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Il grande museo vivente dell’immaginazione scritto da Matteo Pericoli ci accompagna nell’esplorazione delle architetture letterarie

di Mario Gerosa

Ogni architettura conserva in sé una storia, racconta qualcosa che sfugge all’evidente idea di funzionalità. Certo, ogni casa, edificio, palazzo o castello prima di tutto assolve alle esigenze abitative di chi ci deve vivere, e nella maggior parte dei casi risponde anche a precisi canoni tipologici. Infine rimanda alle proporzioni legate alle dimensioni dell’uomo, normate dal disegno dell’uomo leonardesco come dal Modulor di Le Corbusier.

Ma ci sono anche architetture immateriali che compongono un poliedrico universo a parte, e c’è anche una voce interiore dell’architettura, sia essa letteraria o costruita in calce e mattoni, che rimanda a una narrazione, spesso sviluppata sulla base delle sedimentazioni e delle stratificazioni delle emozioni provate dai visitatori che vi si sono succeduti.

Ha fatto emergere tutti questi concetti Matteo Pericoli, architetto e disegnatore, che nel 2010 ha fondato il Laboratorio di architettura letteraria (www.lablitarch.com), “un’esplorazione multidisciplinare della narrativa e dello spazio”, un punto di riferimento importante e autorevole per gli studi in quest’ambito presentato in numerose conferenze e workshop in tutto il mondo.

Pericoli ha sistematizzato tutta una serie di pensieri e ragionamenti legati a una visione trasversale dell’arte del costruire ne Il grande museo vivente dell’immaginazione (Il Saggiatore).

Il libro è strutturato come una visita guidata all’interno di una macro-architettura composta da molte costruzioni, a definire un ideale gigantesco complesso. Come se ci trovasse in uno spazio fisico, la trattazione procede attraverso una serie di ambienti in cui il lettore può sentirsi a proprio agio, riconoscendo una sequenza familiare: il museo di architettura letteraria concepito sulla carta da Pericoli comprende tre piani, con un ingresso, cinque sale, un salone e un cortile. Nei primi due piani il ragionamento sugli spazi prende in esame molte architetture del mondo reale, dal Pantheon al Guggenheim Museum, dal Partenone a Villa Savoye, intrecciando e intersecando considerazioni legate anche ad esempi dell’architettura letteraria. Da un confronto che si fa sempre più serrato e avvincente, emergono assonanze e affinità tra l’architettura scritta e quella costruita.

Un passo verso l’oltre

In un altro capitolo, quello del Secondo piano, ci si sposta nel territorio delle architetture letterarie, con singoli esempi dedicati alle invenzioni architettoniche di dodici grandi autori, da Calvino a Dürrenmatt, passando per Vonnegut. Più ci si addentra nella lettura, più sfumano i confini tra i due tipi di architetture, quella costruita, che per comodità, con un termine improprio, si può chiamare “architettura vera” e l’altra, quella letteraria.

L’“architettura vera” è una curiosa espressione, nota Pericoli. “Come se ce ne fosse una “non vera”, e quindi “falsa”? “finta”? “non reale”? “intangibile”?. In fondo l’architettura sta alla costruzione come la scrittura sta alla dattilografia, o all’atto dello scrivere. L’architetto non “serve” per costruire (lo possono e lo fanno in tanti), come lo scrittore o la scrittrice non “servono” per il comporre frasi, parole, testi. C’è quindi forse l’idea —, molto condivisa e forse anche legittima — che da un lato ci sia l’“architettura letteraria”, immateriale, intangibile, forse solo il risultato di un impegno mentale o intellettuale, e dall’altro c’è l’“architettura vera”, ovvero quella costruita, tangibile, ferma, fissa, oggettiva. E che le due cose siano divise, separate. Ecco, io credo invece fortemente che, una volta che ci si abbandona all’idea che una storia è come una casa, una casa da esplorare, da abitare, dalle cui finestre vedere un mondo cambiato, che cambia, come cambiamo noi, ad ogni nuova visita e che quindi è un qualcosa di “reale”, quanto è reale il nostro esperire l’architettura, lo spazio, il movimento, le proporzioni, i cambi di livello, le salite, le discese, le aperture, il buio, la chiarezza, e così via, allora siamo pronti a leggere come la narrazione impregni tutto, sia dappertutto, e sia parte fondante dello spazio architettonico che noi leggiamo e percepiamo quotidianamente, esattamente come immagazziniamo nella mente il funzionamento di una storia o di un testo letterario in generale. Qui dobbiamo fare attenzione al fraintendimento principale: non come percepiamo e leggiamo, e quindi immaginiamo, ciò che una storia ci descrive (i suoi ambienti, i luoghi, i paesaggi, i suoi personaggi, come sono vestiti, ecc.), ma come impariamo a muoverci all’interno di quella costruzione che è il prodotto di come la storia è stata costruita (secondo noi e le nostre inclinazioni) — quindi i suoi materiali, la sua sintassi, la sua voce, la grammatica, il contesto culturale, i riferimenti su cui poggia, e così via. L’architettura letteraria ci può dare quel senso di fiducia nello scoprire con disinvoltura, e magari piacere, il racconto degli spazi architettonici, come si concatenano, come si rivelano a noi — a noi in relazione alla nostra inclinazione e alla nostra lettura — e non (o non solo) la storia di come sono venute a esistere le architetture”.

Tutti questi concetti emergono nel libro, pensato come un’avvincente promenade architetturale tra diversi tipi di costruzioni. Ma quali sono le architetture letterarie che hanno colpito maggiormente l’immaginario di Matteo Pericoli?

Ho visitato un numero enorme di architetture letterarie, edifici costruiti sia dopo aver letto io i testi, e averli quindi “progettati” nella mia mente, sia dopo le letture e progettazioni fatte da altri. Quelle che mi hanno colpito di più sono forse quelle che nascondono delle intuizioni e idee la cui forma non poteva che essere espressa in quel modo, cioè attraverso l’architettura, e non con l’uso delle parole. La bellezza di questo approccio, metodo, o visione che dir si voglia (del Laboratorio di architettura letteraria), è che una volta che ci si trova dall’“altra parte”, la parte al di là delle parole, nel luogo in cui il testo è una serie di forme e spazi architettonici, quindi privo di parole, da manipolare ed esplorare con libertà e disinvoltura, si ha accesso a quello stadio, che di solito non dura che un istante, nel quale le nostre idee hanno una forma prima di avere un contenuto.

Mi viene in mente un progetto di un gruppo di studenti liceali. Stavano lavorando al racconto di Ernest Hemingway Colline come elefanti bianchi e per loro l’elemento cruciale, il fulcro attorno al quale si arrovellavano la storia, il testo, i protagonisti e la loro lettura era il peso della decisione se lei farà o non farà un intervento, una “piccola operazione”, di cui i due protagonisti discutono con fervore senza descriverne i dettagli. L’architettura di questo gruppo di ragazz* è una piazza a un livello inferiore della città, dove siamo spinti a scendere (siamo attratti dal vuoto) e su cui grava, sospeso, un enorme cubo nero, il peso della decisione, a una quota e a una posizione tale che provoca un senso sia di disagio sia di curiosità. L’idea dei due protagonisti non è presente nel progetto, e già questo mi parve bello e forte. Ma la cosa che mi colpì di più, per chiarezza, forza, eleganza e sofisticatezza di pensiero, era che i tiranti che tengono quel cubo in sospensione, tiranti di lunghezze diverse l’una dall’altra per via della posizione decentrata e asimmetrica del volume rispetto al tutto, lavorano (letteralmente lavorano) in modo diverso, alcuni sono più tesi e sottoposti a maggior tensione, altri meno. Quelle diverse tensioni rappresentano i vari momenti di tensione nel dialogo tra i due protagonisti che decisamente non funziona”.

Nel libro appare evidente che nelle architetture letterarie c’è sempre uno spiccato senso del racconto. Viene spontaneo chiedersi se questa dimensione narrativa si ritrovi anche nelle architetture costruite.

Come ogni storia che, dal momento in cui abbandona la penna o il tavolo di chi l’ha scritta e viene lasciata andare, deve necessariamente avere una sua struttura architettonica, così ogni architettura è necessariamente impregnata di narrazione. Che ciò accada in modo consapevole o inconsapevole è irrilevante. C’è chi scrive con una forte propensione verso la progettazione architettonica del testo che sta costruendo, e c’è chi scrive lasciandosi invece guidare dal proprio istinto o mosso da chissà quali altre “forze”. Ma, alla fine, il prodotto è una struttura che dovrà bene o male “stare in piedi” per essere letta. Ribaltando la situazione, gran parte delle decisioni che gli architetti prendono, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, sono assimilabili a quelle che deve prendere chi scrive: come concatenare in modo sensato gli spazi? Come rivelare lo spazio principale? Come utilizzare la chiarezza data dalla luce? Come creare sorprese o aspettative? Come rendere evidente o nascondere la struttura che sorregge il tutto? Come utilizzare, se si vuole, riferimenti linguistici legati al passato? (E a quale passato?). Che forma, e quindi voce, dare al tutto?”.

Resta ancora da capire in quali architetture costruite sia più rilevante la componente narrativa.

In tutte”, afferma Pericoli. “In architettura, la “componente narrativa” è inestricabile da una qualsiasi decisione compositiva. Nel libro-museo, al Primo piano, nella Sala 3, dico: «le scelte che si fanno durante la composizione di strutture architettoniche sono qualitativamente molto simili a quelle che fa chi sta narrando una storia.»

E poi parte questo lungo elenco di (auto)domande e risposte:

«Per esempio: porre un ingresso di lato invece che al centro è una scelta narrativa, no? Sì, perché entrando nello “spazio narrativo” di lato lo percepiamo diversamente, cambia la prospettiva. Ma allora anche alzare o ingrandire una finestra è una scelta narrativa? Sì, perché in qualche modo modifichiamo il rapporto che esiste tra interno ed esterno, come anche la quantità di informazioni che possono essere “lette”. E far passare il visitatore da una stanza quadrata a una rettangolare è una scelta narrativa? Certo, perché chi cammina percepirà o un’espansione o una contrazione dello spazio (a seconda dell’orientamento del rettangolo). E decidere se arretrare o meno il fronte di un edificio rispetto alla strada dove si affaccia è una scelta narrativa? Be’, sì, perché è come se venisse esplicitata la relazione con cui quell’edificio (poi dipende da che edificio sia: una casa, una chiesa, una banca, un museo, un grattacielo) si pone nei confronti del contesto, come e quanto questa relazione la si vuole evidenziare. E la decisione se incorporare o meno un grande albero nella struttura di un edificio? È una scelta narrativa molto forte, racconta in modo chiaro quale si crede debba essere il rapporto tra manufatto e natura. E l’altezza di un muro che divide due ambienti comunicanti è una scelta narrativa? Sì, perché́ l’altezza avrà un effetto diretto su ciò che si potrà leggere o intravedere o immaginare dell’altro ambiente; in più, è un modo chiaro di dirci se si intende far percepire come concatenati o divisi i due ambienti. E l’arretrare un ingresso per far spazio a un portico? Lo si vede al piano terra nella Stanza 1 con il Pantheon; è come arretrare o posporre un inizio, una sorta di introduzione. E illuminare in modo soffuso e decidere se farlo con luce diretta o indiretta sono scelte narrative? La luce, altro materiale tra i tanti stratagemmi narrativi a disposizione di un architetto, proietta chiarezza o può illudere per eccesso o per difetto; è direttamente legata alla chiarezza espositiva. E la ripetizione di elementi strutturali pressoché uguali (come il mio ripetere “è una scelta narrativa”) in mezzo al progredire di una serie di volumi che variano è una scelta narrativa? Certo, se usata con cautela è una sorta di anafora architettonica

https://www.wired.it/article/architettura-letteraria-matteo-pericoli-libro-il-grande-museo-vivente-dell-immaginazione/

Ha conquistato i newyorkesi (e poi il mondo) con i suoi disegni di Manhattan, poi è tornato in Italia, a Torino, dove si occupa di architetture, di storie, e delle loro relazioni. Lo abbiamo incontrato.

di Manuel Orazi

In molti si sono riferiti alla letteratura con la metafora dell’architettura, soprattutto per dare forma alla struttura di un romanzo. In pochi invece hanno fatto l’operazione inversa, immaginando cioè l’architettura come una struttura narrativa. È questa l’originale chiave di lettura di Matteo Pericoli che, abbandonata l’architettura come professione, ci è poi tornato alla rovescia o come si dice in inglese, inside out.

Laureatosi al Politecnico di Milano con Wolfgang Frankl – storico collaboratore di Mario Ridolfi – poco prima della sua scomparsa, è andato a lavorare a New York per Peter Eisenman, una breve parentesi, e quindi da Richard Meier. Nella Grande Mela fra il 1995 e il 2008 è avvenuta la sua metamorfosi, il passaggio cioè da architetto a illustratore, conquistando la città che non dorme mai che ha disegnato per intero prima dall’esterno, e poi dall’interno (in Manhattan svelata e Il cuore di Manhattan).

Se l’architettura di un romanzo fosse davvero un edificio – avesse cioè una struttura fisica, tangibile, fatta non solo di parole, che forma avrebbe?

Annie Ernaux, Gli anni

Paul Goldberger, allora critico del New Yorker, scrisse che Pericoli aveva conquistato i newyorchesi perché è stato il primo a osare di raccogliere in un unico rotolo tutto il profilo urbano dell’isola, disegnando cioè Manhattan come fosse Ascoli Piceno. Dopo tanti anni e molte altre avventure letterarie che lo hanno portato a collaborare con i più grandi quotidiani internazionali, Pericoli è tornato in Italia, ma non nelle Marche delle sue origini familiari, bensì a Torino.

Elena Ferrante, L’amica geniale

Qui ha trovato la Scuola Holden, dove ha proposto un modo completamente nuovo di pensare la letteratura: “le storie hanno bisogno di essere attraversate mentalmente prima ancora di essere scritte”. Quindi le storie sono dei passaggi, delle porte? “Non proprio, una storia non è una strada da percorrere… è più come una casa. Come ha spiegato il premio Nobel Alice Munro, in una storia ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo come le camere stiano in rapporto col corridoio, come il mondo esterno venga alterato se lo guardi da queste finestre. E anche tu, il visitatore, il lettore, sei alterato dall’essere in questo spazio chiuso, ampio e facile o pieno di svolte e angoli, pieno oppure vuoto di arredamento”.

Quindi ci si può anche tornare, “certo, la casa, la storia, offre sempre di più di quando l’hai vista l’ultima volta. Ha una sua vita autonoma, percepisci che non è stata costruita/scritta solo per fare da riparo o per intrattenerti”. Il risultato è una collezione di disegni curiosi, ora raccolti in un libro,, Il grande museo dell’immaginazione, che è forse il suo più ambizioso, a coronamento di questa sua seconda vita italiana. Di certo è il più teorico. 

Kurt Vonnegut, Mattatoio N. 5

Il candore intellettuale di Pericoli rimanda al Gianni Rodari di Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, pubblicato cinquant’anni or sono, l’unico testo teorico dello scrittore piemontese e perciò particolarmente significativo. Scriveva Rodari nella quarta del 1973 “Insisto nel dire che, sebbene il Romanticismo l’abbia circondato di mistero e gli abbia creato attorno una specie di culto, il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti”.

Analogamente Pericoli propone a tutti questo esercizio, cercando di sciogliere alcuni grandi interrogativi astratti senza mai voler apparire come un filosofo o un critico, piuttosto suggerendo soluzioni pratiche, alla portata di chiunque. Per esempio ponendo la domanda: se l’architettura di un romanzo fosse davvero un edificio – avesse cioè una struttura fisica, tangibile, fatta non solo di parole, che forma avrebbe?

È una domanda cui l’autore cerca di rispondere da oltre un decennio insieme ai suoi studenti del Laboratorio di architettura letteraria nato alla Scuola Holden e poi trasmigrato in altre università, “La ricezione crea interpretazioni che si traducono in forme, completamente diverse a seconda dello studente che vi si applica, non ce ne sono mai due uguali”. Le strutture disegnate, spesso bizzarre, sottolineano un fatto fondamentale: la lettura di un testo è tanto creativa (se non di più) della sua scrittura, “le scelte che si fanno durante la composizione di strutture architettoniche sono qualitativamente molto simili a quelle che fa chi sta narrando una storia… Ha più il sapore di una collaborazione tra due fonti attive che di una trasmissione > ricezione monodirezionale”.

https://www.domusweb.it/it/architettura/2023/05/23/architetture-letterarie-il-grande-museo-dellimmaginazione-di-matteo-pericoli-.html

Il saggio di Matteo Pericoli

Architetto, disegnatore e autore, nel suo nuovo libro l’autore propone una vera e propria guida all’esplorazione dell’architettura letteraria

di Lara Crinò

Che l’atto del narrare sia assimilabile, metaforicamente, a quello del progettare un palazzo, un quartiere, financo una città, è qualcosa che tutti sappiamo. Lo sappiamo per averlo esperito, da scrittori dilettanti o professionisti fin da piccoli: non ci viene forse consigliato, quando ci accingiamo a mettere su carta i nostri pensieri, proprio con un’espressione che arriva dall’architettura “fai la scaletta”, come se scrivere fosse mettere pioli per salire più alto? Lo sappiamo, anche, per averlo studiato. Di cosa parlano la teoria letteraria e la semiotica, se non di come si “costruisce”, di nuovo una metafora per così dire edile, il testo?

Nel suo nuovo libro Il grande museo vivente dell’immaginazione (il Saggiatore) Matteo Pericoli, architetto, disegnatore e autore, fa però un passo avanti proponendo, come recita il sottotitolo, una vera e propria Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria.

Scaturito dall’esperienza di un laboratorio con un gruppo di studenti di scrittura creativa della scuola Holden di Torino, questo saggio è un vero esperimento, a partire dal formato. Nelle prime pagine si propone infatti al lettore di affrontare la lettura come se si esplorasse un museo, con tanto di mappa, muovendosi da un «piano terra», che serve a introdurre i propositi del libro, fino a un «primo piano» e a un «secondo piano» in cui questi propositi si squadernano e vengono poi applicati a una serie di opere letterarie. La tesi di fondo proposta da Matteo Pericoli è questa: poiché quando leggiamo siamo sempre, più o meno consapevolmente, visitatori di uno spazio immaginario, allora è possibile attribuire alla nostra impressione di un certo testo una certa forma. Se possiamo esplorarne con la mente le varie parti, allora siamo in grado non solo di descriverle verbalmente ma di creare degli spazi, dei vuoti e dei pieni, che siano l’equivalente architettonico della storia che stiamo leggendo.

Non si tratta più di limitarsi a visualizzare degli scenari: anzi, chiarisce subito Pericoli, non gli interessano «le cosiddette location» di un romanzo, perché «concentrarsi su di loro, significa, in generale, perdere un’occasione». Ciò che l’autore propone è qualcosa di diverso: elaborare un’architettura che rifletta la struttura del testo. Come si fa? Per scoprirlo, bisogna salire prima di tutto fino al primo piano di questo libro museo, dove, con una carrellata storica, Matteo Pericoli spiega come ogni architettura, dalla capanna primitiva al Partenone, dalla cupola di Brunelleschi alla Villa Savoye di Le Corbusier, sia già di per sé un racconto che va interpretato.

Poi, continuando fino al secondo piano, si possono esplorare dodici interpretazioni di architetture letterarie: dodici opere che vengono trasformate in edifici. Il catalogo è variegato e interessante, tanto che a ogni buon lettore verrà voglia di leggere o rileggere i testi di cui si parla: da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad a L’amica geniale di Elena Ferrante, da Il giudice e il suo boia di Friedrich Dürrenmatt a Gli anni di Annie Ernaux, ciascun’opera viene disegnata come se fosse un’installazione o un edificio. C’è anche Italo Calvino, con il suo Il barone rampante.

Sono progetti suggestivi, giochi mentali, palazzi e città ideali che si sovrappongono a quelli reali in cui viviamo e ci muoviamo. Se il gioco vi piace, è questo il messaggio, potete andare avanti da soli, accumulando nuove architetture letterarie. E scoprirete che i libri che amate sono cattedrali, umili cortili, o città invisibili. Forse, i luoghi in cui vi sentirete più a casa.

https://www.repubblica.it/cultura/2023/04/15/news/matteo_pericoli_saggio_museo_vivente_immaginazione-396194958/

Da undici anni Matteo Pericoli insegna a studenti di tutto il mondo come analizzare la struttura narrativa di una storia e trasformarla con creatività e immaginazione in un edificio. Da questa esperienza è nato “Il grande museo vivente dell’immaginazione” (il Saggiatore), scritto a sua volta come se fosse un museo da esplorare, con tanto di mappa e bookshop

Dickow, Niddam, Porat, Topaz su un racconto di Yonathan Raz Portugali Hebrew University of Jerusalem

Per Ennio Flaiano i grandi libri non sono quelli che sfogliamo con disattenzione, che consumiamo per invidia o emulazione, che finiamo in fretta, con rabbia, per stare al passo con la moda letteraria del momento; ma quelli che rileggiamo così tante volte da abitarli, sentendoli addosso come certi angoli di casa nostra. Li teniamo sul comodino, in borsa o in uno scaffale preciso della libreria per rifugiarci quando ne abbiamo più bisogno. Per cercare risposte a domande che la vita ci pone distrattamente. Alcuni libri hanno la forma di una tenda, altri di un attico, altri ancora di una casa in collina.

Ci voleva però la poliedricità di un architetto, illustratore, docente e scrittore per scoprire come analizzare l’architettura di una storia e trasformarla con creatività e immaginazione in un edificio. Da undici anni Matteo Pericoli guida studenti in tutto il mondo (Stati Uniti, Italia, Israele, Svizzera, Taiwan ed Emirati Arabi Uniti) in un gioco che ormai è diventato un sorprendente esperimento dove non esistono errori, perché non c’è un dogma da seguire: il Laboratorio di Architettura Letteraria. Questo lavoro pluriennale è diventato un libro: “Il grande museo vivente dell’immaginazione” (il Saggiatore), scritto a sua volta come se fosse un museo da esplorare, con tanto di mappa e bookshop.

In questa guida generosa e attenta a seguire il passo del lettore, Pericoli svela i segreti per aprirsi al misterioso ma continuo legame tra fantasia e costruzione. E così Cuore di Tenebra di Joseph Conrad diventa una slanciata piramide inversa il cui vertice si trova a decine di metri sottoterra; L’amica geniale di Elena Ferrante si trasforma in due palazzi che si sostengono e respingono a vicenda. E via costruendo. Questo cantiere culturale non si esaurisce nel libro, ma si espande in un sito bilingue in costante aggiornamento.

«Undici anni fa una fiammella si è accesa in me, innescando una miccia i cui effetti non avevo previsto. Ero appena tornato dagli Stati Uniti e quando mi fu proposto di fare un workshop nella Scuola Holden, all’epoca un piccolo spazio in via Dante a Torino, decisi di approfondire un concetto che mi frullava in testa. Perché si dice che una storia ha una struttura, ha delle fondamenta oppure “non sta in piedi”? Ma mi sono accorto che parlando con gli studenti delle strutture narrative le parole non bastavano. C’era una quantità d’informazioni che mancava. Allora chiesi a loro: “Perché non me lo fate vedere usando cartone, forbici e colla?”. Questa banale domanda mi ha portato a fare una scoperta sorprendente».

Quale?
Tutti noi abbiamo un gigantesco lago sotterraneo di conoscenze inesplorate. Un calderone di energia creativa dato dalla lettura a cui non riusciamo spesso ad accedere perché se andiamo a ricercarlo con le parole ripeschiamo solo gli stessi concetti che avevamo elaborato in passato copiando pensieri altrui. Invece di continuare a usare le parole per spiegare qualche cosa che era fatto di parole, proviamo a dare una forma tangibile ai nostri pensieri sul libro. Così facendo ho notato che le conoscenze si decuplicano. E vale per tutti. Dai liceali che seguono i miei corsi a chi non ha letto tanti libri o non conosce bene l’architettura. Questo fenomeno si ripete a ogni laboratorio. 

Fermiamoci un momento all’ingresso di questo libro-museo in cui inviti il lettore a lasciare nel guardaroba i bagagli ingombranti che impediscono di capire meglio i legami tra storie e architettura. Quali sono gli ostacoli più difficili da abbandonare?
Per esempio pensare che la relazione tra architettura e letteratura sia un insormontabile sforzo intellettuale; non sentirsi all’altezza e dimostrare forzatamente di essere intelligente e preparato prima di leggere un libro. Ma soprattutto lo scetticismo; lo stesso che incontro all’inizio quando propongo questo gioco. Al primo incontro del laboratorio vedo alcune facce sgomente, terrorizzate. Poi il secondo e il terzo giorno vengo travolto da un entusiasmo pazzesco di chi capisce quanto sia bello trovarsi dall’altra parte.

Dall’altra parte rispetto a cosa?
Rispetto ai preconcetti. Al di là delle nostre conoscenze pregresse sullo stile, la narrativa, le etichette che diamo ai libri. Le storie non sono strade puntuali da percorre in base alle indicazioni date da altri, ma edifici da esplorare in libertà, immergendosi in uno spazio letterario. Ovviamente questo spazio è costruito da qualcun altro, lo scrittore, ma alla fine le costruzioni le facciamo quasi totalmente noi, nella nostra mente. La speranza è che una volta iniziato il libro-museo il lettore dica: sai cosa? Questi bagagli ingombranti li lascio lì ed esco più leggero di quando sono entrato. 

Allora entriamo leggeri e facciamo un esempio di costruzione architettonica derivata da una struttura narrativa.
Durante un laboratorio mi ha colpito il modo differente in cui può essere visto il racconto di Ernest Hemingway “Colline come elefanti bianchi”. Per gli architetti il rapporto affettivo tra i due personaggi era squadrato, come un parallelepipedo, mentre per dei ragazzi liceali si trattava di un’opera cilindrica, forse più idealizzata. Queste risposte ti riempiono la mente e il corpo di una sensazione positiva, perché con un testo non sarebbero riusciti ad approfondire così il rapporto tra i due protagonisti. Lo stesso mi è capitato con lo straordinario racconto di Amy Hempel intitolato “Il raccolto”. In undici anni di Laboratorio di Architettura Letteraria non ci sono mai stati due edifici somiglianti. Il punto è che i nostri pensieri  hanno una forma e una sensazione pre verbalizzata, diversa per ognuno, che spesso ignoriamo, saltando subito al passaggio successivo per alimentare il nostro monologo interiore. Il laboratorio esalta ciò che le parole scritte sgonfiano. Ci sono risultati continui perché questo processo è qualcosa di estremamente naturale che viene fuori solo se ci si rilassa.

Questo approccio innovativo potrebbe essere usato nelle scuole per avvicinare i giovani, ma anche i meno giovani, alla lettura?
Certamente. Rendersi conto che la lettura è equiparabile a un’esplorazione di un luogo la cui forma definitiva è incastrata nelle nostre sinapsi potrebbe essere una spinta ad affrontare le storie in una maniera diversa. Ovvero non cercando di replicare quello che altri hanno precedentemente detto o pensato su quel libro. Siccome un’opera ci è stata presentata come bella, brutta, semplice o complessa non dobbiamo cercare nel testo una sensazione che altri hanno già trovato. Sappiamo molto di più di quanto pensiamo di sapere. Andando a ritroso alla fonte delle idee che hanno un peso e una forma, tutti possiamo trovare i nostri spazi, costruendo, decostruendo, abbattendo e ricominciando. E gli errori non esistono più, non ci sono insegnanti e studenti.

Nel libro approfondisci due concetti importanti che accomunano letteratura e architettura: il vuoto e il contesto.
L’architettura è la compagna costante dell’intera esistenza. Passiamo la nostra vita attraversando, trapassando architetture e spazi uno dopo l’altro. Per capirli parliamo di stili e forme, ma trascuriamo spesso l’effetto più potente dell’architettura: ciò che non c’è. Le nostre stanze sono circondate da pareti ma noi viviamo e lavoriamo all’interno dell’unico spazio che non è stato costruito. E così anche nelle storie diamo tanta rilevanza alle pagine, ai paragrafi, alle frasi e alle parole, trascurando quanto sia importante lo spazio all’interno di una storia. Un elemento ineffabile che noi dobbiamo ricostruire nella nostra mente. E come lo facciamo dipende necessariamente dal contesto. Non solo quello all’interno del quale fuoriesce il libro o l’edificio, ma anche il mio contesto: tutto quello che ho imparato, sentito, creduto finora; le mie aspettative e le mie idee che mi fanno approcciare sempre in modo diverso alla storia o allo spazio in base alla mia condizione esistenziale di quel momento. Concentrandosi ogni volta su dettagli e spazi diversi.

Ha parlato di quanta architettura c’è nella letteratura, ma quanta letteratura c’è nell’architettura?
L’architettura è impregnata di narrativa. Ogni scelta compositiva di chi ha progettato gli spazi che viviamo (dalla sequenza dei volumi ai loro collegamenti, da ciò che viene rivelato a ciò che viene celato, dall’impatto della luce al mistero dell’oscurità, e così via) è in realtà una scelta narrativa, alcune volte fatta consapevolmente altre no. L’architettura poi determina la narrazione della nostra giornata. Pensa al momento in cui attraversi la soglia ed esci di casa la mattina: nella tua testa pensi che stia iniziando qualcosa di nuovo ma quel qualcosa in realtà non esiste perché fuori dalla porta nulla è iniziato e nulla è terminato, tutto è sempre esistito. L’architettura è il nostro escamotage per inscatolare la narrazione quotidiana: aprire la finestra per cambiare l’aria la mattina, uscire di casa, ritornare a casa, salire le scale, scendere le scale Questa interazione con l’architettura è inconscia ma profondamente narrativa e determina come incaselliamo il racconto della nostra vita. Ogni nostro movimento è una lettura dello spazio e senza saperlo siamo già in grado di capire la concatenazione delle narrazioni dell’architettura che ci circonda. Perché usciti da un edificio andiamo a destra invece che a sinistra? 

E conoscendo istintivamente gli spazi architettonici siamo in grado di analizzare le strutture narrative?
Sì, ognuno a modo suo dà significato a elementi diversi privilegiando uno rispetto all’altro. La porta ha un potenziale narrativo chiaro, ma per qualcuno può essere importante l’altezza di un soffitto La finestra messa nel posto giusto per qualcuno è una rivelazione. Ma se lo trasmetti a un altro bisogno narrativo non funziona per niente.  Immagina la prima volta che in un edificio architettonico di qualsiasi tipo, primordiale o non, qualcuno con un martello o una mazza ha buttato giù un pezzo di muro e ha visto il mondo fuori senza poterlo oltrepassare. Chissà, forse ogni elemento architettonico ha il suo corrispettivo letterario, in fondo è cosi che nascono le storie.

Castelli di carta | Guida all’architettura letteraria per esplorare in modo innovativo i libri (e sé stessi)

di Andrea Fioravanti, pubblicato su Linkiesta il 26 novembre 2022:
https://www.linkiesta.it/2022/11/museo-vivente-immaginazione-pericoli-saggiatore/

Non mi sembra vero.

Dopo quattro anni di lavoro, quella che all’inizio sembrava una confusa sequenza di stanze è diventata un vero e proprio libro-edificio.

Il grande museo vivente dell’immaginazione. Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria, edito da Il Saggiatore, esce venerdì 25 novembre.

di Marco Maggi
Arabeschi N. 12, Dicembre 2018

Con l’aria di disegnare architetture e profili di città, Matteo Pericoli conduce da vent’anni un’indagine profonda e affascinante sul senso dei luoghi e dell’abitare. L’autore stesso la definisce una «ricerca dello spazio attraverso il disegno del dettaglio».

Manhattan Unfurled The East Side – Financial District (dettaglio)

All’origine fu Manhattan Unfurled (2001), lo skyline della City di New York srotolato su due nastri di carta della lunghezza di dodici metri ciascuno; quindi il rovesciamento di prospettiva con Manhattan Within (2003), la città vista dall’interno di Central Park. Seguirono London Unfurled (2011) e prima, in forma di ‘capriccio’, niente meno che World Unfurled (2008). Nel frattempo la sperimentazione sulla forma panoramatica era stata affiancata da una ricerca sulle ‘vedute’, con The City Out My Window: 63 Views on New York (2009).

Con l’inizio di questo decennio Matteo Pericoli ha orientato sempre più la sua ricerca sulle relazioni tra architettura e letteratura. Lo strumento d’indagine è sempre lo stesso, la sua matita, al più ora affiancata dai modelli in tre dimensioni costruiti nell’ambito di un Laboratorio di Architettura Letteraria proposto con successo nei dipartimenti di architettura e nei corsi di creative writing delle università di mezzo mondo, da Ferrara a Taipei, da Gerusalemme a New York.

Abbiamo incontrato Matteo Pericoli a margine dell’edizione del Laboratorio di Architettura Letteraria svoltasi alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino tra il 16 e il 19 novembre 2017.

D: Il Laboratorio di Architettura Letteraria si presenta come un’«esplorazione transdisciplinare di narrazione e spazio». I partecipanti sono invitati a costruire con colla e cartoncino un modello architettonico capace di restituire a un potenziale visitatore l’esperienza percettiva, cognitiva ed emotiva ricavata dalla lettura di un testo narrativo. Da quale percorso è nato questo progetto?

R: Volendo fingere di rendere in maniera lineare un percorso che è stato in realtà tortuoso e spezzato, costellato di sorprese e casualità più che guidato da un disegno consapevole, direi che all’origine fu la tesi di laurea in architettura con Volfango Frankl e Domenico Malagricci, che erano stati collaboratori di Mario Ridolfi. Lavorando con loro avevo avuto il sentore che l’architettura fosse qualcosa di diverso dalle cose che avevo ascoltato nei corsi universitari a Milano. Tra l’altro, loro, anche per ragioni anagrafiche, disegnavano tantissimo, facevano tutto a mano, in un momento in cui – si era all’inizio degli anni Novanta – si stava affermando la tendenza a fare tutto al computer.
Fu grazie a queste persone che mi venne la curiosità di andare a vedere le architetture dell’ultimo Michelucci, dalle quali compresi un principio che ho cercato poi di applicare all’architettura letteraria: l’intuizione, cioè, che il materiale da costruzione non sono tanto soffitti e pareti, bensì il vuoto; che l’architettura è in primo luogo modellazione dello spazio.
Fu su questa spinta che mi decisi ad andare a New York, dove finii per lavorare nello studio di Richard Meier (dove peraltro scoprii, con un certo sentimento di rivincita, che là si faceva tutto a mano!). Qui però mi accorsi anche che ciò che mi interessava veramente fare era narrare col disegno. Volevo esplorare la dimensione della linea, che è l’elemento grafico più vicino alla parola, alla narrazione, per provare a dare una forma all’affetto che provavo per quella città. New York Unfurled è nato così, poi sono venuti tutti gli altri.
Anche il fatto di dover parlare, pensare e leggere in un’altra lingua ha forse favorito quel processo di ‘sganciamento’ dal linguaggio che mi ha condotto ad apprezzare la lettura in maniera diversa, a partire dall’esperienza sinestetica di percepire altro oltre alle parole. Come quando, passeggiando in una piazza con qualcuno, anche se sei concentrato su ciò che stai raccontando, quando arrivi dall’altra parte ti sei formato un’idea di quel luogo.

D: Poi ti sei trasferito a Torino.

LabLitArch – Jeffrey Eugenides ‘Middlesex’

R: Nel 2009 iniziai a tenere un corso alla Scuola Holden intitolato La linea del racconto. Facevo disegnare agli allievi della scuola di scrittura la loro finestra, quindi chiedevo loro di descriverla con le parole. Mostravo loro le opere di Saul Steinberg per indicare il territorio di confine fra scritto e disegnato che volevo che esplorassero. L’anno dopo quelli della Scuola mi chiesero vagamente di fare ‘qualcosa di più’. Fu così che nacque l’idea dell’architettura letteraria. Vedevo tutti questi ragazzi che parlavano di architettura dei romanzi, di funzionamento delle storie, e volevo dire loro: «Io in teoria sono un architetto, o comunque un appassionato di questa cosa che è lo spazio: perché non mi fate vedere, invece di parlarne, come funziona la narrazione, perché non proviamo a capire insieme perché, come si dice, le storie stanno o non stanno in piedi?». Il primo laboratorio fu sconvolgente, erano tutti studenti di scrittura, dunque nessuno sapeva costruire un modellino, c’erano cartoni dappertutto, ma le idee erano così incredibilmente avanzate, sofisticate, erano idee che non mi ero nemmeno lontanamente sognato durante gli studi di architettura. Fu allora che intuii che l’architettura letteraria non era un’idea ma un possibile cammino di scoperta.

D: Quali contributi può portare il tuo laboratorio alla comprensione di che cos’è un testo letterario?

LabLitArch a Gerusalemme

R: La cosa forse più interessante di un’operazione come questa è che accende la luce su cosa succede nella parte destra del cervello mentre leggiamo. Pensiamo alla lettura come a un’attività confinata nell’emisfero sinistro, quello del linguaggio, ma in realtà qualcosa succede anche dall’altra parte. Il laboratorio consente di gettare luce su questa zona in penombra. Però al tempo stesso vorrei che la ‘magia’ avvenisse in maniera non scientifica. All’inizio, dopo i sorprendenti risultati delle prime edizioni, ero stato io a chiedere a dei neuroscienziati che si occupavano della percezione dello spazio di aiutarmi a comprendere cosa accadeva nel laboratorio. Ora, pur continuando a leggere su questi argomenti, preferisco cercare risposte dal laboratorio stesso, che ripropongo sempre quasi identico, sia perché spero di riprodurre ogni volta la sorpresa della prima volta, sia per misurare eventuali scarti, che sono grandi elementi di apprendimento. Soprattutto, credo che le risposte più profonde, più ancora che dallo studiare o anche dal progettare le architetture letterarie, vengano dal disegnarle con la matita e realizzarle col cartone: lì si vede subito come funziona una storia, se sta o non sta in piedi…

D: L’unico precetto dell’Architettura Letteraria, come spieghi ai partecipanti al laboratorio, è di essere ‘letterari’ e non ‘letterali’. Cosa intendi dire?

R: Se ‘costruisci’ Gita al faro di Virginia Woolf e fai il modellino di un faro sei fuori strada. Hai usato quello che l’autrice ti ha suggerito e ti sei fermato lì. Ma cosa significa la gita al faro, cosa è successo prima, la morte della nonna, l’assenza, il motivo per cui tu vai al faro… Tutto questo è assente. Se il faro lo inserisci alla fine, perché è coerente con la costruzione, allora può funzionare; però ci deve essere tutto il resto… Nella Gita al faro il faro può essere una soluzione architettonica diversa, il faro può anche essere un buco.

D: Di recente hai esplorato un altro aspetto delle relazioni tra letteratura e spazialità, con l’illustrazione delle architetture d’invenzione di due classici della letteratura italiana: i mondi ultraterreni di Dante per un’edizione scolastica della Commedia commentata da Robert Hollander e le utopie urbane di Italo Calvino per una traduzione brasiliana delle Città invisibili. Ti sei cimentato anche con le immagini di copertina di alcuni libri. Quali lezioni hai tratto da quest’altra diramazione del tuo progetto di ricerca letteraria attraverso lo spazio e il disegno? Come declini, in questo caso, il tuo precetto di essere letterari e non letterali?

Zemrude

R: È una domanda buffa, perché, nel caso dell’illustrazione, il precetto di essere letterari e non letterali non vale. A mio parere l’illustrazione dev’essere un servizio al testo, è lui che ‘comanda’, quindi va fatta con dedizione e ‘altruismo’. È una cosa diversa dall’architettura letteraria. Sono, per così dire, due sport diversi: l’illustrazione è una specie di tiro al bersaglio, devi centrare l’obiettivo; l’architettura letteraria, invece, è come il tennis: l’obiettivo è rinviare la palla entro uno spazio che è delimitato, ma che al contempo offre soluzioni diverse. Nel caso di Dante e Calvino, ho cercato di sottolineare tutti i passi in cui era chiaramente descritto come funzionano le loro architetture. Di lì in poi ho dovuto cercare soluzioni a problemi architettonici che né Dante né Calvino avevano dovuto affrontare, in quanto le loro architetture sono fatte di parole e non di tratti. Erano comunque sempre soluzioni fornite a problemi ‘tecnici’.

D: L’ultima domanda è rivolta al lettore. Uno spiraglio sui ‘tuoi’ autori è offerto dalle Literary Architecture Series pubblicate su ‘Paris Daily Review’, ‘La Stampa’, ‘Pagina99’: in ordine sparso, Fenoglio, Faulkner, Dostoevskij, Tanizaki, Carrère, Ernaux, Conrad, Calvino, Vonnegut, Ferrante, Saer, Dürrenmatt… Quali sono i tuoi favoriti? E soprattutto, che tipo di lettore sei? Come ti poni di fronte a un’opera letteraria?

Tanizaki, La chiave

R: Tutte queste letture sono state in qualche modo sorprendenti. In realtà per sei anni avevo chiacchierato tanto ma non avevo fatto nulla, nel senso di costruire architetture letterarie. Poi il direttore de ‘La Stampa’, Maurizio Molinari, mi lanciò la sfida. La prima fu Gli anni di Annie Ernaux. La chiave di Tanizaki è un’architettura perfetta. Mattatoio n. 5 di Vonnegut è una lettura che tutti dovrebbero fare, non ha niente a che vedere con le etichette che gli hanno appiccicato, la fantascienza, l’umorismo… È uno sforzo immane condotto con una leggerezza inimmaginabile, per me è quasi eroico. Credo che sarei più pronto a ricostruire domani la cupola del Brunelleschi – con qualcuno che mi aiuta! – piuttosto che scrivere una cosa così.
Nel corso di questi anni la lettura è diventata per me una sorta di viaggio esplorativo. Mi faccio prendere per mano, se lo scrittore o la scrittrice lo vogliono, oppure mi affido al mio desiderio di esplorare la storia alla ricerca di sorprese narrative, spesso soffermandomi a osservare i dettagli, così essenziali nell’architettura come anche nella narrazione; alle volte mi trovo a gioire e godere di quello in cui mi imbatto, ogni tanto a intristirmi per le potenzialità mancate, o per dettagli progettati male.

Leggi direttamente dal sito di Arabeschi: http://www.arabeschi.it/architettura-letteraria-una-conversazione-con-matteo-pericoli-/

Matteo Pericoli: l’architettura delle storie
di Alessandra Garzoni

In onda: 2 luglio 2019 – ore 8:00

Architetto e disegnatore attivo in Europa e negli Stati Uniti, Matteo Pericoli si interroga da anni sul perché le storie “stanno in piedi”. L’Architettura Letteraria, pratica innovativa di cui si occupa, esplora lo spazio narrativo passando per la costruzione di modelli architettonici delle opere letterarie. Ospite venerdì 29 giugno 2018 al Long Lake Festival, Matteo Pericoli ha dialogato con il Professor Marco Maggi dell’USI. Alessandra Garzoni lo ha intervistato per noi in occasione della sua visita a Lugano.

https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/attualita-culturale/Matteo-Pericoli-larchitettura-delle-storie-10571229.html

La Stampa Torino, 28 settembre 2017

di Ilaria Dotta

Elena Ferrante, L’amica geniale

“Costruire una storia è come costruire una casa. Uno spazio in cui si può entrare e rientrare più volte, per scoprirlo sempre differente. A cambiare è lo sguardo, la percezione mutevole di chi prende in mano il libro e, dopo un’occhiata veloce alla copertina, si tuffa tra le righe della prima pagina. È come spalancare una porta, accettando di addentrarsi nella struttura costruita, più o meno consciamente, dallo scrittore. Di immergersi nello spazio letterario edificato da qualcun altro. Ma che forma hanno un romanzo di Calvino oppure di Dostoevskij? Una semplice capanna o magari un castello dalle linee sinuose illuminato da mille finestre, o ancora un labirinto dai muri spessi e senza il tetto. Trasformare in palazzi le grandi opere della letteratura è ciò che fa Matteo Pericoli […]”


Continua a leggere sul sito de La Stampa:
https://www.lastampa.it/torino/appuntamenti/2017/09/28/news/matteo-pericoli-l-architetto-letterario-1.34427945

“Gli anni” di Annie Ernaux

Le “strutture architettoniche” del testo rivelano cose che non sapevamo di sapere

di Matteo Pericoli

Vi è mai capitato, leggendo un libro, di avere l’impressione di trovarvi all’interno di una struttura costruita, consciamente o inconsciamente, dallo scrittore? Con ciò non intendo il naturale processo di visualizzazione delle ambientazioni descritte nel testo, ma la netta sensazione di sentirsi immersi in uno spazio, uno spazio letterario, costruito da qualcun altro.

Nel descrivere testi letterari si usano spesso metafore architettoniche, a partire dall’architettura del romanzo. Parlare di «costruzione di un testo» rende bene l’idea del laborioso atto di concatenare una parola all’altra. Un grande architetto è capace di farci muovere nello spazio con fluidità o con circospezione; ci fa rallentare per assorbire tutti i dettagli; ci può sorprendere o rassicurare. Un grande scrittore fa lo stesso.

Sono sei anni che con i partecipanti del Laboratorio di Architettura Letteraria cerchiamo di andare a scovare le strutture letterarie dei testi che analizziamo e di costruirne dei plastici architettonici, tangibili, fatti di cartone e colla. Usando lo spazio invece delle parole, cerchiamo di capire insieme come funziona, e di cosa è fatta (se così si può dire), l’architettura di un romanzo o di un racconto, di un saggio o di un qualsiasi tipo di testo letterario. Come in un progetto architettonico – dove si ha a che fare con idee spaziali da articolare, concatenare e trasmettere; strutture di sostegno; sequenze di volumi; sospensioni e sorprese – le questioni in un testo narrativo sembrano simili: come collegare diversi piani narrativi? Come esprimere tensione? Come organizzare la cronologia? Come collegare personaggi o creare un vuoto?

Al laboratorio partiamo dal testo e lavoriamo a ritroso: rimossa la materia di un edificio (muri, divisori, coperture, vetrate, ecc.), quel che resta è puro spazio. E tolte le parole da un romanzo, cosa resta? Cerchiamo un’idea compositiva che sia alla base della forma «costruita», architettonica o letteraria.

Le intuizioni strutturali, ma anche le emozioni e le sensazioni che prova ciascun partecipante durante la lettura, vengono ripensate e tradotte in termini di spazio, proporzioni, luce, ombra, pieni e vuoti. Siamo tutti esperti di architettura, nel senso letterale di esperire lo spazio. Infatti, durante il Laboratorio, anche chi non ha mai pensato o progettato in termini architettonici si trova a produrre idee fatte di spazio compositivo. Scopriamo che usando lo spazio invece delle parole riusciamo a penetrare un testo in modo più profondo. È come se, immersi nel romanzo che stiamo leggendo, potessimo alzare lo sguardo dal libro e vedere la sua architettura che, come per magia, si è andata via via creando attorno a noi; e scoprire che, come mi ha detto una studentessa-scrittrice davanti al suo plastico finito, «so delle cose su questa storia che non sapevo di sapere».

Pezzo pubblicato in occasione della prima uscita della rubrica “Architetture letterarie” su La Stampa (poi proseguita su Pagina99).
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