito dello scrittore e studioso di statistica Nate Silver, noto per aver predetto accuratamente i risultati delle elezioni americane dal 2008 in avanti – un’interessante recensione di Draftback, un’applicazione che «tratta la scrittura come dati». Nella versione attuale, Draftback è un’estensione del browser Google Chrome che, sostanzialmente, registra in tempo reale non solo tutti i tasti che vengono premuti sulla tastiera durante la compilazione di un documento scritto (e quindi tutte le lettere, gli spazi, gli accapo, le cancellazioni, i ctrl+Z, i copia e incolla, ecc.), ma anche gli intervalli di tempo tra una battuta e l’altra. Alla fine, Draftback ci restituisce tutto ciò con una sorta di animazione dell’atto dello scrivere, riproducibile a noiosissima velocità normale, cioè esattamente seguendo i tempi della produzione del testo, oppure a velocità accelerata.

Prima di arrivare a Draftback, il programmatore (e scrittore) James Somers aveva passato anni a cercare di sviluppare un programma che facesse quello che Google Docs aveva sempre fatto: memorizzare e archiviare tutte le battute di tutti i documenti prodotti e salvati sui propri server. Gli è bastato quindi accedere al codice di Google Docs per poter rivedere le animazioni di tutti i suoi testi.

L’idea di un’applicazione che mostri la scia che l’atto dello scrivere lascia durante il suo faticoso percorso è significativa.

Da un lato, c’è l’effetto del progresso: per chi ancora usa normalmente carta e penna, o è a conoscenza dell’esistenza della macchina per scrivere, il fatto di poter rivedere il passaggio da una bozza all’altra, da un’idea all’altra, tra errori e passi falsi, è la norma, nulla di nuovo. Per molti, invece, la tecnologia significa un inesorabile distacco da esperienze cognitive e percettive che fino a poco tempo fa erano comuni. E quindi sorge, a un certo punto, il curioso desiderio di voler colmare, sempre tramite la tecnologia, il divario creatosi tra l’esperienza analogica e quella digitale.

Dall’altro lato, c’è il piacere, comune a molti, di poter spiare il processo creativo di altri, forse nella speranza di trarne qualche indicazione. A questo riguardo, tuttavia, l’argomento di fondo del creatore di Draftback nasconde un fraintendimento cruciale. Il programmatore dice al recensore: sappiamo come migliorare un violinista, ma non sappiamo come migliorare uno scrittore. L’idea è che, vedendo l’animazione di un testo mentre viene scritto, si possa capire meglio la tecnica con cui è stato creato, e quindi correggerla o imitarla.

Ma scrivere, come anche disegnare, non è una disciplina esecutiva come lo sono suonare il violino o danzare; è una disciplina compositiva. A differenza dell’esecuzione di una danza o di un brano musicale, nella composizione di un testo è soltanto davanti al lavoro in stato avanzato che se ne può parlare. È solo davanti a una frase o a un paragrafo completo che un ipotetico insegnante può intervenire per migliorarlo.

Alla fine, più banalmente, riguardando la scrittura animata di Draftback finiremo forse per sentirci un po’ rassicurati dagli altrui errori, ripensamenti, cancellature, tentennamenti e indecisioni. È proprio vero che, quando siamo soli davanti a uno schermo o a un foglio di carta bianco, ci troviamo un po’ tutti a ondeggiare sulla stessa fragile barca ed è futile cercare soccorso altrove.

Link all’articolo: https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-04-29/la-storia-miei-filedoc-181300.shtml

di Manuel Orazi

Il disegnatore italiano svela l’intimità di cinquanta viste dagli studi di scrittori d’ogni continente, da Al Aswany a Pamuk

Siccome gli uomini non sono monadi, per questo hanno bisogno di molte finestre. Ci scuserà Leibniz se forziamo il suo noto ragionamento, ma certo mai come oggi le finestre occupano la nostra vita dallo schermo del computer (magari con un sistema operativo Microsoft Windows) a quello dell’iPad, allo smartphone, finanche ai nuovi modelli digitali e interattivi di smartwatch e occhiali Google che ci dicono tutto e subito: fuso orario, umidità, se l’Udinese ha vinto, l’ultima dichiarazione di Putin e se domani c’è lo sciopero dei mezzi. Tutte metaforiche finestre sul mondo, plasmate a immagine e somiglianza di quelle tradizionali. Il grande architetto americano Robert Venturi, vent’anni or sono, ha scritto che la finestra è l’elemento architettonico decisivo per definire di primo acchito lo stile di un’epoca, di un singolo autore o di una regione (finestra barocca, a nastro lecorbusieriana, veneziana, ecc.). E giustamente Rem Koolhaas ha dedicato agli infissi una sala intera della sua mostra Elements alla Biennale di architettura ancora in corso a Venezia.

Quasi nessuno però si è soffermato sul verso più intimo delle finestre, quello interno, come invece fa Matteo Pericoli in Windows on the World: Fifty Writers, Fifty Views (Penguin Press, $ 18,33). Un libro dedicato alle finestre di cinquanta scrittori di ogni continente, appena uscito a quattro anni da The city Out My Window: 63 Views on New York (Simon & Schuster 2010, $ 31,44) che ritraeva piuttosto solo finestre di residenze illustri della Grande Mela, dove Pericoli ha vissuto e lavorato a lungo prima come architetto e poi come illustratore. Entrambi i libri consistono di disegni di finestre al tratto e in bianco e nero corredati da didascalie che diventano spesso brevi racconti dei proprietari. Scrive l’autore che è difficile prestare attenzione alle cose della nostra vita quotidiana se non quando le perdiamo. E la vista da una finestra, per quanto banale, è unica e insostituibile. In ogni caso, scrive ancora Pericoli, «sono arrivato a pensare che una finestra sia, in definitiva, più di un punto di contatto o di separazione con il mondo esterno. È anche una sorta di specchio che riflette le nostre occhiate all’interno, a ritroso sulle nostre stesse vite».

È una riflessione penetrante che accomuna anche i protagonisti di due grandi film della storia del cinema indissolubilmente legati a una finestra, anche perché entrambi costretti su una sedia a rotelle sebbene per motivi diversi: il dottor Pino Barillari de La lunga notte del ’43 che, osservando dagli scuri la noiosa routine del corso principale di Ferrara, esorcizza così la guerra e la malattia; o ancora La finestra sul cortile, il capolavoro di Hitchcock per cui sono state avanzate mille interpretazioni compresa quella psicanalitica, dove il fotografo Jeff-James Stewart è alle prese con i problemi di coppia cui cerca di sfuggire seguendo un giallo in gran parte immaginato. In ogni caso il fascino di queste cinquanta finestre, in parte pubblicate negli ultimi anni sul New York Times e The Paris Review e in parte inedite, risiede proprio in questo misto di osservazione e riflessione intimista. Ciò non toglie che dietro ogni disegno ci sia un lungo studio delle linee e delle distanze cercando la giusta profondità, che spesso e volentieri sconfinano nella veduta paesaggistica. Nuova Delhi, Giacarta, Il Cairo, Mogadiscio, Skopje, Reykjavik, Porto Alegre, Alberta e non solo le solite grandi città globali sono le protagoniste del libro (si possono vedere sopra, da sinistra, le viste di: Xi Chuan a Pechino; Orhan Pamuk a Instambul; Maria Kodama a Buenos Aires; Joumana Haddad a Jounieh in Libano; Alaa Al Aswany al Cairo). Ad esempio la splendida vista sul Bosforo e il Corno d’oro di cui gode Orhan Pamuk non lo distrae dalla scrittura, anzi: vedere che là fuori c’è sempre un inafferrabile paesaggio pieno di vita incessante, «rassicurazione del fatto che uno scrittore ha bisogno di continuare a scrivere e un lettore di continuare a leggere».


Pagina99, 22 novembre 2014

Non so come, ma sono finito nella pagina “Forse non tutti sanno che…” della Settimana Enigmistica. Un grande, grandissimo onore! Ecco il testo che accompagna questo disegno (dove il tizio con tanto di giacca, cravatta e nasone suppongo rappresenti me):

“L’architetto italiano Matteo Pericoli ha pubblicato nel 2001 un particolare libro consistente in un unico foglio ripiegato a fisarmonica e suddiviso in 24 pannelli, il quale aperto si estende per 6,7 metri e contiene la riproduzione a disegno dell’intero panorama di Manhattan.”

Se avessero chiesto a me di descrivere Manhattan Unfurled non avrei potuto fare meglio!

Clicca qui per vedere il ritaglio di giornale.


Il World Trade Center risulta più alto della Willis Tower di Chicago
I rivali attaccano: “Antenna camuffata da guglia”. A novembre il verdetto

di Matteo Pericoli

La Stampa, Cultura & Spettacoli, 8 ottobre 2013

Perché un primato sia veramente tale, deve essere innanzitutto verificato e in qualche modo certificato. Dopo sette anni dall’inizio dei lavori, il 2 maggio scorso viene finalmente issata l’ultima porzione di un enorme pinnacolo alto 124 metri in cima al nuovo grattacielo del World Trade Center (inizialmente noto come Freedom Tower, ma ribattezzato One World Trade Center nel 2009). Quando, nel giro di poche ore, la Port Authority of New York & New Jersey (vale a dire la proprietà dell’intero complesso) dichiara in un comunicato stampa, con un pizzico di arroganza, che «una volta completato, con i suoi 1776 piedi di altezza (541 metri) One WTC sarà l’edificio più alto dell’emisfero ovest», la reazione da parte di chi tali primati non li prende alla leggera non è di unanime accordo.

Perché? Per motivi linguistici e architettonici. Nel comunicato stampa si parla di «edificio» («building»), mentre in realtà si sarebbe dovuto usare, preventivamente, il termine meno specifico di «struttura». Infatti, i primati aggiudicati alle strutture alte sono suddivisi in tre categorie: 1) altezza architettonica (quella comunemente accettata per la definizione di «edificio»), cioè dalla base fuori terra fino alla punta architettonica, vale a dire incluso un eventuale pinnacolo (che abbia funzioni principalmente estetiche), ma non un’eventuale antenna, o ripetitore, o asta per bandiera, e così via; 2) altezza di utilizzo, cioè dalla base fino all’ultima quota abitata all’interno della struttura; e 3) altezza massima, cioè dalla base fino al punto più alto della struttura, qualsiasi esso sia (antenne e aste incluse).

Per districarci da questi pasticci linguistico-architettonici si riunirà a inizio novembre il «Council on Tall Buildings and Urban Habitat» di Chicago, fondato nel 1969 per stilare, una volta per tutte e senza dubbi, la classifica degli edifici più alti del mondo. Ma riusciranno a rimanere imparziali? Infatti, il «Council of Tall Buildings» ha sede a Chicago, la città della Willis Tower (fino a poco tempo fa nota come Sears Tower), nonché l’attuale detentrice del titolo di «edificio più alto dell’emisfero ovest» con i suoi 442 m di altezza architettonica, 413 m di altezza di utilizzo e 527 m di altezza massima.

La voglia di costruire sempre più in alto ha radici e tradizioni antiche. Senza andare troppo indietro nel tempo, nella stessa New York ci fu l’avvincente e, visti i tempi (erano gli anni 1929-1930), entusiasmante corsa al primato di altezza tra i grattacieli 40 Wall Street e Chrysler Building. La gara si consumò durante la costruzione, pressoché simultanea, dei due grattacieli. E finì con un colpo di coda, una mossa di furbizia ingegneristica, quando il famoso pinnacolo di completamento del Chrysler Building venne prima trasportato (di nascosto e rimpicciolito come un palo telescopico chiuso) in cima al cantiere, poi issato e infine, in poche ore, esteso a mo’ di canna da pesca per sorpassare l’ormai finito 40 Wall Street e regalare così il primato, durato poi solo un anno, al Chrysler Building.

E, senza andare troppo lontano, anche Torino ha dovuto di recente confrontarsi con la complessa questione se sconfiggere o meno un primato d’altezza. Infatti, il nuovo grattacielo della Compagnia di San Paolo alla fine non ce l’ha fatta a sorpassare la Mole Antonelliana e rimarrà più basso, anche se solo di una manciata di centimetri.

Dopo il comunicato stampa di maggio, in cui la «Port Authority of NY & NJ» si vantava che il One WTC fosse l’«edificio» più alto dell’emisfero ovest, è sorto un terribile dubbio. In un articolo in prima pagina del 10 settembre scorso, il Chicago Tribune si domanda se quel pinnacolo non sia forse un’antenna camuffata, abbassando quindi la quota dell’edificio vero e proprio, e lasciando così il titolo alla Willis Tower di Chicago. È vero che alla fine, per la città con l’edificio certificato più alto, c’è un premio che va oltre la questione di vanità; e cioè: più turisti, più prodotti da commercializzare e vendere, più diritti (legali, certificati) di vantarsene, affitti più alti, insomma un po’ più di tutto.

Intanto, in attesa della deliberazione del «Council on Tall Buildings» a inizio novembre, bisognerebbe forse soffermarsi a ripensare a questa ossessione così marcatamente fallica per gli edifici che a tutti i costi devono ergersi più alti degli altri, quando la vera magia dell’architettura è l’esatto opposto, cioè lo spazio pensato per essere percepito dal di dentro e che solo raramente possiamo cogliere nella sua interezza.

Ma, attenzione, una vittoria di New York e del One WTC potrebbe nascondere un’ironica sconfitta. Quattro anni fa, il «Council on Tall Buildings» ha cambiato le regole su come si misura l’altezza di un edificio: la base deve essere calcolata dal punto più basso di accesso pedonale. One WTD ha un ingresso secondario sulla facciata nord, che è più basso di cinque piedi rispetto a quello principale, sulla facciata sud. Dai fatidici 1776 piedi, numero che evoca l’anno della dichiarazione d’indipendenza statunitense, si passerebbe a un’altezza di 1781 piedi, e quindi a una data che, volendo, potrebbe ricordare, a vostra scelta: la scoperta del pianeta Urano, la fondazione di Los Angeles, o la pubblicazione della Critica della ragion pura di Kant.


La Stampa, 8 ottobre 2013

Prefazione

Un agglomerato di edifici non è sufficiente per costituire una città. E non ha importanza quanto sia grande, né quale sia la qualità architettonica dei singoli edifici o dell’organizzazione urbanistica del tutto. Ciò che importa è come l’agglomerato viene percepito da chi ci vive, come viene raccontato a chi lo visita, e come chi lo visita a sua volta lo racconterà al mondo esterno. Le città fisiche esistono, ovviamente, ma sono città solo in quanto vengono percepite. Gli agglomerati di edifici che chiamiamo città sono degli organismi viventi che si nutrono di percezioni e in cambio restituiscono storie, emozioni e sogni.

Prima di venire a Torino ho vissuto per tredici anni a New York. L’ho assorbita e ho cercato di disegnarla tutta, come fosse una cosa sola. Ne ho disegnato il profilo visto dai fiumi che la circondano, poi quello da Central Park. Poi, mentre stavo per cambiare casa e a trasloco quasi pronto, mi sono affacciato dalla mia finestra e ho capito che di città non ce n’era una, ma milioni, tante quante il numero dei suoi abitanti. E così ho visitato una moltitudine di finestre per disegnarne le viste e scoprire come vedono la città quelli che la abitano. Quando sono arrivato, Torino non la conoscevo per nulla. E forse ancora non la conosco: non passa un giorno che non incontri uno scorcio nuovo, un angolo o un palazzo mai visti. Ma dopo «un anno alla finestra» sento di avere iniziato a scoprirla. Invece di avvicinarmi dal di fuori e cercare lentamente di conoscerla – come capita normalmente – mi sono tuffato direttamente nel suo cuore. Ho visto come viene percepita da chi la abita; dalle sue finestre ho sentito i racconti di chi ci vive e ci è nato, o di chi, come me, è venuto da altrove. Dalle finestre ho potuto notare il tempo, lo si vede nelle architetture, e come in questi ultimi anni abbia cambiato questa città.

A chi chiedevo di mostrarmi la sua finestra dicevo che questo sarà un racconto di Torino vista dai suoi buchi, della più intima e più vera delle città.

– Matteo Pericoli
Maggio 2011