di Matteo Pericoli

Più che in altre tecniche di rappresentazione, nel disegno al tratto il processo decisionale e le conseguenti omissioni possono essere lette con chiarezza. Un disegno fatto di sole linee deve parlare in modo deliberato e chiaro. Lo schizzo, la pittura o la fotografia hanno un rapporto meno filtrato con la realtà. Trasferiscono in modo più diretto (compatibilmente con la tecnica stessa) come il cervello interpreta il mondo.

Un disegno fatto di linee compiute (cioè con un chiaro inizio e una fine) prima di diventare tale deve attraversare un ulteriore processo analitico durante il quale chi disegna si domanda «ho bisogno di quest’altra linea per descrivere ciò che ho già mostrato con questa?» oppure «di quante linee ho bisogno per rendere questo dettaglio il più chiaro possibile senza usare troppe linee?».

I disegni al tratto sono ovviamente strettamente imparentati con (o provengono dai) disegni architettonici — disegni per lo più tecnici, ricchi di dettagli e con proprie regole sintattiche. Infatti, sono spesso dei “documenti” il cui compito è trasmettere informazioni ben precise sia sull’estetica sia sui dettagli di un edificio. Più è chiaro un disegno architettonico, più è facile “leggere” le qualità compositive e costruttive di un progetto.

Stavo ancora lavorando nello studio dell’architetto Richard Meier quando, nel 1998, decisi di provare a usare quelle stesse linee che usavo al lavoro per raccontare Manhattan nella sua interezza. Avevo appena preso il battello della Circle Line e circumnavigato l’isola per cercare di vedere ciò che m’era stato fino a quel momento invisibile (standoci dentro): la città stessa. Avevo deciso di provare a trasferire quel progredire lento e rivelatore della gita in battello in un disegno anch’esso lungo e dettagliato (ci sono poi voluti anni per completare i due rotoli dei profili est e ovest di Manhattan) che mostrasse tutto invece di solo alcune parti.

In fondo, una questione che mi assillava da quando mi trasferii a New York nel 1995 era proprio che la città veniva descritta a pezzi, aree, quartieri — con i famosi edifici che svettano sugli altri e con poco rapporto col resto — ma sembrava difficile da afferrare in modo integrale. Mi domandai: che impressione mi farà alla fine l’aver disegnato tutto senza alcuna esclusione? E se disegnerò ogni cosa che si vede dal fiume con il minor numero di linee possibile, con delle onde buffe, senza mai misurare o usare un righello, il risultato sarà un qualcosa di vivo come la città stessa? Qualcosa con cui i bimbi vorranno interagire? Che vorranno colorare?

Il disegno al tratto è innanzitutto uno strumento cognitivo. Nel voler provare a disegnare tutto, cioè ogni cosa, speravo di arrivare a conoscere meglio e poter condividere la città come fosse, appunto, un unico oggetto. Mi resi conto ben presto che quel tutto che stavo disegnando in Manhattan Unfurled era molto di più della somma di tutte le sue piccole parti; che disegnando ogni cosa si finisce sì per imparare molto, ma anche che non è ben chiaro cosa si impari. È una diversa forma di conoscenza. È forse più un senso di profonda familiarità o intimità verso un luogo che non è più solo fisico.

Lo stesso accadde anni dopo con London Unfurled, l’altro progetto di disegno urbano su due lunghi rotoli di carta. Nel caso di Londra, nel giro di alcuni mesi passai dal non sapere praticamente nulla di una città dove non avevo mai vissuto a conoscerne tutti gli edifici che si affacciano sul Tamigi. Durante il lavoro, tutto quello che disegnavo del profilo di Londra mi si fissava in testa linea dopo linea, spesso prendendo il posto dell’immaginario che mi stavo creando della città dove mi ero appena trasferito (Torino).

Per riuscire a osservare e fare veramente nostra una cosa è quindi necessario disegnarla, a mano libera e possibilmente al tratto, cioè con delle linee ragionate. Per quello che mi riguarda, non c’è altro modo. Dopo sette anni che ci vivevo accanto, dovetti infatti disegnare la vista dalla mia finestra sull’Upper West Side di Manhattan per accorgermi che non l’avevo mai veramente vista. Finestre sul mondo (e, prima, The City Out My Window) nasce dal desiderio di svelare, tramite il disegno, quanto la quotidianità di ciò che si trova al di fuori della nostra finestra sia spesso invisibile ai nostri occhi inconsapevoli. E come, soffermandoci su ciò che abbiamo sempre sotto il naso, il nostro sguardo non finisca per riflettersi su di noi.

La collaborazione con gli scrittori di Finestre sul mondo non ha fatto altro che rafforzare quanto, come nella scrittura, il potenziale narrativo del disegno al tratto si nasconda nella qualità di ogni singola linea — nella sua abilità cioè, in quella precisa posizione e in nessun’altra, di trasmettere il massimo delle informazioni con il minimo sforzo di lettura.


Pagina99, 21 gennaio 2017

Architetture letterarie. Il Laboratorio di Architettura Letteraria è un progetto interdisciplinare di Matteo Pericoli nel quale l’architettura viene usata come strumento per analizzare e comprendere meglio le storie, disegnando e realizzando progetti architettonici. La Stampa sta pubblicando una rubrica che analizza in ogni puntata l’architettura di un libro. Oggi è la volta di “Il giudice e il suo boia”, di Friedrich Dürrenmatt.

“[…] una rubrica affascinante, un progetto di Matteo Pericoli. Non so neanche da dove cominciare tanto mi ha affascinato […] La dinamica del racconto si trasforma in una costruzione architettonica vera e propria […]”

Edoardo Camurri

Qui il link alla puntata di Pagina 3:
https://www.raiplayradio.it/audio/2016/09/La-forma-dei-libri-7dd11863-0e40-4f37-ab14-ce693e5459eb.html

“Gli anni” di Annie Ernaux

Le “strutture architettoniche” del testo rivelano cose che non sapevamo di sapere

di Matteo Pericoli

Vi è mai capitato, leggendo un libro, di avere l’impressione di trovarvi all’interno di una struttura costruita, consciamente o inconsciamente, dallo scrittore? Con ciò non intendo il naturale processo di visualizzazione delle ambientazioni descritte nel testo, ma la netta sensazione di sentirsi immersi in uno spazio, uno spazio letterario, costruito da qualcun altro.

Nel descrivere testi letterari si usano spesso metafore architettoniche, a partire dall’architettura del romanzo. Parlare di «costruzione di un testo» rende bene l’idea del laborioso atto di concatenare una parola all’altra. Un grande architetto è capace di farci muovere nello spazio con fluidità o con circospezione; ci fa rallentare per assorbire tutti i dettagli; ci può sorprendere o rassicurare. Un grande scrittore fa lo stesso.

Sono sei anni che con i partecipanti del Laboratorio di Architettura Letteraria cerchiamo di andare a scovare le strutture letterarie dei testi che analizziamo e di costruirne dei plastici architettonici, tangibili, fatti di cartone e colla. Usando lo spazio invece delle parole, cerchiamo di capire insieme come funziona, e di cosa è fatta (se così si può dire), l’architettura di un romanzo o di un racconto, di un saggio o di un qualsiasi tipo di testo letterario. Come in un progetto architettonico – dove si ha a che fare con idee spaziali da articolare, concatenare e trasmettere; strutture di sostegno; sequenze di volumi; sospensioni e sorprese – le questioni in un testo narrativo sembrano simili: come collegare diversi piani narrativi? Come esprimere tensione? Come organizzare la cronologia? Come collegare personaggi o creare un vuoto?

Al laboratorio partiamo dal testo e lavoriamo a ritroso: rimossa la materia di un edificio (muri, divisori, coperture, vetrate, ecc.), quel che resta è puro spazio. E tolte le parole da un romanzo, cosa resta? Cerchiamo un’idea compositiva che sia alla base della forma «costruita», architettonica o letteraria.

Le intuizioni strutturali, ma anche le emozioni e le sensazioni che prova ciascun partecipante durante la lettura, vengono ripensate e tradotte in termini di spazio, proporzioni, luce, ombra, pieni e vuoti. Siamo tutti esperti di architettura, nel senso letterale di esperire lo spazio. Infatti, durante il Laboratorio, anche chi non ha mai pensato o progettato in termini architettonici si trova a produrre idee fatte di spazio compositivo. Scopriamo che usando lo spazio invece delle parole riusciamo a penetrare un testo in modo più profondo. È come se, immersi nel romanzo che stiamo leggendo, potessimo alzare lo sguardo dal libro e vedere la sua architettura che, come per magia, si è andata via via creando attorno a noi; e scoprire che, come mi ha detto una studentessa-scrittrice davanti al suo plastico finito, «so delle cose su questa storia che non sapevo di sapere».

Pezzo pubblicato in occasione della prima uscita della rubrica “Architetture letterarie” su La Stampa (poi proseguita su Pagina99).
Leggi direttamente dal sito de La Stampa.

Matteo-Pericoli-Divine Comedy

Il disegno della cosmologia dantesca
di Matteo Pericoli

Le difficoltà nel realizzare un disegno dell’intera cosmologia dantesca possono dividersi in due gruppi: il primo comprende quelle legate al contesto, doversi cioè confrontare con una mastodontica e secolare mole iconografica; l’altro contiene questioni tecniche, cioè il tentativo di risolvere problemi pratici legati alla rappresentazione di nodi narrativi apparentemente impossibili da mostrare in un unico disegno.
Del primo gruppo vale forse solamente la pena dire che un anno di ricerche è servito a identificare quelli che sarebbero poi diventati i problemi pratici da affrontare, quelli cioè del secondo gruppo.
Delle tre cantiche, come molti sanno, l’Inferno è quella descritta meglio dal punto di vista strutturale. Se chiudiamo gli occhi, possiamo immaginare un disegno a imbuto con i cerchi che vanno restringendosi dall’alto verso il basso, dove Gerusalemme è in cima e Lucifero al centro della Terra. In pratica, stiamo visualizzando una sezione trasversale di mezza sfera terrestre, nella quale Gerusalemme, appunto, sta in alto, Gibilterra a sinistra (occidente) e il Gange a destra (oriente).
Ma se la norma è di rappresentare tutto ciò in sezione, come mostrare nello stesso disegno la prosecuzione del viaggio dei due protagonisti che dai piedi di Lucifero al centro della Terra, ruotando di 180 gradi, si snoderà poi verso il Purgatorio, cioè sulla superficie della Terra, senza mostrare anche il Purgatorio in sezione? E sulla porta di accesso all’Inferno, come far notare la transizione tra mondo “reale”, quello superiore (dove si trova la selva), e mondo inferiore? Se si mostra la transizione, si deve per forza mostrare anche il mondo superiore.
E, proseguendo, come mostrare il viaggio di Dante e Beatrice attraverso i cieli, le stelle fisse e il primo mobile, per poi “atterrare” sull’ulteriore dimensione celeste (slegata e indipendente dalle tre dimensioni dei mondi finora attraversati) della rosa candida, delle gerarchie angeliche e di Dio?
Queste sono alcune delle tante e tormentate domande che inevitabilmente ci si trova ad affrontare nel tentativo di far stare un gigantesco “tutto” in un unico disegno. Domande alle quali ho cercato di dare delle risposte con omissioni, tratteggi, sezioni, piccoli trucchi e bugie narrative (fatti di prospettive che cambiano, angoli nascosti, vedute non possibili) che fortunatamente il disegno permette di raccontare. Anzi, bugie che forse il disegno spinge a raccontare quando ci si butta in un’avventura ben più grande di noi.

Matteo Pericoli a Roma

di Luca Arnaudo

GUARDARE FUORI, VEDERE DENTRO
A tanti, tra i banchi di una scuola elementare, sarà capitato di ritrovarsi a lottare con il classico tema dal titolo “Guardo dalla finestra e vedo”. Ad alcuni, nelle situazioni più diverse, sarà poi occorso di sperimentare quello che, in una bella poesia di Paola Loreto, suona così: “Guardo fuori e vedo dentro”.
[…]
Nelle sue chine, raffinate e semplici, i contorni definiscono al tempo stesso oggetti riconoscibili, domestici e confortevoli, e vuoti suggestivi, a disposizione della rêverie, anche grazie a un intelligente accorgimento compositivo adottato con costanza dall’autore. Se, infatti, il mirare pensoso da una ventana oscilla tra il topos e il cliché – dal Romanticismo fino agli ultimi baluardi della figurazione novecentesca – la scelta di Pericoli di eliminare dall’immagine qualsiasi riferimento a figure rende ogni osservatore soggetto attivo dell’azione: le finestre, insomma, si aprono per noi, su mondi interni ed esterni che sono d’altri e nostri insieme.

Tricromia Art Gallery, Roma – fino al 20 febbraio 2016. Una collezione di finestre su mondi letterari, tracciate con una levità misurata e sognante. Al confine tra scrittura e immagine.

Continua a leggere qui:
https://www.artribune.com/report/2016/02/mostra-matteo-pericoli-galleria-tricromia-roma/

di Vincenzo Latronico

Rane – Il Sole 24 Ore – 29 settembre 2015

Tecnicamente sarebbe
un “workshop interdisciplinare”.
In pratica, è uno
strabiliante esperimento
intellettuale in grado di
mettere insieme le forbici
con la punta arrotondata
e i racconti di Kafka

In un torrido pomeriggio di inizio luglio stavo parlando con due amici di un testo di Amy Hempel intitolato Il Raccolto. Racconta la storia di un incidente d’auto capitato all’autrice, e poi la racconta di nuovo: elencando le omissioni e gli aggiustamenti fatti alla prima versione per renderla efficace e brillante, svelando le piccole insicurezze di chi scrive, le bugie e le vergogne. L’effetto è accattivante e straniante allo stesso tempo. Alla fine la prima storia – quella “romanzata” – non sta in piedi.
«Non si regge», ho detto. «La seconda parte gli toglie ogni punto d’appoggio».
«È vero», ha detto Stefania. «Servirebbe un pilastro».
Non era una metafora per riferirsi a una frase efficace. Stefania parlava proprio di un pilastro. La prima parte del racconto della Hempel era un osservatorio a picco su una montagna, scavato all’interno di un salone più grande che era la seconda, e non si reggeva.
Poi abbiamo aggiunto un pilastro, che Andrea ha ritagliato nel cartoncino vegetale, e allora sì.
Eravamo al Laboratorio di Architettura Letteraria, uno strabiliante esperimento intellettuale portato avanti da Matteo Pericoli, architetto e disegnatore. Tecnicamente è un “workshop interdisciplinare”, ma il termine è un po’ urticante e calza male a una situazione in cui sono presenti in egual misura Kafka e forbici con la punta arrotondata.
Per introdurre il tema del laboratorio, Pericoli cita spesso un brano di Alice Munro: «Una storia non è una strada da percorrere (…) è più come una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo come le camere stiano in rapporto col corridoio, come il mondo esterno viene alterato se lo guardi da queste finestre. E anche tu, il visitatore, il lettore, sei alterato dall’essere in questo spazio chiuso, ampio e facile o pieno di svolte e angoli che sia, pieno oppure vuoto di arredamento. [Questa casa] trasmette anche un forte senso di sé, di essere stata costruita per una sua necessità, non solo per fare da riparo o per stupirti».
L’idea di fondo del laboratorio è che questa metafora – che il percorso del lettore in un libro è simile al percorso di una persona in uno spazio – può essere presa sul serio; e che l’architettura può essere usata come strumento concettuale per analizzare e comprendere una storia, disegnandone un progetto strutturale e costruendone letteralmente un modello.

Strutture, vuoti, scale

In passato i corsi si sono tenuti in varie forme alla Columbia University di New York e alla Scuola Holden di Torino, in scuole superiori statunitensi e all’Università di Ferrara; io ho preso parte a un’iterazione che si è svolta all’interno del festival “Architettura in città” dell’Ordine degli Architetti di Torino.
Eravamo in quindici, tutti architetti presenti o futuri a parte me; faceva un caldo brutale fuori dai magazzini OZ, l’associazione che ci ospitava. Dopo una breve introduzione di Pericoli, ci siamo divisi in gruppi in base ai testi che avevamo scelto. Ci siamo seduti a un tavolo, ci siamo presentati rapidamente e abbiamo cominciato a parlare del testo di Hempel. Era come se parlassimo di architettura. Dicevamo tensione, struttura, ritmo, aperture e chiusure, connessioni, passaggi, sequenze, vuoto. Dicevamo scena, che in realtà è il luogo dove le scene narrative si svolgono. Dicevamo climax, che significa scala.
Secondo il grande linguista George Lakoff le metafore non sono casuali: più sono cementate nel nostro linguaggio, più rivelano che l’affinità fra i due campi ha un reale fondamento cognitivo. È celebre l’esempio della matematica, di cui si parla spesso con metafora spaziale (numeri che si seguono, insiemi che contengono); Lakoff ha dimostrato che i processi mentali che attiva nel cervello sono gli stessi usati per orientarsi nel movimento.
Non so se ci sia un qualche fondamento cognitivo nell’idea che una storia è come una casa (ne dubito); quello che so è che parlare di una storia come se fosse una casa è un modo estremamente efficace per comprenderla.
Penso al nostro caso: tre sconosciuti seduti intorno a un tavolo che devono discutere di un testo che hanno letto. Le probabilità che qualcosa vada storto sono altissime: si può finire schiacciati dal silenzio imbarazzato, o smarriti nelle astrazioni sclerotizzate a cui ci abitua la scuola («intenzione dell’autore», «contesto storico»), o bloccati nel pantano del «secondo-me-lei-non-lo-amava-davvero».
A noi non è capitato nulla di tutto questo; la metafora architettonica ci ha indirizzati verso l’essenziale. La Hempel raccontava una storia, e poi l’episodio reale da cui questa era nata: e cioè l’episodio su cui questa si fondava, su cui si basava, che la racchiudeva. Questi sono termini spaziali, e ci è stato chiaro che la struttura del racconto si traduceva in due ambienti fra cui vigeva uno di quei rapporti.

La spirale di Dumas

Mi è venuto immediato estendere questa procedura ad altri testi che conosco e amo.
Democracy di Joan Didion – una storia d’amore raccontata in modo esploso, tornando ciclicamente alla stessa scena madre per poi diramarsi ogni volta in un momento diverso del passato dei due – è un labirinto in cui si ripassa sempre da una stanza centrale, vedendola ogni volta da prospettive diverse.
Il conte di Monte-Cristo di Alexandre Dumas, che racconta di una vendetta preparata per decenni, è una spirale ascendente: visto di fianco, è la storia di un’ascesa vertiginosa, visto da sopra è un percorso che porta esattamente al punto di partenza, e probabilmente finisce in uno strapiombo.
Questo è a tutti gli effetti un modo di visualizzare un’idea astratta, anzi, di toccarla con mano: finito il progetto ci siamo messi a realizzarne un modello. Oltre che essere molto divertente per me che passo la vita al computer (colla! taglierino!), questo ci ha permesso di scoprire aspetti di quell’idea che prima, al solo pensiero, non erano evidenti.
Ad esempio: tutto ciò che non è finito nel nostro progetto – i personaggi, le piccole scene, le battute di dialogo – si rivelava in qualche modo inessenziale; un personaggio poteva essere eliminato, una conversazione allungarsi o svolgersi altrove, ma l’esperienza complessiva del lettore non sarebbe cambiata in maniera cruciale. Questa è una verità che fa rabbrividire critici e teorici, ma che ogni lettore sa bene: in un romanzo, molta della superficie è secondaria o comunque rimpiazzabile, purché lo scheletro, progettato in ogni dettaglio e calibrato al microgrammo, resti inalterato. È quello scheletro che si costruisce nel modello. Vederne una prova sotto i miei occhi è stato sbalorditivo.
Ancora più sbalorditivo è stato rendersi conto che, alla fine del laboratorio, all’esposizione dei modelli, mi trovavo in una stanza con quindici persone che avevano passato tre giorni a discutere di teoria letteraria: ed era stato, inspiegabilmente, divertente e proficuo.

Lettori sudati

Credo che sia qui la rilevanza profonda del laboratorio, che va ben al di là delle sfere ristrette di scrittori e architetti e ha a che fare col modo in cui si comprende e si insegna la letteratura.
Tempo fa, sulle pagine di questo giornale, lamentavo la pesantezza e l’inefficacia del suo insegnamento scolastico, che spesso la fa apparire come una montagna inespugnabile anziché come una fonte di gioia. Sostenevo che era anche per questo che si leggeva poco e male. Di recente mi ha risposto Giusi Marchetta con uno splendido saggio (Lettori si cresce, Einaudi 2015) in cui argomenta che è un bene che gli studenti vedano la letteratura come una montagna, perché la scuola deve opporsi al meccanismo della gratificazione istantanea e insegnare che i premi importanti vanno sudati.
La sua tesi mi ha convinto, eppure restavo – resto – dell’idea che le montagne siano spaventose e inospitali, e che se la letteratura viene mostrata come tale gli studenti continueranno a preferire le spiagge di Instagram e le piscine gonfiabili di Candy Crush.
Al laboratorio – facendo teoria letteraria con cartoncino e matite – ho visto un’altra possibilità. Su quella montagna ci si costruisce una casa.

Leggi sul sito del Sole 24 Ore:
https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-09-28/laboratorio-architettura-letteraria-184136.shtml

di Matteo Pericoli
La Stampa Esteri, 10 maggio 2015

La settimana scorsa si è riunito il consiglio municipale della città di New York per discutere una proposta di legge, sostenuta dall’amministrazione del sindaco Bill de Blasio, che ha l’obiettivo di diminuire l’impatto ambientale di New York. La legge obbligherebbe, infatti, migliaia di edifici commerciali a ridurre in certe ore della notte l’illuminazione sia interna che esterna — in sostanza, a spegnere le luci quando si va via. La proposta, in linea con la promessa di Bill de Blasio di fare di New York una città più verde, ha, com’era prevedibile, sollevato animate reazioni da parte dei cittadini: da un lato, tra i favorevoli, gli ambientalisti e amanti della natura, che temono per le migrazioni notturne di uccelli e sognano notti più stellate; dall’altro, tra i contrari, quelli che associano la luce a un’idea di prosperità, di ostentata bellezza, di attrattiva turistica e, in qualche modo, a un senso di sicurezza.

Negli ultimi anni il mercato immobiliare di New York è esploso, sia dal punto di vista finanziario – risale al dicembre scorso la prima volta nella storia della città che un’unità residenziale non indipendente viene venduta a più di 100 milioni di dollari – che fisico: si stanno infatti moltiplicando gli edifici residenziali e commerciali che regolarmente battono record di altezza o volumetria. Dal nuovo grattacielo del World Trade Center all’ultima torre residenziale per straricchi, 432 Park Avenue, in una sorta di gara cacofonico-luminosa ognuno di questi edifici viene illuminato di notte perché sia più visibile del vicino.

Consapevoli forse che l’effetto dell’illuminazione scenica, cioè fine a se stessa e non utilitaristica, sia un elemento ormai parte del paesaggio urbano di New York, la proposta di legge include una piccola ma quasi diabolica eccezione: potranno illuminarsi per bellezza quegli edifici che sono “parte significativa dello skyline della città”. Ciò vuol dire che alcuni amministratori comunali si troveranno in pratica ad avere il “mandato di curare” (nel senso di curare una mostra) “lo skyline della città”, come dice il direttore della Landmarks Preservation Commission, a decidere cioè chi merita l’illuminazione teatrale notturna e chi no.

Dopo aver passato diversi anni a disegnare il profilo di Manhattan nella sua interezza – sia dall’esterno, come si vede circumnavigando l’isola, sia dall’interno, come lo si vede da Central Park – mi domando se i consiglieri comunali abbiano trovato delle risposte alla domande che mi hanno assillato a lungo: che cos’è lo skyline di una città? È una cosa fisica, tangibile, reale? O è solo un’idea, una percezione collettiva di un organismo in evoluzione che si trasforma nel tempo? E, soprattutto, può essere progettata o, addirittura, curata?

Lo skyline
Mi sono convinto nel tempo che lo skyline di una città, cioè il risultato di decenni di politiche territoriali e di sviluppo urbano, è un organismo con una sua energia e vitalità proprie. L’idea di controllarlo, di ulteriormente abbellirlo illuminandolo come fosse un singolo oggetto, va contro la sua natura. Poiché, come ho scoperto disegnandolo, è il contesto che rende lo skyline leggibile e, non potendo dire esattamente dove inizia e dove finisce, cosa vi appartiene con certezza e cosa non, dovremmo essere in grado di assorbirlo nella sua totalità e vedere la città accendersi e spegnersi seguendo i suoi ritmi naturali. Se New York è veramente la città che non dorme mai, allora non abbiamo bisogno di luci che lo accentuino, basta guardarla.

Una delle cose che impressiona di più, quando si arriva a New York la prima volta, è vederla respirare con le luci proprie: abituati agli scuri che di sera scendono nelle nostre città, Manhattan sembra svegliarsi al crepuscolo e cambiare d’abito. Gli uffici emanano la loro omogenea luce lavorativa ancora per un po’, poi il bagliore si trasferisce altrove. Forse si abbassa, e in certi punti può anche finire per spegnersi, ma non per questo si perde il fascino di un luogo vivo con i suoi cicli naturali. In questi momenti di passaggio la bellezza di Manhattan è ancor più struggente perché, incontrollata e incontrollabile, sembra inconsapevole e umana.

Leggi dal sito de La Stampa:
https://www.lastampa.it/esteri/2015/05/10/news/de-blasio-vuole-spegnere-le-mille-luci-di-new-york-1.35260453

di Matteo Pericoli

Il 4 marzo scorso è apparsa su FiveThirtyEight – il sito dello scrittore e studioso di statistica Nate Silver, noto per aver predetto accuratamente i risultati delle elezioni americane dal 2008 in avanti – un’interessante recensione di Draftback, un’applicazione che «tratta la scrittura come dati». Nella versione attuale, Draftback è un’estensione del browser Google Chrome che, sostanzialmente, registra in tempo reale non solo tutti i tasti che vengono premuti sulla tastiera durante la compilazione di un documento scritto (e quindi tutte le lettere, gli spazi, gli accapo, le cancellazioni, i ctrl+Z, i copia e incolla, ecc.), ma anche gli intervalli di tempo tra una battuta e l’altra. Alla fine, Draftback ci restituisce tutto ciò con una sorta di animazione dell’atto dello scrivere, riproducibile a noiosissima velocità normale, cioè esattamente seguendo i tempi della produzione del testo, oppure a velocità accelerata.

Prima di arrivare a Draftback, il programmatore (e scrittore) James Somers aveva passato anni a cercare di sviluppare un programma che facesse quello che Google Docs aveva sempre fatto: memorizzare e archiviare tutte le battute di tutti i documenti prodotti e salvati sui propri server. Gli è bastato quindi accedere al codice di Google Docs per poter rivedere le animazioni di tutti i suoi testi.

L’idea di un’applicazione che mostri la scia che l’atto dello scrivere lascia durante il suo faticoso percorso è significativa.

Da un lato, c’è l’effetto del progresso: per chi ancora usa normalmente carta e penna, o è a conoscenza dell’esistenza della macchina per scrivere, il fatto di poter rivedere il passaggio da una bozza all’altra, da un’idea all’altra, tra errori e passi falsi, è la norma, nulla di nuovo. Per molti, invece, la tecnologia significa un inesorabile distacco da esperienze cognitive e percettive che fino a poco tempo fa erano comuni. E quindi sorge, a un certo punto, il curioso desiderio di voler colmare, sempre tramite la tecnologia, il divario creatosi tra l’esperienza analogica e quella digitale.

Dall’altro lato, c’è il piacere, comune a molti, di poter spiare il processo creativo di altri, forse nella speranza di trarne qualche indicazione. A questo riguardo, tuttavia, l’argomento di fondo del creatore di Draftback nasconde un fraintendimento cruciale. Il programmatore dice al recensore: sappiamo come migliorare un violinista, ma non sappiamo come migliorare uno scrittore. L’idea è che, vedendo l’animazione di un testo mentre viene scritto, si possa capire meglio la tecnica con cui è stato creato, e quindi correggerla o imitarla.

Ma scrivere, come anche disegnare, non è una disciplina esecutiva come lo sono suonare il violino o danzare; è una disciplina compositiva. A differenza dell’esecuzione di una danza o di un brano musicale, nella composizione di un testo è soltanto davanti al lavoro in stato avanzato che se ne può parlare. È solo davanti a una frase o a un paragrafo completo che un ipotetico insegnante può intervenire per migliorarlo.

Alla fine, più banalmente, riguardando la scrittura animata di Draftback finiremo forse per sentirci un po’ rassicurati dagli altrui errori, ripensamenti, cancellature, tentennamenti e indecisioni. È proprio vero che, quando siamo soli davanti a uno schermo o a un foglio di carta bianco, ci troviamo un po’ tutti a ondeggiare sulla stessa fragile barca ed è futile cercare soccorso altrove.

Link all’articolo: https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-04-29/la-storia-miei-filedoc-181300.shtml

di Manuel Orazi

Il disegnatore italiano svela l’intimità di cinquanta viste dagli studi di scrittori d’ogni continente, da Al Aswany a Pamuk

Siccome gli uomini non sono monadi, per questo hanno bisogno di molte finestre. Ci scuserà Leibniz se forziamo il suo noto ragionamento, ma certo mai come oggi le finestre occupano la nostra vita dallo schermo del computer (magari con un sistema operativo Microsoft Windows) a quello dell’iPad, allo smartphone, finanche ai nuovi modelli digitali e interattivi di smartwatch e occhiali Google che ci dicono tutto e subito: fuso orario, umidità, se l’Udinese ha vinto, l’ultima dichiarazione di Putin e se domani c’è lo sciopero dei mezzi. Tutte metaforiche finestre sul mondo, plasmate a immagine e somiglianza di quelle tradizionali. Il grande architetto americano Robert Venturi, vent’anni or sono, ha scritto che la finestra è l’elemento architettonico decisivo per definire di primo acchito lo stile di un’epoca, di un singolo autore o di una regione (finestra barocca, a nastro lecorbusieriana, veneziana, ecc.). E giustamente Rem Koolhaas ha dedicato agli infissi una sala intera della sua mostra Elements alla Biennale di architettura ancora in corso a Venezia.

Quasi nessuno però si è soffermato sul verso più intimo delle finestre, quello interno, come invece fa Matteo Pericoli in Windows on the World: Fifty Writers, Fifty Views (Penguin Press, $ 18,33). Un libro dedicato alle finestre di cinquanta scrittori di ogni continente, appena uscito a quattro anni da The city Out My Window: 63 Views on New York (Simon & Schuster 2010, $ 31,44) che ritraeva piuttosto solo finestre di residenze illustri della Grande Mela, dove Pericoli ha vissuto e lavorato a lungo prima come architetto e poi come illustratore. Entrambi i libri consistono di disegni di finestre al tratto e in bianco e nero corredati da didascalie che diventano spesso brevi racconti dei proprietari. Scrive l’autore che è difficile prestare attenzione alle cose della nostra vita quotidiana se non quando le perdiamo. E la vista da una finestra, per quanto banale, è unica e insostituibile. In ogni caso, scrive ancora Pericoli, «sono arrivato a pensare che una finestra sia, in definitiva, più di un punto di contatto o di separazione con il mondo esterno. È anche una sorta di specchio che riflette le nostre occhiate all’interno, a ritroso sulle nostre stesse vite».

È una riflessione penetrante che accomuna anche i protagonisti di due grandi film della storia del cinema indissolubilmente legati a una finestra, anche perché entrambi costretti su una sedia a rotelle sebbene per motivi diversi: il dottor Pino Barillari de La lunga notte del ’43 che, osservando dagli scuri la noiosa routine del corso principale di Ferrara, esorcizza così la guerra e la malattia; o ancora La finestra sul cortile, il capolavoro di Hitchcock per cui sono state avanzate mille interpretazioni compresa quella psicanalitica, dove il fotografo Jeff-James Stewart è alle prese con i problemi di coppia cui cerca di sfuggire seguendo un giallo in gran parte immaginato. In ogni caso il fascino di queste cinquanta finestre, in parte pubblicate negli ultimi anni sul New York Times e The Paris Review e in parte inedite, risiede proprio in questo misto di osservazione e riflessione intimista. Ciò non toglie che dietro ogni disegno ci sia un lungo studio delle linee e delle distanze cercando la giusta profondità, che spesso e volentieri sconfinano nella veduta paesaggistica. Nuova Delhi, Giacarta, Il Cairo, Mogadiscio, Skopje, Reykjavik, Porto Alegre, Alberta e non solo le solite grandi città globali sono le protagoniste del libro (si possono vedere sopra, da sinistra, le viste di: Xi Chuan a Pechino; Orhan Pamuk a Instambul; Maria Kodama a Buenos Aires; Joumana Haddad a Jounieh in Libano; Alaa Al Aswany al Cairo). Ad esempio la splendida vista sul Bosforo e il Corno d’oro di cui gode Orhan Pamuk non lo distrae dalla scrittura, anzi: vedere che là fuori c’è sempre un inafferrabile paesaggio pieno di vita incessante, «rassicurazione del fatto che uno scrittore ha bisogno di continuare a scrivere e un lettore di continuare a leggere».


Pagina99, 22 novembre 2014

Non so come, ma sono finito nella pagina “Forse non tutti sanno che…” della Settimana Enigmistica. Un grande, grandissimo onore! Ecco il testo che accompagna questo disegno (dove il tizio con tanto di giacca, cravatta e nasone suppongo rappresenti me):

“L’architetto italiano Matteo Pericoli ha pubblicato nel 2001 un particolare libro consistente in un unico foglio ripiegato a fisarmonica e suddiviso in 24 pannelli, il quale aperto si estende per 6,7 metri e contiene la riproduzione a disegno dell’intero panorama di Manhattan.”

Se avessero chiesto a me di descrivere Manhattan Unfurled non avrei potuto fare meglio!

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